Milano, 7 dicembre 2015. Come ai tempi di Bava Beccaris.
Cari amici, vi ricordate il Sant’Ambrogio del dicembre 2011? Da poco era stato insediato il governo di Mario Monti, che si sarebbe rivelato, nel giro di pochi mesi, il peggiore dell’Italia repubblicana ( l’ha detto Piero Ostellino, io mi limito a ripetere il suo giudizio, condividendolo), pronubo l’allora presidente Giorgio Napolitano, dopo oscure manovre internazionali che avevano portato al fallimento del (di per sé pessimo) governo Berlusconi-Tremonti; o, se preferite, Tremonti-Berlusconi, visto che di fatto era il fiscalista valtellinese a dettare una politica economica votata al disastro, alla quale ogni altra scelta risultava in subordine. Quella sera io volteggiavo nel cielo di Milano, ed ero non poco furente. Le prove dell’Opera mozartiana (il “Don Giovanni”!) scelta per l’inaugurazione della nuova stagione alla Scala, da me ascoltate furbescamente di nascosto, rivelavano un allestimento che non mi rendeva giustizia. Regia pessima, direzione d’orchestra troppo pesante per i miei gusti. Passabile Peter Mattei nei miei panni, ma un Leporello come quello di Bryan Terfel – che non ha ancora saputo dirozzare la sua voce greve – io non l’avrei mai preso al mio servizio. La Barbara Frittoli rendeva Donna Elvira ancora più antipatica di quel che è. Per non parlare di quella patatona della Netrebko: proprio non la vedevo nei panni della perfida Donn’Anna, che prima ci sta, e gode quanto più può, poi quando arriva il paparino si mette a urlare come se io la stessi stuprando. Ma il peggio era il Commendatore, che doveva cantare la sua parte, nella penultima scena, dal palco reale, accanto all’impettito Napolitano e al funereo Monti. Ecco, io la parte del Commendatore l’avrei affidata proprio a Monti. Con quella faccia cimiteriale era proprio quel che ci voleva. Per la voce, si poteva doppiarlo, ma per il resto, nessuno poteva stargli alla pari. Che divertimento, tirargli un colpo di spada e stenderlo secco al suolo, sia pure per finta, all’inizio dell’Opera! E poterlo insultare per bene nel momento dell’invito a cena! E dargli del vecchio infatuato quando mi vuol trascinare all’inferno! Il guaio è che quel losco figuro ha trascinato per davvero all’inferno l’Italia intera, fatta eccezione per un consistente numero di parassiti che si pascono lautamente alla greppia dello Stato.
Acqua passata, per fortuna. Ma sul Sant’Ambrogio meneghino di quest’anno si addensano nubi ancor più fosche. Non so se la sovrintendenza avrebbe scelto come titolo inaugurale la verdiana “Giovanna d’Arco” qualora si fossero potuti prevedere i luttuosi fatti che hanno funestato la Francia e terrorizzato il mondo intero nei giorni da poco trascorsi. Pericolo, pericolo! La Giovanna è un’eroina francese, incarna i valori “cristiani”, tant’è che l’han fatta santa, con un piglio,una grinta e un fondamentalismo visionario che non hanno nulla da invidiare a quelli dei combattenti islamici. Si presta a diventare un facile bersaglio di chi vuol dare una bella lezione ai discendenti dei Crociati, e in particolare a quella terra di Francia che ha messo fuori legge burqa e velo, ha tirato bombe in Libia, s’è impantanata in tante guerre fuori casa colpendo qua e là i fedeli del Profeta ed è la patria dell’Illuminismo, la turpe miscredenza che contamina il putrido e libidinoso Occidente. Pericolo, ma chi può ormai tirarsi indietro? Le Somme Autorità che di solito presenziano al grande evento si son fatte venire la cacarella, e hanno accampato mille scuse per disertare la serata. Il presidente Mattarella, da buon cattolico, dovrà essere a Roma all’apertura del Giubileo. Meglio un papa vero che una Giovanna finta, a gorgheggiare su un palcoscenico, per di più interpretando una partitura scritta da un Verdi che vedeva i preti come il fumo negli occhi e considerava le pratiche religiose come cose da pazzi. Non ci saranno neppure il presidente del Senato e la presidenta della Camera. Che liberazione! Forse neanche il Renzino. Che gioia! Fosse la volta tanto attesa che ci risparmiano l’inno di Mameli? Ma può anche darsi che -Dio ce la mandi buona! – date le circostanze, si desideri fraternamente esprimere solidarietà alla Francia ferita, e mentre se ne celebra, con l’Opera verdiana, la santa patrona, si vogliano eseguire, prima che si apra il sipario e magari anche dopo che s’è chiuso, tutt’e due gli inni, quello dell’elmo di Scipio e quello degli enfants de la patrie. Sarebbe come cadere dalla padella nella brace. Forse sarebbe un omaggio alla Francia, ma un dispetto a Verdi, che, pur avendone scritto più di uno (“Eh, che s’ha da fa pe’ ccampà!” dicono a Napoli) gli inni proprio non li poteva sopportare: “Questa musica che non è musica!” Ben detto! Del resto, la Sinfonia della “Giovanna d’Arco” finisce con una brillante marcetta di piglio guerriero. Basta e avanza. (Ma voi quella patatona della Netrebko, sì, ancora lei, ve la vedete nei panni dell’invasata Pulzella d’Orleans?)
