Nella calza della Befana
Quest’anno temevo proprio che la Befana mi stesse per portare un sacco di carbone. Ne avevo dette troppe, di cattiverie, nell’ormai defunto anno 2018, per meritarmi anche soltanto un regaluccio piccolo piccolo, diciamo pure un premio di consolazione, come benevolo invito a moderare, per il futuro, la mia linguaccia. Invece la cara vecchina si è dimostrata molto più generosa di quel che pensassi, forse perché mi è grata di aver fatto, un tempo, di lei conquista per il piacer di porla in lista (se sfogliate il catalogo di Leporello troverete anche il suo nome). Così nella calza , invece del carbone, mi ha fatto trovare un po’ di perline. La ringrazio di cuore, perché di questi tempi, appesantito dalle cene dei giorni di festa, il mio cervello era diventato piuttosto torpido, del tutto privo di idee. Ve le dono, queste perline, resistendo alla tentazione di gabellarle come farina del mio sacco, anche se, come sapete, sono arcinemico della proprietà intellettuale. Io mi faccio un punto d’onore di non protestare se qualcuno copia un mio scritto e lo sottoscrive con il suo nome: vuol dire che gli è piaciuto e per questo vuol farsene bello ( mi arrabbierei, invece, se alterasse il mio pensiero e lo sottoscrivesse con il mio nome); ma mi guarderei bene dall’attribuire a me stesso quanto è scaturito dalla mente di un altro. Anche le canaglie, quale io sono, hanno una loro moralità. L’ho già detto una volta: ogni ladrone ha la sua devozione.
Io che sono la Befana ho tante sorelle. Una è l’ex-governatrice (si dice così?) della FED, Janet Yellen, che per fortuna è ormai sparita dalla circolazione (sia ben chiaro, le auguro lunga vita!!). Un’altra è la cancelliera (si dice così?) Angela Merkel, la cui gloria si è da tempo un po’ appannata. Un’altra ancora è la presidenta (si dice così?) della Commissione Antimafia – che non si sa bene a che cosa serva, perché la prima e più grande Mafia è lo Stato – Rosaria Bindi detta Rosy, il cui volto è da tempo sparito dai media. E tante altre ancora. La più intelligente (guardate che non sto scherzando!) è l’attuale ministra (si dice così?) della Funzione Pubblica Giulia Bongiorno. L’ho sempre stimata, ma quando, poche ore fa, l’ho ascoltata in un’intervista televisiva, la mia ammirazione per lei è cresciuta in modo esponenziale. Ha difeso le disposizioni- a me invise- del suo amico e collega Salvini con una freddezza razionale e una ferrea consequenzialità, oltreché con un linguaggio limpido ed elegante, da lasciarmi senza fiato. Mi sono trovata a darle, quasi quasi, ragione. Adesso finalmente capisco come possa aver fatto assolvere quel Giulio Andreotti che avrebbe meritato l’Inferno dieci volte più del mio amico Don Giovanni. Fra i maschietti c’è una caterva di stupidoni, fra le femminucce uno stuolo di oche (gli uni e le altre sono ampiamente rappresentati -rappresentati/e: si dice così’? – nella compagine dell’attuale governo). Però quando sono intelligenti, rispetto ai maschietti, le donne hanno sempre una marcia in più. Ecco perché le “quote rosa” sono offensive e degradanti.
