Don Giovanni

In lode delle gonne svolazzanti

Purtroppo, gli esseri umani sono gli unici animali costretti a provvedere da sé per difendere il proprio corpo dai capricci climatici. In un primo tempo, hanno pensato bene di servirsi delle pelli degli altri animali, che erano oggetto di battute di caccia anche e soprattutto per motivi alimentari. Perché, amici miei, si ha un bel magnificare la Provvidenza di Dio o la generosità della Natura. Di là dalle ideologie e dai bei miti, sta di fatto che siamo anelli di una catena in cui vige la legge “mors tua vita mea”. Le anime belle si mettano il cuore in pace: non saranno i vegetariani e i vegani a ribaltare un dato di fatto. Il che non significa che gli animali non vadano rispettati, e che non si dovrebbe far di tutto per evitarne la morte e le sofferenze. Io stesso, che pur un tempo mi sollazzavo mangiando fagiani annaffiati di ottimo Marzemino, da tempo ho ridotto il mio consumo di carne; e vi devo confessare che gli allevamenti intensivi mi fanno orrore. Ho smesso di andare a caccia e i cacciatori mi sono cordialmente antipatici (ma la Maria Vittoria Brambilla, azionista di una società di commercio ittico, ancora di più). Ma non credo che si possa obbligare tutti a diventare vegetariani. Siamo fatti in un certo modo, siamo frutto di un certo processo evolutivo in cui, ancora una volta, vige la legge del più forte. Siamo figli di un dio crudele? Non lo so. Qualcuno dice che non esiste il Male ontologico. Lo pensava già Sant’Agostino, che lo qualificava come una mancanza di Bene, quindi un non-essere. Andate a dirle che il Male è un non-essere a chi ha sofferto nei Lager di Hitler o nei Gulag di Stalin, e poi ne riparliamo.

Lasciando da parte i problemi della Teodicea, da cui non è possibile districarsi, l’invenzione della tessitura fu davvero un gran passo avanti. Si cominciarono a produrre vestiti senza bisogno di sfruttare gli animali (che pur continuavano a essere uccisi non solo per ragioni alimentari, ma perché le loro pelli costituivano ancora una preziosa materia prima, anche nell’ambito dell’abbigliamento). Grazie alla possibilità di tessere i vestiti secondo il proprio gusto estetico, ricorrendo  anche alle sempre più raffinate tecniche per la tintura delle stoffe, nacque la moda, che è un aspetto minore, ma non trascurabile, dell’Arte. Non è un caso che i grandi artisti del Rinascimento, come Raffaello, si siano dedicati anche al disegno di abiti di gran pregio. Non vorrei dire una sciocchezza, ma mi pare che sia stato proprio Raffaello a disegnare le divise delle Guardie Svizzere pontificie, in uso fino a qualche decennio fa, poi sostituite con quelle ridicole di oggi (il degrado irreversibile della Chiesa Cattolica si misura anche da queste piccole cose). E, come attraverso le opere d’arte, che sono una forma sublimata di linguaggio, anche attraverso l’abbigliamento si comunica. Magari per ingannare, come capita spesso con il linguaggio comune (quante frottole raccontiamo in una nostra giornata? Innumerevoli, per le più svariate ragioni). In questo senso, ha ragione il vecchio proverbio che recita: “Non è l’abito che fa il monaco”. Certo, un monaco che porta il suo abito mi dice, con quell’abbigliamento, che si dedica a una vita di spiritualità, di penitenza, di servizio divino. Ma io posso vestirmi da monaco per sembrare una brava persona e poi comportarmi da vero delinquente, servendomi di un travestimento. Allo stesso modo, posso travestirmi da pompiere per andare a svaligiare le case, o da carabiniere per andare a rapinare una banca.

