Il merito del demerito
Non conosco quasi nulla di etologia, quindi corro il rischio di dire una sciocchezza, ma è un rischio che affronto volentieri. Mi pare di aver letto da qualche parte che l’inimicizia tra cani e gatti deriva da un equivoco dovuto a un difetto di comunicazione. Quando i gatti agitano la coda, è segno che sono irritati, quando lo fanno i cani manifestano la loro contentezza. Quindi cani e gatti non si capiscono, mal interpretano i loro reciproci atteggiamenti, col risultato di abbaruffarsi.
Purtroppo cani e gatti non sono in grado di mettersi d’accordo sul significato dei loro segnali. Se così fosse, cesserebbero di abbaruffarsi. Gli esseri umani, invece, dovrebbero essere in grado di accordarsi sul significato dei segni linguistici, cioè delle parole che usano per comunicare fra loro. Dovrebbero farlo sempre, quando il discorso diventa complesso e, se mancano premesse chiare, corre pericolo di finire in baruffa. Invece molto spesso non lo fanno,con il risultato di perdere tempo e non concludere nulla.
Tutta la polemica che si è accesa in questi giorni per la ridenominazione del Ministero dell’Istruzione, diventato Ministero dell’Istruzione e del Merito (io l’avrei ridenominato Ministero dell’Ignoranza, secondo un sarcastico suggerimento del compianto Fedele D’Amico) nasce proprio da una simile rinuncia a definire di che cosa si vuol parlare. Del merito, d’accordo.Ma che cos’è il merito? Potremmo dire che è il riconoscimento di un’eccellenza. Eccellenza di che cosa? Di un risultato. Un risultato dovuto a che cosa? Qui cominciano le ambiguità.Uno può raggiungere un risultato eccellente grazie soltanto al proprio ingegno, spendendo poche energie. Un altro può raggiungere il medesimo risultato solo grazie a un impegno costante. Un altro può raggiungere un risultato inferiore, impegnandosi 24 ore su 24. Chi è meritevole davvero? Il primo, il secondo o il terzo? Il primo, perché è arrivato alla meta senza sforzo? Il secondo, perché s’è impegnato? Il terzo, perché, poverino, pur non avendo raggiunto l’eccellenza ha speso tutto sé stesso pur di raggiungere un risultato per molti aspetti apprezzabile?
In quest’ultimo caso, il merito non riguarda tanto il risultato in sé, quanto il miglior risultato ottenibile, date certe capacità, con un impegno strenuo. Capacità e impegno rimangono quindi ben distinti. Ci si può impegnare moltissimo con risultati modesti, ma il merito rimane salvo, anzi di solito viene maggiormente gratificato, se va oltre certi limiti (24 ore su 24, dicevamo prima). Quando la Costituzione della Repubblica Italiana, all’art. 34, comma 3, recita che “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”, pare proprio attenersi a questa distinzione. Il merito di cui si parla attiene unicamente all’impegno. Se poi all’impegno si aggiunge la capacità, chi gode di entrambi i requisiti, posti sullo stesso piano d’importanza, deve poter raggiungere i livelli più elevati dell’istruzione anche se privo di mezzi.
Tutto chiaro, quindi? Niente affatto, Perché anche sul merito così inteso si possono sollevare obiezioni. D’accordo, l’impegno scolastico, indipendente dalle capacità. Ma siamo sicuri che la propensione a impegnarsi nello studio non dipenda da circostanze legate al reddito, all’ambiente, alle frequentazioni, oltre che alle nozioni e ai valori che determinate classi sociali sono in grado di inculcare ai loro figli, facendone una sorta di inclinazione naturale? A questo punto la distinzione tra capacità e impegno scricchiola, perché anche l’impegno, se è determinato, almeno in parte, da fattori indipendenti da scelte individuali del tutto consapevoli, finisce con il colorarsi di un carattere classista.