A me questo papa non è poi così antipatico come al mio amico ed ex-amante Don Giovanni Tenorio. D’accordo, parla come parla, il latino non lo conosce, se non ha davanti un pezzo di carta dove qualcuno gli ha scritto un discorso rischia di pronunciare qualche scempiaggine, ma alla sua età è inevitabile che nel cervello qualcosa si inceppi. Ultimamente ha detto una cosa giustissima, che ha fatto arricciare il naso ai cattolici cosiddetti “di destra”, mentre ha procurato un immenso piacere a quelli cosiddetti “di sinistra”: i cattolici, se non vogliono essere incoerenti, devono vivere secondo l’insegnamento di Cristo, che ha predicato l’amore fraterno, l’accoglienza, il perdono anche per i propri nemici. Non basta andare a Messa e ripetere le preghiere a pappagallo. Altrimenti si è ipocriti. Meglio allora essere atei. Gli ha dato ragione, da ateo, Massimiliano Parente, che si vanta di non essere cristiano e di fottersene del suo prossimo. Anch’io gli darei ragione, se il primo a essere incoerente non fosse proprio lui, che siede su un trono, è un monarca assoluto, possiede una banca, ha al suo servizio un esercito di mercenari svizzeri, ha proprietà immobiliari in italia e un po’ in tutto il mondo, vive in un hotel senza sborsare un centesimo di suo, con una spesa superiore a quella che comporterebbe una sua dimora nel Palazzo Apostolico; e con tutto questo, ha assunto impudicamente il nome di quel Francesco che la povertà non si limitò a predicarla, ma la fece sua sposa (ricordate il canto XI del “Paradiso”?), non dimorava in un hotel ma dormiva alla Porziuncola, non invitava gli altri a soccorrere i bisognosi, ma arrivava a baciare sulla bocca i malati di lebbra, e in punto di morte volle essere deposto sulla nuda terra. D’accordo, la Chiesa è quello che è, mica si può disfare quel che si è costruito in duemila anni di Storia, facendo indubbiamente del bene ma anche “puttaneggiando coi regi” e usando spesso la Croce a mo’ di spada. Ma allora si lasci in pace il Poverello di Assisi e si scelga un altro nome. C’è solo l’imbarazzo della scelta: Leone, Gregorio, Benedetto, Pio, Giovanni, Bonifacio, Callisto, Giulio, Innocenzo ecc. ecc. Il mio amico Don Giovanni ama i papi simoniaci e puttanieri, perché hanno lasciato al mondo molte splendide opere d’arte. Io non sono del tutto d’accordo. Rimane vero che i papi simoniaci e puttanieri ebbero almeno il pudore di non farsi chiamare Francesco.
Se io costruisco una casa sul terreno di un altro, la casa diventa proprietà di quest’altro. Penso che questo principio sia valido in tutti gli ordinamenti giuridici (se sbaglio, sono ben contenta di essere smentita). Se un pittore esegue un suo dipinto su un mio muro, quel dipinto diventa mio. Se io cancello quel dipinto, distruggo una cosa mia. Il pittore non può pretendere risarcimento alcuno. Mi sembra che il ragionamento sia consequenziale. Ma allora, se io mi faccio adornare un mio braccio, una mia coscia o una mia chiappa con un bel tatuaggio, quel tatuaggio diventa mio, tanto più se l’ho pagato. Dovrei poterne fare quello che voglio. Cancellarlo, per esempio, se non mi piace più. Fotografarlo e diffonderlo su Facebook, su Instagram e con tutti gli altri mezzi che la tecnica moderna mi mette a disposizione. E invece pare che le cose non stiano così. L’artista che ha eseguito il tatuaggio può pretendere i diritti d’autore, se la sua opera viene fotografata e pubblicata. Così pare abbiano stabilito alcune sentenze negli Stati Uniti, in seguito a controversie così degradanti che non è il caso di approfondirle. La motivazione è più o meno questa: ogni creazione artistica che venga eseguita su un supporto (una tavola di legno, un foglio di carta, una parete) cade sotto la tutela del diritto d’autore. Nessuno può riprodurla e diffonderla senza il permesso del suo creatore, il quale può concederlo gratuitamente o dietro pagamento. Nel caso dei tatuaggi, il supporto è il corpo del tatuato. Ma se il corpo è mio -si potrebbe obiettare- diventa mio anche il tatuaggio, che tra l’altro ho pagato profumatamente. Se posso cancellare il tatuaggio, perché non posso riprodurlo e diffonderlo? Qualcuno replicherà: ma non è come per il caso del muro dipinto senza il permesso del proprietario; qui il corpo è stato concesso liberamente all’artista proprio per essere tatuato. Anche Leonardo da Vinci a Milano, nel refettorio di Santa Maria delle Grazie, dipinse il “Cenacolo” su una parete che non era sua, ma gli fu messa a disposizione perché eseguisse l’opera che gli era stata commessa. Verissimo. Però mi risulta che del “Cenacolo” siano state fatte molte riproduzioni. La prima, se non erro è quella commessa dal cardinal Federigo Borromeo, nell’anno 1615, ad Andrea Bianchi detto il Vespino, attualmente conservata alla Pinacoteca Ambrosiana. Non mi risulta che il cardinal Federigo abbia dovuto pagare i diritti d’autore ai discendenti di Leonardo, o a qualcosa di simile alla SIAE di oggi.