La moda, specialmente per le donne, è sempre stata un linguaggio di seduzione. Ha sempre lanciato segnali ai rappresentanti dell’altro sesso (lascio da parte qui tutta la questione LGBT+, che francamente trovo stomachevole), per invitarli a godere delle loro grazie, fermo restando che, se il segnale era rivolto a tutti, la risposta rimaneva – o doveva rimanere – sottoposta alla discrezionalità del soggetto emittente. Se io vedo una bella donna discinta, non devo credermi in diritto di approfittare delle sue grazie solo perché lei ha mandato un messaggio. Il messaggio è erga omnes, ma non tutte le risposte sono ben accette. Non è come un bel gioiello esposto in vetrina, che tutti possono acquistare, purché ne paghino il prezzo. Anche una donna può comportarsi così, ma allora non siamo più nel campo dell’erotismo, bensì della prostituzione: che, sia be chiaro, non considero affatto una cosa ignobile, è un lavoro come un altro. Ma, in quanto tale, non rientra nel campo del Dono, bensì  del Commercio. E anche l’abbigliamento di una prostituta, di solito, è tale da mandare un messaggio inequivocabile. Si capisce subito con chi si ha che fare e di che tipo è la sua offerta: sesso, non eros, offerto a tutti dietro compenso.

Le società maschiliste hanno sempre vegliato sull’abbigliamento femminile, proprio per impedire che certi messaggi di seduzione potessero diventare così dirompenti da mettere in discussione l’ideologia su cui si basava l’ordine sociale, quello che pretendeva di relegare le donne in casa e mantenere nelle mani dei maschi le leve del potere. Si parla tanto di velo, di burqa e di altre cose del genere per vantare la presunta superiorità dei nostri costumi rispetto a quelli di altre civiltà. Eppure, anche da noi, fino a qualche decennio fa, una donna in chiesa era invitata a velarsi e a coprirsi le spalle nude, per non offendere il Signore. E fin qui, può anche essere giusto: come uno non si presenta a un colloquio con il sindaco in pigiama, o non va alla “prima” di un’Opera in abito da lavoro, così non deve entrare nella casa del Signore in abbigliamento trasandato o provocante: la seduzione non deve aver posto in chiesa, anche se può avvenire che proprio in chiesa ci si innamori di una donna, come capitò a Petrarca con Laura. Altra cosa è se il parroco di un paesello redarguisce una ragazzina che cammina per la strada, in piena estate, indossando calzoncini corti (non invento: è capitato davvero, nei lontani anni  Cinquanta dello scorso secolo, non dico dove per carità di patria, dico soltanto che non era nel Sud).

Proprio il maschilismo è alla base di quel pregiudizio per cui una donna elegante e seducente è necessariamente frivola. Perchè una donna non deve poter essere bella, seducente, e anche intelligente? Perché per essere intelligente una donna deve essere brutta, malvestita e assomigliare a un maschio? Negli anni Sessanta dello scorso secolo la moda della minigonna fu una vera e propria rivoluzione, un grande atto di emancipazione. Finalmente le belle ragazze potevano esibire le loro grazie, senza per questo essere accusate di frivolezza. Benedetta Mary Quant! Tempi indimenticabili. Poi, purtroppo, sono arrivati i cosiddetti “stilisti”, che sono quasi tutti uomini, spesso omosessuali, e quindi odiatori delle donne. A poco a poco hanno imposto l’idea che la donna deve essere magra fino all’anoressia e che nell’abbigliamento deve essere il più possibile mascolina. Le sfilate di moda sono un obbrobrio. Abiti che, in circostanze normali, nessuno indosserebbe, per non farsi dare la baia, esibiti da modelle magrissime che sembrano il ritratto della miseria. Aveva ragione Baudelaire: c’è qualcosa di perverso nella magrezza. E anche il vecchio Benoit nella pucciniana “Bohème” : “Le donne magre son grattacapi, o meglio sopracapi”.

