Spettacolo da baraccone
Sarebbe stato meglio che rimanesse chiusa. Come capitò, una prima volta, alla fine dell’Ottocento, per motivi finanziari, e una seconda volta quando fu sventrata dai bombardamenti che nel terribile agosto del 1943 colpirono Milano (“Invano cerchi tra la polvere, povera mano, la città è morta!”, come scrisse in una sua lirica dolente Salvatore Quasimodo). Perché non spostare di qualche mese l’apertura, offrendo al pubblico una stagione ridotta, con il proposito di ripristinare nel cartellone della stagione successiva i titoli soppressi? Oppure, se proprio non si voleva rinunciare al tradizionale Sant’Ambrogio (tradizionale fino a un certo punto, perché in un passato non proprio lontano la “prima” si celebrava il giorno di Santo Stefano) perché non seguire l’esempio del Festival Donizetti di Bergamo, che ha prodotto in “streaming”, a teatro vuoto, gli allestimenti programmati, alcuni in forma di concerto, altri in forma scenica, come del resto stanno facendo, più o meno allo stesso modo, il Teatro dell’Opera di Roma e il San Carlo di Napoli? Forse perché, come ironizzava Verdi, “nun semm nun milanes, el primm teater del mond”?Povera Scala! Caduta ben in basso dopo l’ignominiosa cacciata di Muti (tra l’indifferenza dei cittadini, mentre sul “New York Times” si chiedevano preoccupati che cosa stesse capitando nella città meneghina) ha voluto fare qualcosa di diverso dagli altri, ed effettivamente c’è riuscita, riscuotendo il plauso di tutta la stampa nazionale e anche di un buon numero di spettatori, che hanno seguito l’inconsueta “prima” su RAI 1, sorbendosi i trionfalistici e insopportabili commenti di Bruno Vespa e Milly Carlucci, due personaggi che stanno alla grande musica come io sto alla Fisica Quantistica. A costo di passare per il solito bastian contrario, io rimango convinto invece che è stata una triplice “cagata pazzesca”, per dirla con Fantozzi. Primo: non era in diretta, ma in differita. In pratica gli spettatori si sono sorbiti un film. Secondo: anziché trasmettere un’Opera intera, hanno trasmesso un concertone di arie interpretate da cantanti illustri, frammiste a brani di prosa recitati da attori famosi e a esibizioni coreografiche in cui svettavano soprattutto le chiappe e gli attributi di Roberto Bolle. Terzo: si è voluto dare come recipiente a questo minestrone già di per sé indigesto una stolida regia del solito Davide Livermore, quello che aveva già deliziato il pubblico lo scorso anno con “Tosca” e due anni fa con “Attila”. Le sue insulse trovatine, che tanto piacciono alla critica più aggiornata, non scandalizzano neppure più, annoiano soltanto. L’idea, poi, di far canticchiare l’Inno di Mameli a una donna che fa le pulizie in teatro (ovviamente una comparsa) e poi a tutte le maestranze in coro è semplicemente ridicola. Voleva essere una riproposta dell ‘”andrà tutto bene!” dell’inverno passato, quando si esponevano bandiere tricolori e si cantava l’inno per stringersi a coorte contro il Covid nemico (e qualcuno esponeva la bandiera con i colori invertiti: patriota e culattone)? Per una volta tanto che si poteva rinunciare all’insulsa marcetta, data l’assenza delle autorità che solitamente ricevono in regalo un posto gratis, magari per fare un pisolino approfittando del buio, salvo poi osannare la magnificenza dello spettacolo, si è invece voluto proporla anche in queste circostanze, sconciandola ancor di più, come se non fosse già sconcia per conto suo.Francamente, non ho capito con quale criterio siano stati scelti i brani delle Opere che ci sono stati propinati. L’ultimo, il Finale del “Guglielmo Tell”, “Tutto cangia, il ciel s’abbella” può anche avere un senso, alludendo alla speranza che finalmente si possa uscire da questi mesi bui : “andrà tutto bene”, ancora una volta. Ma, all’inizio, quel preludio del “Rigoletto” ? Musica cupa, senz’altro, forse a significare i lugubri mesi trascorsi agli arresti domiciliari e il presente ancora così poco radioso? Bambinate. Era necessario