Don Giovanni

Una commedia in tre atti

“Te vee a pescà?” – “No, voo a pescà” – “Ah, credevi che te andavet a pescà!”
Così una volta nelle contrade del Milanese si metteva alla berlina il parlare tra sordi: non tanto i sordi veri, poveretti, quelli che oggi nel linguaggio politicamente corretto si chiamerebbero “non udenti”, ma quelli che non sentono perché non sanno ascoltare; e così, nelle discussioni, procedono ciascuno per la sua strada, senza intendersi, e magari finiscono di accapigliarsi credendo di essere in disaccordo mentre dicono, con parole diverse, la stessa cosa.
“Tu dici che il neoliberismo non è socialista?” – “No, io dico che il neoliberismo non è socialista” – “Ah, credevo diceste che il neoliberismo non è socialista” . Commedia in tre atti.
Atto Primo. In un suo saggio pubblicato su “Nuova Storia contemporanea” il politologo Alberto Mingardi spiega, con dovizia di puntuali argomentazioni, che il cosiddetto”neoliberismo”  della Thatcher e di Reagan, divenuto per qualche tempo un modello virtuoso da imitare (nell’èra di Blair e di Clinton), e in appresso un mostro da esecrare, lungi dall’essere sinonimo di “liberismo selvaggio” privo di regole, sì è limitato a liberalizzare alcuni aspetti dell’economia produttiva, aggravando invece la regolamentazione del sistema finanziario e bancario: anche la riforma clintoniana dello “Steagall Act” non ha dato via libera a operazioni bancarie più spregiudicate di quelle che già erano consentite allorché la legge era integralmente in vigore. La bolla speculativa dei mutui facili divenuti inesigibili, che ha dato  inizio alla prima grande crisi economica globale del sec.XXI,  è il frutto non del mercato abbandonato a se stesso, ma del “conservatorismo compassionevole” di Bush, quindi di un pesante intervento politico nel libero gioco delle transazioni economiche. Ergo, quel che passa sotto il nome di “neoliberismo” in realtà è socialista.
Atto secondo. In risposta a Mingardi il sociologo Luciano Pellicani sul “Foglio” del 25 febbraio riprede le argomentazioni già svolte tre anni fa sulle pagine di “Reset”: la crisi è frutto del neoliberismo: la deregolamentazione finanziaria e l’euforia dei cosiddetti “mutui subprime” hanno provocato il disastro. Economisti come Stiglitz l’avevano previsto: la bolla doveva scoppiare. Lo stesso Alan Greespan, che aveva guidato la FED tenendo come faro il monetarismo di Milton Friedman, dovette riconoscere la fine di un’illusione in cui aveva creduto per quarant’anni. Ergo, il mercato non può esser lasciato a se stesso. Lo Stato deve intervenire a regolarlo, per garantire la libertà delle transazioni, la perequazione dei redditi e servizi sociali per tutti. Questa si chiama socialdemocrazia. Non una parola a confutazione di quanto Mingardi ha provato, dati alla mano: che cioè il settore bancario e finanziario è regolato da normative addirittura soffocanti, secondo criteri dirigistici che implicano una corposa presenza pubblica.
Atto terzo. Interviene nella polemica, sul “Corriere della sera”, Giuseppe Bedeschi. Tirando in ballo Einaudi e Roepke, respinge l’idea che solo la socialdemocrazia sia compassionevole, ricordando che furono proprio i due suddetti economisti liberali a introdurre l’idea dell”economia sociale di mercato”, cioè di un neocapitalismo corretto dall’intervento pubblico e aperto alle esigenze dei ceti più deboli.
In somma, tutti e tre parlano di socialismo, ma lo chiamano ciascuno a suo modo, e si azzuffano su significanti a cui ciascuno appiccica significati diversi. Mingardi lo chiama neoliberismo equiparandolo alla socialdemocrazia. Pellicani lo chiama socialdemocrazia, opponendola all’odiato neoliberismo. Bedeschi lo chiama economia sociale di mercato, opponendola all’una e all’altro.
Se non vado errato, anche Mario Monti è un fautore dell’economia sociale di mercato, che troverebbe il suo inveramento nel sistema tedesco, un’autentica schifezza. E ancor più schifezza quel che ha combinato lui quand’era al governo, pronuba la Merkel, ruffiano Sarkozy e padrino Napolitano, proclamandosi “liberale” e scorticando i sudditi a suon di tasse: esproprio proletario.
E allora io dico: andate a farvi fottere tutti quanti.

Giovanni Tenorio

Libertino