Non riesco proprio a capire tutto questo clamore che si sta levando da ogni parte d’Italia perché, in occasione dell’incontro Milan-Juve a Gedda, nell’Arabia Saudita, per la Supercoppa dei Campioni, sarà consentito alle donne l’accesso allo stadio anche senza l’accompagnamento di un parente maschio, a patto però che poi prendano posto in un’area riservata, senza mischiarsi con i tifosi dell’altro sesso. Pare incredibile, ma questa notizia ha prodotto un miracolo, molto più stupefacente della risurrezione di Lazzaro o delle guarigioni di Lourdes: Salvini e la Boldrini, acerrimi nemici, da sempre schierati su opposte sponde a scagliarsi strali acuminati, per una volta tanto sono unanimi nel deprecare lo sconcio. Quale barbarie! Strano, però, che nessuno di quelli che sono soliti giustificare barbarie anche peggiori quando vengono perpetrate da immigrati (si pensi alle circoncisioni fatte con mezzi di fortuna, che mandano al creatore tanti bimbi innocenti; alle asportazioni del clitoride, che mutilano irrimediabilmente, per tutta la vita, tante sventurate bambine, al velo imposto alle donne come segno di sottomissione, all’uccisione macabra di tanti poveri animali per scopi rituali, e via di seguito) dicendo che sono il frutto di un’altra cultura,, degna di rispetto, questa volta abbia voluto accampare la medesima ragione per chiedere un po’ di comprensione nei confronti di un costume difforme dal nostro sentire comune,ma vigente in un Paese che non è il nostro e ha leggi tutte sue. Dove sono finite le disquisizioni sull’eurocentrismo? Sulla pretesa di imporre la nostra civiltà, ritenuta a torto superiore, a popoli che hanno alle spalle una storia e una cultura diverse? Non è più vero che esistono civiltà diverse, non superiori o inferiori? Il fatto è che i famosi “diritti inalienabili” (delle donne, ma non solo) anche noi li abbiamo riconosciuti in epoca piuttosto recente. Fino a quanto tempo fa le donne, nel mondo cosiddetto civile, erano discriminate? Per rimanere in Italia, sarà anche vero che il Risorgimento ha portato la libertà dove prima non c’era, ma è anche vero che, con l’avvento della monarchia sabauda, le donne dell’ex-Lombardo -Veneto, dominato dagli austriaci oppressori, fecero un bel passo indietro, non potendo più testare o compiere altri atti giuridici senza il consenso di un tutore. Solo nel 1919 riconquistarono i diritti perduti; e solo nel 1945 ottennero il diritto di voto. Fino a non molto tempo fa -non solo in italia, ma dappertutto – l’adulterio maschile era tollerato, quello femminile punito con sanzioni penali. In italia il cosiddetto “delitto d’onore” è stato punito con pene assai ridotte fino all’inizio degli anni Ottanta; il “matrimonio riparatore” è ancora vigente in alcuni contesti sociali. Abbiamo alle spalle una tradizione discriminatoria nei confronti della donna che risale al mondo classico, e il Cristianesimo ha perpetuato, a dispetto dell’esempio di Gesù (che le cose più belle le ha dette alle donne) e grazie all’ambiguità di San Paolo, che proclama l’uguaglianza di liberi, donne ,schiavi, ebrei, pagani in Cristo, ma poi impone alle donne di tacere in chiesa, di portare il velo e di essere sottomesse ai loro mariti. Avete presente la novella di Griselda, nell’ultima giornata del “Decameron” di Boccaccio? Letta oggi, ci fa