Forse è proprio questo il motivo per cui, nella troppo celebrata “Lettera a una professoressa” di Don Milani, spesso citata e poco letta, accanto a considerazioni condivisibili e altre meno, c’è un atteggiamento che non ho mai riuscito a digerire: l’astio contro gli scolaretti appartenenti alle famiglie benestanti. Dà quasi fastidio che, proprio perché sono benestanti, riescano meglio negli studi. Per questo vanno bastonati? Non è una discriminazione alla rovescia?
Se ho ben capito, in un recente editoriale del “Corriere della sera” Paolo Giordano ripropone il problema nei termini della scuola di Barbiana, suggerendo anche una soluzione. Se il merito, inteso come impegno, dipende anch’esso dalla società, privilegiando chi appartiene ai ceti sociali più benestanti, allora non è possibile attribuire alla scuola -con il risultato di ottenere soltanto un aggravio di burocrazia e una sempre più accentuata spaccatura fra famiglie e istituzione – il compito di pareggiare le disuguaglianz sociali facendo leva sul merito inteso come impegno. Bisogna prima rimuovere le disuguaglianze di base, attraverso provvidenze che competono ad altre istituzioni. Solo così si potrà avere una scuola non discriminatoria, che non necessita di adottare particolari strumenti selettivi, “meritocratici”, per raggiungere i suoi scopi.
A me pare che siamo in piena utopia. Non che il discorso di Don Milani e di Giordano sia in sé sbagliato, ma rimane vero che molti figli di povera gente, grazie alla scuola seria di un tempo (il che non vuol dire che fosse priva di difetti, tutt’altro) sono riusciti ad accedere ai piani alti dell’istruzione, raggiungendo posizioni sociali di riguardo, proprio grazie a capacità (innate) e a un impegno intrinseco (dovuto a scelte del tutto autonome? Suggerito da genitori che ne capivano l’importanza nonostante il loro modesto livello di reddito e di istruzione?) Un esempio per tutti: il caso del compianto Sergio Ricossa, esimio economista, Professore universitario a Torino, Accademico dei Lincei, membro della Mont Pelerin Society, autore di saggi ponderosi e di opuscoli piacevolissimi. Era figlio di un operaio della Fiat. Per farlo studiare i suoi genitori dovevano tirare la cinghia. E’ stato lui a raccontarci che la madre andava al mercato verso il momento di chiusura, per poter comperare i generi alimentari di prima necessità a prezzi più bassi. Erano i tempi in cui, al Liceo, per guadagnarsi la sufficienza bisognava sudare non poco. Che fine farebbe un Ricossa oggi che i voti alti si donano a iosa e all’esame di fine corso i bocciati si contano sulle dita di mezza mano?
A parlare di “demerito del merito”, parecchi anni fa, è stato Pierluigi Barotta, in un saggio pubblicato da Rubbettino. Il libello di un comunista sfegatato? Neanche per idea, di un saggista che si definisce liberale (altrimenti, difficilmente avrebbe potuto pubblicare per Rubbettino). Intendendo anche lui il “merito” come un’eccellenza in cui è difficile distinguere fra capacità e impegno, giunge a conclusioni del tutto opposte a quelle di chi propone un’eguaglianza impossibile dei punti di partenza (quella che pur era auspicata dal liberale Einaudi e che, a ben vedere, è alla base del succitato art. 34 della Costituzione). Una società basata sul merito inteso soltanto come impegno non condizionato da ragioni di classe sociale, sarebbe inevitabilmente una società totalitaria. Solo un regime dispotico, che toglie arbitrariamente agli uni per distribuire agli altri, può raggiungere un’eguaglianza assoluta di tutti i consociati (non ci sono riusciti del tutto nemmeno i regimi comunisti). Meglio allora tollerare un certo grado di diseguaglianza. Tra l’altro, bastonare i benestanti solo perché sono benestanti, significa distruggere un patrimonio di ricchezza materiale, di conoscenze, di capacità, di valori, dovuti senz’altro alla fortuna di essere nati un certo ceto, ma che però, se ben impiegati, tornano a beneficio della società nel suo complesso.