Paura fa novanta, temo che il 7 dicembre Milano sarà assediata come e più che ai tempi di Bava Beccaris, quando la popolazione in tumulto chiedeva pane e le si rispose con piombo.
Qui c’è il pericolo che capiti davvero qualcosa di grosso, altro che qualche tolla di vernice tirata sugli abiti sciccosi delle damazze meneghine, come ai tempi di quello sfigato d’un Mario Capanna in compagnia dei mammalucchi del Movimento Studentesco. Dilettanti erano, quei ragazzotti! Qui siamo di fronte a un’organizzazione terroristica, comandata da una centrale che ha sede in una ben individuata base territoriale. Non basta qualche manganellata a scongiurare il pericolo. Io dico che sarà presente tutto l’esercito italiano. Avesse Milano il mare (come il buon Shakespeare credeva, se ben comprendo quello che dice nella “Tempesta”), probabilmente farebbero arrivare anche una portaerei all’Idroscalo.
Amici melomani, ascoltatemi, disertate la prima della Scala. Ci sono tante repliche, andate a quelle. Lasciate che all’inaugurazione ci vada la solita cacchetta snob. Per un fischio – meritatissimo – a un’impresentabile Katia Ricciarelli, qualche decennio fa blindarono la piazza a tal punto che, alle repliche, si doveva passare attraverso uno schieramento di poliziotti in assetto di guerra. A quali condizioni si potrà raggiungere il teatro in uno scenario da rivolta del pane? E poi, ammesso e non concesso che ci si possa arrivare, quale sarà il livello dell’esecuzione? Orchestrali, coristi, direttore, registi, cantanti, maestranze si sentiranno addosso anche loro una bella cacarella… E quando scappa scappa, come si può lavorare bene? Intendiamoci, io mi auguro che tutto vada per il meglio, ma in un teatro semivuoto. Poi, finito lo spettacolo, quando tutti, ma proprio tutti, anche gli uccellini appollaiati sul tetto, se ne saranno tornati alle loro dimore e ai loro nidi, a parecchie miglia di distanza, arrivi pure un bel petardo dell’Isis. Lasci intatte le strutture del buon Piermarini e colpisca senza pietà le orride, spettrali superfetazioni che un illustre architetto venuto dalla Svizzera ci ha costruito sopra. Non rimanga pietra su pietra! Che liberazione anche questa!
Gli inni sacri, però, sono stati composti da Verdi quando era già in pensione. Non li ha scritti per campare.
Tecnicamente, le ultime composizioni religiose di Verdi non sono tutte inni. Inno è sicuramente il TE DEUM; lo stesso si può dire forse per le LAUDI ALLA VERGINE MARIA, ma solo perché del testo dantesco viene utilizzata la prima parte, che è appunto una serie di laudi alla Vergine, non l’ultima, che invece assume l’aspetto di preghiera, come del resto avviene nell’ Ave Maria dei comuni atti devozionali cattolici, che Verdi nella sua quadruplice partitura mette in musica su scala enigmatica. Lo STABAT MATER è, propriamente, una sequenza, attribuita a Jacopone da Todi. Le quattro composizioni, che stanno idealmente insieme, anche se spesso vengono eseguite separatamente, portano il titolo di QUATTRO PEZZI SACRI. D’altra parte, quando Verdi se la prendeva con gli inni, pensava alle celebrazioni civili, politiche e patriottiche. Per l’Esposizione Universale del 1862 scrisse l’ Inno delle Nazioni che – diciamolo francamente – aggiunge poco o nulla alla sua grandezza. Prescindendo dalle composizioni giovanili e occasionali, se c’è un’opera minore di Verdi, è quella, forse solo quella.