Trump e l’equivoco libertario
A certi liberali liberisti libertari Donald Trump piace sempre di più. Hanno dimenticato le sue smargiassate maschiliste e razziste, fanno spallucce davanti alla sua politica dei muri anti-immigrazione, poco si interessano della sua politica estera che rischia di acuire le tensioni in alcune aree particolarmente sensibili (si pensi alla Corea o al Vicino Oriente), non si preoccupano del suo nazionalismo bieco che si compendia nella formula dell'”America first”, tanto simile al tristo “Deutschland uber Alles”. Quel che li attira è la politica economica. Anche qui però dimenticano un particolare grande come una montagna: Trump è un fervente protezionista, sempre nel nome della primazia americana, che va difesa dalla concorrenza sleale dello straniero. Il consumatore americano pagherà di più alcune merci che sarebbero meno care se si potessero importare senza pagare dazio? E allora? L’ importante è compiacere alcuni potentati industriali che hanno lautamente finanziato la campagna elettorale di Trump.
La politica economica, dunque. Quella che mira a consolidare e a espandere la ripresa ormai da tempo in corso dopo la più grave crisi del secondo dopoguerra. Quella che ha già fatto schizzare in alto i titoli di borsa. Ma in che cosa consiste? In una forte riduzione delle imposte sui redditi d’ impresa. I costi di produzione in questo modo si abbasserebbero, le imprese diventerebbero sempre più competitive, gli investimenti si moltiplicherebbero. E il debito pubblico non soffrirà del minor gettito fiscale? In un primo tempo sì, ma poi grazie alla crescita economica anche il gettito aumenterà, a dispetto delle aliquote più basse…
È una vecchia manfrina. Si tratta delle “Supply-side economics” di Arthur Laffer, che Reagan a suo tempo applicò con qualche successo, ma lasciarono un debito pubblico spaventoso, gonfiato dalle spese militari. È presumibile che Trump, con la sua “America First” si metta sulla stessa strada.
Siamo davanti al più ferreo statalismo. Che si intervenga nel libero gioco del mercato con investimenti pubblici finanziati in deficit, con detassazioni che incidono sui consumi o con riduzioni delle imposte sui redditi di impresa che stimolano la produzione, siamo sempre di fronte a manovre stataliste, keynesiane in senso lato. Keynes parlava di “fine del laissez faire”. Ma quando mai è esistito il laissez faire? Anche la tassazione più blanda distorce il mercato. Il mercato veramente libero è quello senza tasse. La flat tax che piace a Berlusconi? Molto meglio del latrocinium magnum di oggi, ma sempre latrocinium è. Palliativi, che non indeboliscono lo Stato, anzi lo rafforzano come demiurgo dei rapporti economici e sociali.