accapponare la pelle. E’ la storia di una giovinetta che viene messa alla prova dal marito con le imposizioni più crudeli. Un marito che assomiglia molto al dio dell’Antico Testamento, quello che mette alla prova il povero Abramo ordinandogli di sacrificare il figlio Isacco. Ebbene, per secoli questa terribile novella è stata osannata come esempio di virtù femminile: Griselda come la Madonna, “ancilla Domini”. Petrarca la tradusse in latino, Perrault la parafrasò in francese. E allora? Che cosa abbiamo da vantarci? E’ già tanto che in Arabia Saudita le donne , cui fino a poco tempo fa non era consentito di guidare un’auto, abbiano ottenuto il permesso di entrare allo stadio da sole. Giusto battersi perché ottengano di più, fino a raggiungere la piena parità. Sbagliato pretendere che ottengano tutto subito. Anche da noi le donne hanno raggiunto l’obiettivo finale passo dopo passo, spesso a prezzo di lacrime e sangue. Olympe de Gouges, che al tempo della Rivoluzione Francese si batteva per l’abolizione della schiavitù e la parità di diritti fra uomo e donna, finì sulla ghigliottina “perché si era dimenticata le virtù che pertengono al suo sesso”.E con questa Storia alle spalle abbiamo il coraggio di andare a criticare chi è rimasto indietro di qualche passo? Piuttosto, le nostre femministe parlino chiaro e forte contro certi costumi barbarici che nel mondo cosiddetto civile vengono tollerati in nome di culture “diverse”, e si diano da fare per coinvolgere le donne dei Paesi dove ancora vige la discriminazione in un movimento che, senza deprecabili distinguo, si batta per conquistare a tutte le donne del mondo la medesima parità di diritti.So che il mio amico Don Giovanni Tenorio ha amato anche Olympe de Gouges. A guardar bene nel suo catalogo, di ochette ce ne sono poche. Ci sono le vecchie come me, ci sono le rompiballe come Donna Elvira, ci sono le furbette come Zerlina, ma le ochette scarseggiano. Non le conquista neanche per il piacere di porle in lista. Dice che gli provocano una caduta verticale del desiderio.
P.S. Come vedete, ho riportato le parole della Befana senza parafrasarle, così come le ha scritte. Che donna intelligente! Mi dispiace davvero di non essere stato io a elaborare tali pensieri. Mi sa che la prossima volta, se ancora capita, me li approprio alla chetichella, e li gabello come miei. Sono sicuro che non mi farà causa per aver violato i diritti d’autore.
La befana dovrebbe però sapere che la chiamata di San Francesco (“va e ripara la mia chiesa”) non fu inquinata dall’orgoglio spirituale (quello che ti fa giudicare gli altri, che ti fa ritenere di essere migliore degli altri e che è il peggiore di tutti i peccati: quello dei farisei e di Lutero insomma). Il poverello di Assisi agì con l’esempio (che poi trascinerà anche S.Chiara) e chiese al papa – che le cronache dicono che inizialmente non lo gradisse affatto e lo schifasse come un barbone mentecatto – il riconoscimento della propria regola, assoggettandosi pertanto all’autorità del pontefice in materia in perfetta umiltà ed obbedienza.
Credo che si che se si afferma di ammirare tanto l’operato del fraticello, si dovrebbe anche evitare come lui di giudicare un papa su come si veste, su dove alloggia, su cosa dice, su cosa possiede. Spetta a qualcun altro farlo e se è il caso lo farà.
