Il punto di vista di Putin
Quella bestia nera di Putin ha violato i sacri diritti su cui si fondano le democrazie dell’occidente. Ma quali sacri diritti, ma quali democrazie, ma quale occidente dei miei stivali? Chi può permettersi, nel cosiddetto mondo liberal-democratico, di far la morale a qualcuno per aver violato i diritti dell’uomo in un momento come questo, in cui, con sparute eccezioni, in tutti gli Stati del cosiddetto mondo libero sono stati calpestati i più indiscutibili principi di libertà con il pretesto di uno situazione d’emergenza dovuta a un virus letale, che alla fin fine s’è rivelato essere qualcosina di più d’una influenza stagionale di quelle toste, già sperimentate in un passato neppur molto lontano? Che sia il governo Draghi ad accodarsi a queste recriminazioni, gonfiando le gote, è addirittura cosa da non credere. L’Italia da ormai due anni è caduta in un regime neo-fascista. Non lo dico io e non lo dice solo il Wall Street Journal, lo dimostra una recente sentenza del Tribunale di Pisa, con dovizia di argomentazioni. Ha cominciato Conte, con la proclamazione di uno stato d’emergenza illegittimo, in quanto non riconducibile ad alcun dettato costituzionale, seguita da una serie di atti amministrativi (i famigerati DPCM) con cui si conculcavano le più elementari libertà. Draghi ha compiuto l’opera da par suo (chi ha fatto carriera nella Goldman Sachs non può avere né anima né cuore). Ha agito in modo ancora più protervo, e ha raggiunto il culmine del suo disegno criminale con i “green pass” semplici e rafforzati, nonché con la vaccinazione obbligatoria per chi ha più di 50 anni, comminando la sospensione dal lavoro senza retribuzione a chi la rifiuti: una vera e propria condanna a morte. In altri Paesi “democratici” s’è fatto di peggio. Uno è l’Australia. Un altro è il Canada. Di che cosa vogliamo cianciare? Fino a che punto vogliamo coprirci di ridicolo? Il sindaco di Milano vorrebbe impedire al direttore Valery Gergiev (russo e amico di Putin) di esibirsi alla Scala in uno spettacolo in cartellone se non proclama pubblicamente di aderire ai sacri principi delle democrazie occidentali. Se io fossi Gergiev metterei una croce sull’Italia e non ci metterei mai più piede (farei lo stesso se mi chiamassi Riccardo Muti, ma per altre ragioni). Sia ben chiaro: Putin mi è cordialmente antipatico, solo a guardarlo in faccia. Sicuramente è un autocrate; governa, sia pur con largo consenso formalmente sancito dal responso delle urne, con metodi autoritari un Paese dove dilaga la corruzione, in connivenza con affaristi di pochi scrupoli. La sua polizia e i suoi servizi segreti mettono paura. Detto questo, amicus Plato sed magis amica veritas. Siamo sicuri che Putin, nel suo atteggiamento verso il governo ucraino, culminato nell’ attacco armato di questi giorni, sia completamente dalla parte del torto? Qualcuno (ad esempio Galli della Loggia) sostiene che il proclamato pericolo per la sicurezza del territorio russo nel caso che la NATO accettasse, come da richiesta, l’adesione dell’Ucraina alla propria organizzazione militare è soltanto un pretesto. Putin non ha scalpitato più di tanto quando alla NATO hanno aderito le tre repubbliche baltiche, Lituania, Lettonia, Estonia, che pur si trovano a ridosso del confine russo. A muovere le sue rivendicazioni contro l’Ucraina sarebbe il fatto che quel Paese rappresenterebbe un modello di riconquistata democrazia, dopo il lugubre periodo del dominio sovietico in auge dal 1920; un modello che metterebbe in cattiva luce il sistema di governo russo, dove al sistema sovietico, tramontate le speranze accese al tempo di Gorbaciov e di Eltsin, si è sostituito un regime tutt’altro che liberal-democratico. A me pare un’argomentazione fragilissima. Anche