Accoglienza indiscriminata: la nuova via verso il socialismo?
Accogliere, accogliere, accogliere e ancora accogliere. Questo è il ritornello che ormai siamo abituati a sentir ripetere da quando questo papa strampalato, forse il più bizzarro di tutta la storia della Chiesa, è salito sul soglio di Pietro per contorte macchinazioni interne a quella che continua a pretendere di essere venerata come la purissima Sposa di Cristo, vogliosa di essere baciata con i baci della Sua bocca, per citare il Cantico dei Cantici. Non è chiaro se si renda conto delle implicazioni di quanto raccomanda. O, forse, se ne rende conto anche fin troppo, ma persegue un disegno politico tracciato da quei poteri che gli hanno conferito l’augusto incarico di cui si fregia (chiamiamolo esplicitamente “neo socialismo”: l’individuo sacrificato sull’altare della collettività, l’accoglienza non è scelta individuale, ma atto politico globale sostenuto dall’estorsione fiscale). Perché è verissimo che l’accoglienza è buona cosa, in linea con i più nobili principi della morale cristiana, ma è anche vero che non si può soltanto accogliere, bensì anche provvedere ai bisogni di chi si è accolto. E qui cominciano le difficoltà, perché io posso avere i mezzi per aiutare una, due, tre persone che si trovano in stato di indigenza, ma poi le mie risorse finiscono. A questo punto o mi fermo, o continuo a soccorrere gli infelici scaricando però su altri, anche loro malgrado, l’onere del mantenimento. Il che comincia a non essere più tanto in linea con l’insegnamento evangelico. Il Buon Samaritano non si limita a soccorrere il povero infelice vittima di un attacco dei briganti, ma lo porta in un albergo e paga per lui le spese. Non le lascia sul groppone dell’albergatore. Invece, quelli che soccorrono in mare i migranti fanno proprio così. Se una nave dei benèfici soccorritori volontari batte, per fare un esempio, bandiera olandese, una volta imbarcati i profughi sono per diritto internazionale in territorio olandese. Dovrebbero essere scaricati in Olanda e lì si dovrebbe provvedere al loro sostentamento. Invece è più comodo scaricarli, per esempio, in Italia. Così è il contribuente italiano a doversene fare carico.
Santa Romana Chiesa di papa Bergoglio, alleata di un brutto ceffo come Casarini, dà man forte, finanziandoli con denaro che viene anch’esso in gran parte dalle tasche del contribuente italiano, anche dei miscredenti come me, chi va a soccorrere i migranti in mare ma poi li carica sulle spalle degli altri. Eppure in Italia ci sono molti immobili, di cui sono proprietari i preti, completamente vuoti. Pensiamo ai seminari costruiti in tempo in cui i futuri operai della messe erano forse pochi in rapporto alla necessità di pascere il gregge, ma piuttosto numerosi rispetto a quei due o tre sfigati di oggi che si sentono vocati alla missione sacerdotale. Perché non usare questi immobili per ospitare i migranti salvati dalle acque con i barconi di Casarini e provvedere al loro sostentamento? No, molto meglio venderli al miglior offerente magari per trasformarli in hotel a 5 stelle, o ancor meglio gestirli in proprio a titolo di foresteria, incassando lauti guadagni e non pagando un centesimo di imposte. Furbi i preti, vero? Armiamoci e partite, diceva quel tale. Soccorriamo e manteneteli, dice il Vicario di Cristo. D’altra parte, ai tempi di Gesù non c’erano registratori fonografici, non possiamo sapere bene che cosa ha detto veramente il Figlio di Dio. Forse nella parabola del Buon Samaritano, quella autentica, il protagonista non paga un bel niente. Porta il malcapitato viandante assalito dai briganti da un albergatore e gli dice: “Io ho fatto la mia parte, adesso arrangiati tu. L’accoglienza è un dovere. Accogliere, accogliere e poi ancora accogliere. La prossima volta te ne porto un altro. E se ti rifiuti di accoglierlo, sei un bell’ egoista”.