Una volta Karl Popper si rifiutò di scrivere la prefazione a un manuale di lettura rapida dicendo, provocatoriamente, che avrebbe piuttosto aderito alla richiesta per un manuale di lettura lenta: perché si era accorto che molti avevano letto in modo affrettato i suoi scritti, facendogli dire quel che non aveva mai detto. Non me ne voglia l’amico Max, ma credo che una rilettura di quanto ha scritto la Befana gli permetterebbe di correggere qualche malinteso. A me pare che la cara vecchina a proposito di San Francesco abbia detto tutto il bene di questo mondo. Anche a me il Poverello d’Assisi piace moltissimo. Tutto sommato, come il suo modello Gesù di Nazaret, era un anarchico. Ci ha dimostrato che cos’è la povertà evangelica: rinuncia volontaria a tutti i beni terreni nel caso più eroico, come il suo, o almeno distacco dalle ricchezze di questo mondo. Non sono beati i poveri, come dice questo papa mutilando il Vangelo: chi è ridotto in miseria per motivi indipendenti dai suoi desideri è da compiangere e da aiutare, non da beatificare. Sono beati invece i “pauperes spiritu” , coloro che hanno rinunciato volontariamente alla ricchezza in nome di ideali spiritualmente più alti. Ciò che non seppe fare il giovane ricco, rimasto muto davanti all’esortazione del Maestro:” Va’, vendi tutto quello che hai, dallo ai poveri; poi vieni e seguimi”. Uno come me che, da buon epicureo, ama i piaceri della vita, ammira i “pauperes spiritu” e per molti aspetti li invidia. Francesco d’Assisi ne è l’esempio supremo: figlio del più ricco mercante della sua città, frequentatore di allegre brigate e di tante belle donne, con la rinuncia agli averi compie un gesto che può incutere solo ammirazione.Il suo nome non può essere usurpato da chi siede su un trono. “Nolite iudicare ut non iudicemini”? D’accordo. Anche Dante, però, grande estimatore del Poverello, si permise di giudicare un papa, Bonifacio VIII, assegnandolo all’Inferno ancor prima che morisse; e anche altri, già morti. Un cattivo cristiano anche lui? Sia ben chiaro: non intendo affatto mettere sullo stesso piano Bonifacio VIII e Francesco I. Mi sono meritato l’Inferno per tante (presunte) malefatte; non penso di meritarmelo se mi auguro che dopo Francesco I non si vedano più altri Franceschi sul soglio di Pietro. A meno che, per dirla con Vittorio Alfieri, il Sommo Prete non “torni alla rete”.
E infatti la befana ha detto tutto il bene di questo mondo *** di S.Francesco *** usandolo come una clava per bastonare *** il papa ***. Faccia pure, ma per me sbaglia esempio: S.Francesco non si permise mai di criticare il papa; ripeto fino alla noia che S.Francesco fu un esempio di umiltà e obbedienza al papa e alla gerarchia cattolica in genere ancorchè corrotta, assolutamente non di anarchia e libero pensiero. Per tali accostamenti ci si deve rivolgere piuttosto ai dolciniani o alla pataria o alle tante altre settucole pauperistiche che fecero più danni che altro.
Come anarchico, rispetto tanto Pietro Bernardone quanto suo figlio. Credo che ognuno abbia il sacrosanto diritto di vivere la vita che vuole, da abile imprenditore o da candido pauperista. Non sono un difensore del capitalismo, ma solo del libero mercato, dove c’è posto per tutti, anche per chi vuol vivere da povero o mettere in comune i suoi beni con quelli degli altri, alla maniera dei primi cristiani. Sarà vero che sono i Pietri Bernardoni a produrre ricchezza, ma sono i Franceschi a dare profumo all’esistenza. Chi ha mai detto che sono più importanti i primi che i secondi? L’economia è indispensabile, ma la poesia ancora di più. Io rinuncerei a tutte le “magnifiche sorti e progressive” che la tecnologia sembra prometterci, se il prezzo fosse quello di cancellare dalla memoria il “Cantico delle creature”.