E allora? Torniamo alla scuola meritocratica, con tutti i suoi difetti, del tempo antico, aiutiamo le famiglie povere dei ragazzi che vogliono studiare. Avremo il vantaggio, non da poco, di non faticare a trovare, come capita sempre più spesso, un buon medico, un buon ingegnere, un buon architetto, un buon informatico, un buon geometra, un buon elettricista, un buon idraulico. Magari anche un buon insegnante di Greco e Latino, per quei fuor di testa che vogliono spendere il loro tempo a studiare cose inutili.
Ormai non mi stupisco più di nulla in questo sito, ma per fortuna vedo vie, piazze, giardini e scuole (soprattutto SCUOLE) dedicate a DM: della povera, insignificante e pure un po’ stronza prof della “Lettera” neppure sappiamo il nome.
Qualcosa vorrà pur dire.
Totalmente inadeguato poi l’esempio del Ricossa ragazzo, figlio di un operaio fiat a Torino, cioè quasi un signore in confronto ai ragazzi spala-letame del Mugello, come lo è un qualsiasi stipendiato urbano rispetto ai precari braccianti di Villa Literno.
E circa il presunto odio / astio per i rampolli ricchi, si può avere: libro, pagina, capoverso?
Non ho sotto mano il testo del libello di Don Milani. So che trasuda astio non tanto verso i “ricchi”, quanto verso la classe media. Proprio qualche anno dopo la sua pubblicazione, la casa editrice “Il Mulino”di Bologna pubblicava un saggio dei sociologi Marzio Barbagli e Maurizio Dei intitolato proprio “Le vestali della classe media”, che prendeva a bersaglio il corpo insegnante (in prevalenza femminile) della scuola pubblica, accusato di diffondere i “valori” del suo ambiente di appartenenza a scapito di quelli dei ceti più umili, bollandoli come “disvalori”. Arturo Carlo Jemolo ne respingeva l’assunto, sostenendo che alcuni “disvalori” condannati dalla scuola sono proprio disvalori da mettere al bando. Per onestà va rilevato che la polemica sessantottina e post-sessantottina contro la scuola selettiva è andata di là dagli intenti di Don Milani, i cui strali si rivolgevano in particolare alla scuola dell’obbligo.E’ anche vero però che propria dal suo libello prese l’avvio la denigrazione di quella “cultura alta”, specie di taglio umanistico, che aveva sempre caratterizzato gli studi superiori. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. La scuola non deve più insegnare a pensare con la propria testa: deve insegnare alcune “abilità” che possano essere spese nel mondo del lavoro. Un bell’esempio di eterogenesi dei fini: le lotte sessantottine erano indirizzate contro un insegnamento ritenuto funzionale al sistema produttivo capitalistico, e ora, alla fine di tutto il percorso, siamo arrivati a una scuola molto più funzionale a tale sistema di quella di un tempo. Omero, Platone, Virgilio Dante economicamente sono improduttivi. La Storia non serve a nulla. Improduttiva anche la Filosofia: inutile, in particolare, l’epistemologia, che insegna a dubitare anche delle cosiddette “verità” scientifiche. E’ il trionfo della Scienza come dogma, quella dei Burioni, Bassetti, Pregliasco e compagnia cantante, che ci ha deliziato per due anni e continua a deliziarci. Io rimango con Pasolini: la scuola deve essere repressiva, perchè deve reprimere l’ignoranza. Deve smettere di produrre quelli che Fabio Massimo Nicosia chiama “i semicolti”.
Nella “Lettera” io non vi trovo astio, casomai una sana geniale critica beffarda in frasi come (cito a memoria): “Pierino figlio del dottore scrive bene… certo fa parte della Ditta…” (“Ditta” intesa come quelli della classe media che parlano lo stesso linguaggio degli insegnanti). Schiaffettino morale con sfottò incluso: da premio Pulitzer.
La “Lettera” poi è scritta dai ragazzi, con DM già malato. Certo c’è il suo imprimatur, ma non è sua. Basta con la storia del 68 per colpevolizzare DM, ognuno è responsabile di se stesso, DM si occupava di scuola dell’obbligo e diseredati, non di università e privilegiati figli di papà contestatori.