le tre repubbliche baltiche hanno fatto parte del sistema sovietico, pur essendoci entrate più tardi, circa vent’anni dopo l’Ucraina; anch’esse hanno adottato un ordinamento liberal-democratico entrando a far parte non solo dell’UE, ma addirittura dell’Eurozona: eppure Putin le ha sempre lasciate in pace. La questione dell’adesione alla Nato da parte di Paesi confinanti con la Russia non è per nulla pretestuosa. Putin ha finora tollerato che vi abbiano aderito le repubbliche baltiche, ma non può tollerare che vi aderisca anche l’Ucraina, il cui confine con il territorio russo è di notevole estensione. D’altra parte, che la NATO, dopo la fine della “guerra fredda” con l’implosione dell’URSS e la caduta della “cortina di ferro” avesse poche ragioni di mantenersi tale e quale era, e dovesse evitare di spingere le sue batterie fino a ridosso del confine russo, lo disse a suo tempo, e l’ha ripetuto anche di recente, un personaggio insospettabile come Sergio Romano, che della NATO fu anche ambasciatore, quindi può parlare con piena cognizione di causa. Basta conoscere un po’ di storia per sapere che la politica degli “Stati cuscinetto”, suggerita con successo da Metternich al Congresso di Vienna, evitando l’attrito fra le grandi potenze lungo i propri confini garantì all’Europa una pace trentennale. Purtroppo non sono più uomini come Henry Kissinger, studioso del Congresso di Vienna, a suggerire oggi la politica estera dei potentati mondiali.
Non si può poi sottacere un dato di fatto inconfutabile: mentre nelle tre repubbliche baltiche le minoranze russofone sono in percentuale non certo esigua ma pur sempre contenuta, nella regione ucraina del Donbass i russofoni (e, in gran parte, russofili) raggiungono il 40%. Dopo che, con un colpo di mano militare, Putin, nel 2014, aveva conquistato la Crimea (una penisola territorialmente ucraina, ma abitata quasi soltanto da russofoni – russofili, e unita al territorio russo da un ponte), gli accordi di Minsk impegnavano il governo ucraino a concedere al Donbass un’ampia autonomia, non molto dissimile da quella di cui godono in Italia le Province autonome di Trento e Bolzano. Non se n’è mai fatto nulla.C’è da stupirsi che i due territori di Donetsk e Lugansk a un certo punto si siano proclamati repubbliche indipendenti? Putin le ha riconosciute: fin qui, il fatto può dispiacere ma non viola il diritto internazionale. L’attacco militare, invece, sì.Però mi si permetta una considerazione politicamente scorrettissima.Tutti i conflitti armati, fin dai tempi della Guerra di Troia, si ammantano di ragioni ideali. Le ragioni vere sono molto più concrete, spesso di tipo prevalentemente economico. Putin proclama di voler liberare dal giogo ucraino, e unire alla loro vera madrepatria, i cittadini anagraficamente ucraini legati alla Russia per ragioni etniche e linguistiche. Fa appello, a ben vedere,al principio dell’autodeterminazione dei popoli, quello stesso cui si appigliano in tutto il mondo i movimenti secessionisti. In realtà, un territorio come il Donbass fa gola alla Russia per la sua ricchezza di giacimenti minerari. Realpolitik, quindi, quella di Putin? Indubbiamente. Non meno di quella che indusse Carlo Alberto ad attaccare l’Austria dopo le Cinque Giornate di Milano e l’insurrezione di Venezia per liberare i fratelli del Lombardo-Veneto dal giogo straniero. Amor di Patria? Forse. Ma anche e soprattutto un tentativo di ampliare il minuscolo regno sabaudo annettendo i territori dell’Italia settentrionale, economicamente più floridi e socialmente più avanzati dell’angusto Piemonte, fino a quel momento assoggettati all’Impero Austro-Ungarico. Ma anche allora mica tutti erano d’accordo sull’opportunità dell’intervento sabaudo. Carlo Cattaneo, ad esempio.