Certo che Francesco d’Assisi non ha mai messo in discussione la Chiesa e la sua dottrina. In questo è stato molto più intelligente di tanti altri predicatori pauperisti, che, attaccando il papa, hanno fatto una brutta fine. Il più stupido rimane Gerolamo Savonarola: meglio così, se fosse stato intelligente, avrebbe trionfato, e il Rinascimento avrebbe fatto una fine ingloriosa. Morto lui, sono arrivati i papi simoniaci, che hanno donato all’umanità splendidi tesori d’arte. Tornando a Francesco, la sua condanna dei costumi corrotti e di un mondo cristiano solo a parole si è manifestata con i fatti, non con le prediche. La sua povertà “in ispirito” era un’implicita rampogna alla ricchezza e al potere della gerarchia ecclesiastica. La sua scelta di andare in Oriente a parlare con il sultano Al -Malik al-Kamil per cercare di convertirlo, anziché combatterlo con le armi – e questo in pieno clima di Crociate- è un altro cocente rimprovero a una società che pretende di mettere le armi al servizio della Fede, usando la Croce come una spada.
Chi più anarchico di Francesco, che si denuda in piazza, rinunciando agli averi? Oggi arriverebbe subito la Polizia Locale, verrebbe fermato e sottoposto a trattamento psichiatrico. Gli psichiatri sono i sacerdoti del conformismo.
Spetterà pure a qualcun altro. Ma il giudizio non mi sembra sulla scelta degli abiti o dell’alloggio ma sulle contraddizioni tra le dichiarazioni ufficiali e la prassi. Un po’ come i marxisti con vestiti firmati. Nessuno gli contesta il diritto di comprarseli né di pagare ai figli le scuole private e le vacanze a Capalbio. Ma gli altri credo abbiano altrettanto diritto di pronunciarsi sulla loro manifesta incoerenza. Il giudizio su cosa un pontefice dica, poi, credo che afferisca alla libertà di parola. Trump, Putin, Macron, Castro, Merkel, Assad e Conte posso giudicarli e Bergoglio no?
Sui marxisti con il grano credo abbia risposto bene Antonello Venditti negli anni 70 (piuttosto odiato e contestato proprio dalle frange d’estrema sinistra, quelle che sfondavano i cancelli dei Palasport e volevano ascoltare la musica gratis): “il marxismo è un conto, il francescanesimo un altro”. (guarda caso si resta pure in tema)
Poi per carità, si può contestare chiunque e parlar male di tutti; stride solo il fatto che nel farlo si citi un mite che non trattava male nessuno se non se stesso.
Tra l’altro in un sito come questo mi aspetterei piuttosto di trovare un elogio di Pietro di Bernardone. Mi pareva di aver letto qualcosa anni fa di fonte liberale, in cui si diceva che il mondo girava perchè ci sono molti Pietro di Bernardone, non certo perchè ci sono molti hippies sfaccendati come suo figlio. Non fa una grinza.
Fra Dolcino, pseudogioachimista de facto, era a capo di una banda di razziatori. Non rispettando il diritto e la proprietà altrui si può essere annoverati tra gli anarchici e i liberi pensatori? Forse più facilmente tra coloro che non esortano alla povertà ma la impongono con un apparato repressivo distante anni luce da esempi di anarchia. I patarini, peraltro alleati di Gregorio settimo, si opponevano alla gerarchia quando quest’ultima (con una sorta di “libera chiesa in libero stato” ante litteram) voleva affrancarsi dalle ingerenze nobiliari. Uno strano modo di essere anarchici antifeudali. Concordo con i danni dei settari, il pauperismo li provoca sempre. Ma pauperista è proprio l’attuale pontefice. Mi scuso se mi inserisco nel dibattito tra “Befana Tenorio” e Max ma tra i pauperisti non ho mai scorto alcun autentico anarchico. Qualche sedicente tale, forse; ma neanche tanti.