scomodare un regista famoso per escogitare trovate di questo genere? Quanto agli altri pezzi musicali, ha ragione Enrico Girardi, sul “Corriere della sera”, a dire che le Arie d’Opera possono essere splendide nel loro contesto, ma eseguite isolatamente sono come iceberg vaganti nell’ oceano, pur mantenendo un loro fascino. Allora, dico io, sarebbe stato molto più onesto offrirle al pubblico proprio quali perle di una bella collana, come capita in tutti i concerti operistici, non ultimo il Concerto di Capodanno alla Fenice di Venezia, che tanto improvvidamente e maldestramente vorrebbe far concorrenza a quello viennese, come se un tacchino spelacchiato potesse oscurare la bellezza di un pavone (a proposito, che ne sarà quest’anno del concerto veneziano? In “streaming” anche quello? Ci scommetto che il concerto di Vienna si farà con la presenza del pubblico, magari distanziato e imbavagliato; spero solo che Muti sul podio sia senza museruola). Mi fa ridere Chailly quando dice che sì, purtroppo non si è potuta aprire la Scala con la “Lucia di Lammermoor” programmata, anche se scene e costumi erano già tutti pronti, però Lisette Oropesa, che doveva cantare nel ruolo eponimo, si è potuta esibire nella cavatina “Regnava nel silenzio” eseguendo per la prima volta cinque battute che, obliate nella prassi esecutiva consuetudinaria, nell’edizione critica sono state ripristinate. Che meraviglia, signori miei! Filologia pura, di quella che oggi va tanto di moda. Chailly portava i calzoni corti quando l’ancor giovanissimo Claudio Abbado inaugurò, nel 1966, la stagione della Scala con una bellissima “Lucia”, protagonista Renata Scotto, in cui si faceva davvero qualcosa di innovativo, rispetto alla vieta abitudine teatrale: si riaprivano molti tagli, primo fra tutti quello della splendida scena del temporale (“Orrida è questa notte/come il destino mio!”). Se voleva offrirci qualcosa di veramente “filologico”, e anche esteticamente sublime, Chailly avrebbe dovuto scegliere piuttosto l’Aria della pazzia, accompagnata non dal solito flauto, ma dall’agghiacciante suono della glassarmonica, come nella partitura originale, quella che si eseguì a Napoli il 26 settembre 1835, protagonista Fanny Tacchinardi. E’ pretendere troppo da uno che anche negli anni passati ci presentava come meraviglie brandelli di frasi musicali ripescate dal cestino della spazzatura dove i compositori li avevano giustamente gettati. Ha fatto qualcosa di simile anche nella sua ultima “Aida” in forma di concerto, dove ha reintegrato un brano a cappella che Verdi, il primo e più severo critico di sé stesso, aveva sapientemente eliminato.Niente Wagner, che pur in un primo tempo era in programma, per ragioni tecniche, così dicono, anche se non si capisce di qual natura. E per fortuna, niente Mozart. Mozart dovrebbe essere considerato cittadino onorario di Milano a tutti gli effetti, per aver donato alla città, quando la Scala non c’era ancora e gli spettacoli si tenevano al Teatro Ducale, ben tre Opere. Con Muti Mozart era di casa. Dovessi scegliere il suo allestimento mozartiano più bello, direi l'”Idomeneo” che aprì la stagione 1990-91. Bei tempi. La regia era di Roberto De Simone, un grande, che da musicista qual è imposta le sue regie tenendo in mano la partitura, mentre i registi d’oggi manco sanno leggere il libretto. Allora la Scala era forse davvero il primo teatro del mondo. Certo il Mozart più bello si faceva lì. Quest’anno, con lo spettacolo da baraccone di Davide Livermore ha toccato il suo livello più basso. Per quanto mi riguarda, dopo le indigeste “Nozze di Figaro” dirette pesantemente da Franz Werfel Möst di qualche anno fa, ci ho messo una pietra sopra. Mozart non è più cittadino di Milano. E anch’io, che sono il suo più grande figlio, mi tengo ben lontano da quella che Ugo Foscolo chiamava “città della merda
Il plauso della stampa nazionale? La stessa che plaude alle misure restrittive della libertà personale. Sempre libero degg’io… ma purtroppo è vietato.