E’ paradossale che, se oggi qualcosa sembra cambiare nella moda femminile, tornando ai tempi in cui l’abbigliamento mandava anche messaggi di grazia, di bellezza e di seduzione, siano proprio alcune donne a inalberarsi. Dacia Maraini, per esempio, che se la prende con il ritorno delle gonne svolazzanti, viste come un segno di regressione, un voler riportare le donne alla condizione di sudditanza di un tempo. Ma perché mai? Per quale motivo una donna non può essere intelligente, emancipata, professionalmente impegnata in attività prestigiose e nello stesso tempo seducente? Un abbigliamento di buon gusto non è anch’esso un segno di intelligenza? E non è forse vero che l’autentica seduzione si accompagna al buon gusto, quindi all’amore per l’Arte, se è vero, come dicevamo, che la moda è una forma d’Arte? Una gonna svolazzante può essere quella di una prostituta che adesca i potenziali clienti ai margini di una strada, ma anche quella di una donna che dirige un’azienda con ottimi risultati. C’è gonna svolazzante e gonna svolazzante, come c’è quadro e quadro. Non tutte le Madonne sono come quelle di Piero della Francesca. Non tutte le Veneri sono come quella di Tiziano o di Giorgione. O forse le Veneri di Giorgione e di Tiziano  sono da buttar via proprio per la loro presunta frivolezza? Non sono neanche vestite, parlano con la loro nudità. Anche la nudità è una forma di comunicazione… Il corpo nudo è il vestito di un’anima. Che può essere un’anima piccina o un’anima grande…

La donna che, per essere moderna, si veste da maschiaccio, rinunciando al linguaggio della grazia, della bellezza e della seduzione, rischia di fare una brutta fine. Del maschio, imita gli aspetti peggiori. Invece, nelle professioni che una volta erano riservate ai maschi, la donna dovrebbe introdurre quella “marcia in più” che i maschi non avranno mai. In questo risulterebbero imbattibili. Avete presente il film “Tar”, splendidamente interpretato da Cate Banchett? E’ la storia di un direttore d’orchestra donna, che veste sempre abiti maschili e nella sua professione, tradizionalmente riservata agli uomini, si comporta proprio come si sono sempre comportati gli uomini, abusando del proprio potere. Fa una brutta fine. E’ omosessuale, ma questo dovrebbe contare poco o niente. Una donna può essere omosessuale ma rimanere donna, con tutti gli attributi della bellezza e della grazia femminile. Quella bellezza e quella grazia che dovrebbero essere il primo antidoto alla brutalità del potere maschilista. L’antropologia ci dice che le antiche civiltà gilaniche, in cui era la donna ad avere la preminenza, erano molto più pacifiche delle successive civiltà patriarcali, e si reggevano su forme di governo e di rapporti comunitari che non escludevano affatto la componente maschile. La Creta dei Minoici, quella di Arianna, era una società matriarcale, i cui palazzi, adorni di giardini e spazi aperti, nonché di sale splendidamente decorate, erano privi di mura difensive, perché bastava una forte flotta a garantire la pace. Poi arrivarono gli Achei, con i loro palazzacci ferrigni  e il loro culto della guerra. La guerra di Troia fu uno dei bei risultati.

A proposito di direttori d’orchestra donne. Conosco Beatrice Venezi solo di nome, non l’ho mai ascoltata dal vivo in un’Opera o in un concerto sinfonico. Alcuni ne parlano bene, altri ne parlano male. A Palermo, alcuni componenti dell’orchestra del Teatro Massimo le hanno fatto la fronda, dicendo che non sa dirigere. A Nizza l’hanno contestata solo perché non fa mistero di essere una sostenitrice di Giorgia Meloni. Ho l’impressione che, di là dai suoi meriti, sia proprio questo il motivo politico per cui è così criticata nel mondo della musica e del teatro, notoriamente in mano dell’intellettualità di sinistra. Ebbene c’è una cosa che mi piace moltissimo in Beatrice Venezi, a prescindere dalla sua vera o presunta capacità direttoriale: quando sale sul podio, rifiuta di infagottarsi negli abiti maschili (i ridicoli frac o le ancor più ridicole bluse nere oggi di moda, simili a pigiami, come quelle del grande -e simpaticissimo- Antonio Pappano). Si veste da donna, in abiti elegantissimi. Non farà la fine di Tar. Forse le qualità tipicamente femminili possono aggiungere una marcia in più all’interpretazione dei grandi capolavori, che finora ha sempre portato il marchio della mascolinità.

Per concludere: alla faccia di Dacia Maraini, viva la femminilità, viva la grazia, viva la bellezza, viva le gonne svolazzanti 

Giovanni Tenorio

Libertino

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