D’accordo sull’indispensabilità della poesia ma per stampare i libri, anche quelli in versi, ci vogliono gli editori alla Bernardone. Senza di loro non ci sarebbero neanche i poeti. In un mondo di tutti sfaccendati la poesia non esisterebbe. I poeti, però, non sono assimilabili agli sfaccendati. La scrittura è lavoro.
Sono d’accordo: senza gli editori non si pubblicherebbe poesia. Ben vengano quindi gli imprenditori capaci e avveduti, alla Pietro Bernardone. Però la poesia esisteva anche prima che si inventasse la stampa, anche prima che nascesse la scrittura. Omero non aveva al suo servizio né amanuensi né, tanto meno, tipografi, Per fortuna qualcuno trascrisse i suoi canti, che a loro volta rielaboravano composizioni orali tramandate di generazione in generazione. Un grazie a Pisistrato che ne fece risistemare i testi, agli studiosi alessandrini che ne pubblicarono le prime edizioni critiche, agli editori d’oggi che ci permettono di leggere l’ “Iliade” e l’ “Odissea” nell’originale greco o in traduzione: tutte cose bellissime, che senza soldi non si potrebbero fare. D’altra parte, fu proprio il pensiero di un certo filone francescano ( che fa capo a Pietro di Giovanni Olivi), rimasto a dire il vero minoritario all’interno del mondo cattolico, a legittimare l’economia di mercato e il tasso d’interesse, intendendone appieno il valore sociale, a beneficio di tutta la collettività. Tale pensiero ha un suo seguito, nella Scuola di Salamanca, in certo cattolicesimo liberale dell’Ottocento (Rosmini), ma anche del Novecento (Sturzo), oggi in teologi come Michael Novak, scomparso due anni fa: tutta gente che il papa regnante probabilmente non conosce neppure di nome.
Tornando a Francesco d’Assisi, se Pietro Bernardone fu uomo d’azione, tale fu anche suo figlio, almeno da quando abbandonò la vita scioperata della prima giovinezza per vivere il Vangelo “sine glossa”, da vero estremista della fede cristiana, facendo del bene. Certo, per poter donare ai poveri rimanendo poveri, ci vuole qualcuno che offra il suo denaro per opere di carità. Ecco quindi la necessità dell’economia, come motore per la creazione di ricchezza. Il denaro non è “sterco del diavolo” in sé: dipende dal modo come viene speso. Quando Cristo parlava di “Mammona”, intendeva l’idolatria denaro, l’indifferenza di chi, da ricco, vive una vita priva di valori spirituali e,alla maniera di Epulone, non ha compassione per chi è privo di mezzi, dedicandosi unicamente ai piaceri mondani.
Su un solo punto, nella vita del Santo, si può restare perplessi: Francesco donò ai poveri i vestiti che suo padre produceva e vendeva, senza chiedergliene il permesso. Fu un reato? Oggi, almeno in Italia, chi si comportasse allo stesso modo non sarebbe passibile di condanna, perché non integra la fattispecie del furto la sottrazione di beni ai genitori, ai congiunti, ai parenti, se conviventi. Parola di Cassazione. Dopo tutto, se è vero che, nel caso qui discusso, i beni erano di Pietro Bernardone, Francesco, come figlio unico, aveva su di essi un’aspettativa successoria inoppugnabile. Io penso che abbia fatto bene. Non fu un “esproprio proletario”.
Si può essere in disaccordo con la Corte Suprema e se non si può parlare di furto si può comunque ipotizzare l’appropriazione indebita. L’aspettativa successoria rimane comunque un’aspettativa. Una volta ereditato, ognuno regali o dilapidi ciò che vuole. Se la Cassazione ha interpretato bene il nostro ordinamento, vuol dire che è quest’ultimo a essere fallace. Nell’Umbria di quel periodo non saprei.