Nessun progressista poi oggi direbbe che DM usava le punizioni corporali, perchè non gli fa comodo dirlo. Ma neppure un conservatore oggi direbbe che DM usava le punizioni corporali, per meglio incolparlo del lassismo che poi è seguito.
E soprattutto perchè forse manco lo sanno, visto che negli edulcorati
sceneggiati Rai non se ne parla proprio e su wiki si afferma addirittura il contrario.
E invece DM se occorreva usava le punizioni fisiche, lo dicono i ragazzi nella “Lettera” (cito a memoria): “il giorno dopo i segni erano andati via e facevano meno male delle bocciature”.
Comunque, se vogliamo, un DM socialmente rivoluzionario e anti-ricchi esiste, ma occorre rifarsi a “L’obbedienza non è più una virtù”, in cui lì sì c’è una vera incazzatura che ha sorpreso pure me. Non mi ricordo però che si parlasse di scuola.
“Basta con la storia del 68 per colpevolizzare DM”. Bene. Anno 1970, in un Istituto Magistrale della città di***. Il professore di Filosofia C***gode di grande prestigio per aver partecipato alla Resistenza e aver fatto parte del CLN. Aveva salutato con gioia le rivolte sessantottine. E’ solito, durante le sue ore, lasciare che gli studenti facciano quello che vogliono. Tutto il lavoro che ha svolto, nella sua classe, è di aver detto qualcosa sul “Mito della Caverna” in Platone. Alla fine dell’anno, durante uno scrutinio, difende la causa di una studentessa meritevole di bocciatura tirando in ballo la scuola di Barbiana. Ecco in che modo si sono promossi futuri insegnanti ciucci che, a loro volta, avrebbero allevato e promosso alunni ciucci.
Bastava far notare allo stupido prof quello che ho scritto nel post precedente, ovvero che lassismo e fancazzismo erano l’esatto contrario dei metodi di DM e non avrebbe avuto argomenti.
Ci sarà bene in qualche istituto magistrale qualcuno che ci scriverà: “Cari ragazzi,quelli di voi che vogliono essere maestri venite (sic!) a dar gli esami quaggiù: ho un gruppo di colleghi pronti a chiudere due occhi per voi” (“Lettera a una professoressa, pag.126). Colleghi analfabeti, evidentemente. Amici del prof.C*** nell’Istituto*** della città di***.
D’accordo, magari DM avrà esagerato e drammatizzato un po’. Siamo essei umani.
Ma il problema principale secondo me è che il suo metodo è difficilmente esportabile. DM portava tutti alla III media senza bocciature, ma con scuola a tempo pieno, fiato sempre sul collo e molto rigore.
Ovviamente la cosa è difficilmente sostenibile in fatto di costi, tempi, orari per una scuola pubblica, quindi del suo metodo si è preso solo il primo punto, nel nome di un frainteso diritto allo studio, trasformatosi in diritto al diploma e alla laurea.
C’erano in giro però i cortei con i ritratti di Mao, non di DM. Colpa quindi di DM o della pavidità degli insegnanti che sono diventati di colpo quasi tutti permissivi? Perchè le cinghiate gli scavezzacolli di Barbiana le ricevevano, invece le sprangate i viziati 68ini le davano.
Due sillogismi del modo di pensare spiccio su DM.
Entrambi errati e semplicistici (perchè fanno cherry picking su DM e sul suo metodo), però riassumono bene l’idea.
Sillogismo di sinistra.
DM era contro le bocciature.
Noi progressisti siamo contro le bocciature.
Noi siamo come DM.
Sillogismo di destra.
DM era contro le bocciature.
Bocciare è necessario, non farlo è da mascalzoni.
DM era un mascalzone.
Noi qui non ci ritroviamo in nessuno dei due sillogismi. Non siamo di destra e nessuno ha mai detto che Don Milani è un mascalzone. Ragionare sui guasti che un libello interpretato (anche per le sue ambiguità) di là da quello che i suoi autori hanno voluto dire è tutt’altra cosa,e non ha nulla di semplicistico.