Scherzi a parte, il problema è davvero serio. Accogliere e provvedere finché se ne hanno i mezzi è sicuramente un atto meritorio, e fino a un certo punto anche vantaggioso. Il calo demografico e il rifiuto, da parte delle giovani generazioni, di svolgere alcune attività faticose e mal retribuite rende necessario il ricorso a manodopera straniera. Se non ne potessimo disporre, quanta bella frutta rimarrebbe sulle piante anziché finire, ben imballata, sugli scaffali dei nostri supermercati; quante belle olive resterebbero a marcire sugli alberi. Attenzione, però: gli stranieri che vengono assunti, di solito con contratti di lavoro precari o addirittura in nero, devono essere trattati umanamente e compensati con un salario dignitoso. Sappiamo che non è così. L’episodio di quest’estate di un bracciante lavoratore in nero che, mutilatosi durante il lavoro nei campi, è stato scaricato insieme al suo braccio davanti alla propria abitazione e lì abbandonato, è un delitto che fa accapponare la pelle. Ma perché possono capitare queste cose? Perché l’immigrazione non è controllata. Ad accogliere tutti, succede così. C’è sempre qualcuno che approfitta di chi è disperato e sarebbe disposto ad accettare qualsiasi lavoro, anche per pochi spiccioli, pur di sopravvivere. Un’immigrazione controllata permetterebbe invece di vigilare sul mercato dei lavoratori stranieri, esigendo che siano retribuiti secondo quanto previsto dagli accordi sindacali validi per i lavoratori autoctoni, e godano degli stessi diritti.
Il problema dei lavoratori stranieri che ormai risiedono stabilmente in Italia e godono di un reddito sufficiente al proprio mantenimento si intreccia con quello del conferimento della cittadinanza. E’ un tema che ogni tanto ritorna alla ribalta, suscitando sguaiate polemiche. In questi ultimi tempi si è tornato a parlare di “ius culturae” ,ius scholae” e altre asinerie del genere (mi chiedo dove abbia studiato il latino certa gente; “ius culturae” può voler dire soltanto diritto di coltivare la terra: quella che noi chiamiamo “cultura” per i Romani erano i “mores”). Mi chiedo che cosa c’entrino in tutto questo la cosiddetta “cultura” (?) e una scuola sempre più disastrata, dove si fa di tutto fuorché insegnare la Cultura nel senso più elevato del termine, quella con la C maiuscola (ricordate l’osceno slogan berlusconiano ai tempi della ministra Moratti? “Inglese, impresa, informatica”. “Si vergogni Cavaliere!” scrisse giustamente Ernesto Galli della Loggia). Non basta che uno, con tutta la sua famiglia, sia rimasto in Italia per un certo periodo di tempo, mantenendosi con i proventi del proprio lavoro, svolto secondo contratti a norme di legge, comportandosi in modo corretto, senza mai incorrere in sanzioni penali? Se rispetta le leggi italiane, perché non deve poter diventare italiano? Certo, per far questo bisogna pretendere che dagli stranieri le leggi italiane siano rigorosamente rispettate. Non è ammissibile che un giudice assolva uno straniero per un comportamento per il quale un cittadino sarebbe condannato, con la motivazione che l’ha fatto perché così glielo impone la sua “cultura” (?). Al diavolo la cultura, la legge è uguale per tutti, italiani e stranieri. Non è ammissibile che in una famiglia di musulmani la donna sia discriminata e obbligata dal marito ad andare in giro col velo. Il diritto di famiglia italiano non lo permette. Se pretendi di far valere la tua cultura, il diritto di cittadinanza te lo sogni e fai il piacere di andartene a casa tua. Con buona pace di quel signore vestito di bianco che abita nella Città del Vaticano. Il quale dovrebbe ricordare che San Paolo ha detto: la vecchia Legge non vale più, dopo il sacrificio di Cristo vale quella nuova. Ecco, si licet parvis componere magna, per chi arriva in Italia e vuole rimanerci da cittadino, non vale più la “cultura” d’origine ma quella che per lui è la nuova legge. Punto e basta. Se non accetta queste condizioni, accoglienza un corno!
Mi viene in mente un aneddoto raccontato anni fa dal compianto Piero Ostellino. In India, un personaggio appartenente a una casta altolocata pretende dal governatore inglese il permesso di mandare sul rogo del marito defunto la moglie vedova “perché-dice-questa è la nostra cultura”. Rispose il governatore: “E invece è la nostra cultura a mandare sulla forca chi fa salire la vedova sul rogo del marito”.