Ol pòpol l’ha ciapaa in dal dedree
Cari amici, come sapete, certi sedicenti liberisti e libertari sono sempre pronti a denigrare il principio democratico della maggioranza che, rappresentando la volontà del popolo sovrano, avrebbe sempre ragione; salvo poi inchinarsi al mito del referendum, magari senza quorum, quando si tratta di decidere una secessione territoriale o l’abbandono di un’ unione politico-economica. Chissà perché in questo caso, se ad esempio il 50%+1 dei partecipanti al voto nella misura di un 70% degli aventi diritto, esprime parere favorevole a una secessione territoriale o all’uscita da un’alleanza, allora la “volontà del popolo” ridiventa sovrana e intoccabile. Eppure, anche ammesso e non concesso che una maggioranza assoluta rappresenti una fantomatica “volontà popolare”, il 50% +1 di un 70% corrisponde al 35% +1 degli aventi diritto al voto; i quali ultimi non coincidono mai, tra l’altro, con tutti gli effettivi abitanti di un territorio ( specialmente in un’epoca di grandi flussi migratori come la nostra), anche a voler escludere dal computo i minori e gli incapaci d’intendere e di volere. Dove va mai a finire, con queste cifre minoritarie, la “volontà del popolo”? Nella spazzatura dei miti e delle delle ideologie. Ha quindi ragione da vendere chi, andando controcorrente e sfidando le rabbiose obiezioni di tanti indipendentisti travestiti da libertari, abbondantemente nutriti di Miglio e proni al modello sacro del Paese di Guglielmo Tell, mostra la sua contrarietà alla cosiddetta “Brexit”: un’operazione referendaria attraverso cui una risicata maggioranza popolare può permettersi di decidere, alla faccia della consistente minoranza che non è d’accordo, di abbandonare un sistema di alleanze politico-economiche cui s’era a suo tempo data adesione attraverso le prescritte procedure istituzionali. In questo modo, molti ospiti di cittadinanza europea, che da tempo lavoravano nel Regno Unito, perfettamente integrati nel tessuto economico-sociale, ben accetti nell’ambiente di lavoro, benvoluti dai nativi e del tutto leali alla nuova patria in cui avevano deciso di vivere, si sono trovati da un momento all’altro davanti alla possibilità di venir defraudati, in quanto “stranieri”, dei diritti che avevano acquisito, col rischio, prima o poi, di doversene tornare ai propri lidi. Non è anche questo un sopruso? Non è un atto di violenza? Senza dubbio! Poco importa che gli “stranieri” non vengano cacciati coi forconi o a suon di fucilate. Se vengono sradicati a colpi di (presunte) maggioranze popolari da un ambiente dove erano stati a suo tempo accolti e al cui benessere avevano contribuito col loro lavoro, sono vittime di un’angheria*.
Può capitare che qualche volta uno sfregio ai tanto dileggiati stranieri, fra cui gli italiani occupano, specie nel Canton Ticino, un posto d’onore, riesca a passare, per via legislativa e poi referendaria. Magari si tratta di una di quelle leggi che si proclamano finalizzate a un certo obiettivo sulla cui nobiltà nessuno avrebbe nulla da eccepire, ma in realtà mirano a uno scopo inconfessabile. Prendete, ad esempio, la cosiddetta “Tassa di collegamento”, che, approvata dal “popolo” ticinese con il 50,7% dei voti, entrerà in vigore nella Svizzera italiana a partire dal prossimo primo agosto. Che cosa prescrive? Che i “generatori di importanti correnti di traffico” (proprio così:la burocrazia svizzera è quasi più cretina di quella italica), ovverossia fabbriche e supermercati i cui dipendenti e la cui clientela, per raggiungerli, producono un rilevante traffico motorizzato, siano tenuti a pagare un tributo di franchi 3,50 per ogni posto-auto riservato al personale e di franchi 1,50 per ogni posto-auto riservato alla clientela. Motivazione ufficiale: salvaguardare l’ambiente, proteggere la salubrità dell’aria, ricavare proventi per il miglioramento del trasporto pubblico. Motivazione inconfessabile: lucrare un tesoretto di 18000 franchi sottraendolo alle tasche di chi, per circolare sulle strade, di balzelli ne ha già pagati a sufficienza; bastonare i pendolari italici che ogni giorno varcano con i loro autoveicoli i valichi di frontiera per andare a lavorare nelle fabbriche o per far la spesa nei supermercati del Canton Ticino. Questa volta le associazioni dei datori di lavoro, contrarissime al provvedimento, non sono riuscite a convincere il “popolo”; o, per meglio dire, non sono riuscite a strappare quel punto scarso di percentuale in più a favore del rigetto che avrebbe ribaltato la cosiddetta “volontà popolare”. Chissà quanti bravi cittadini dell’Elvezia italofona hanno votato con gusto l’approvazione del provvedimento, immaginando la stizza dei poveri pendolari “tagliàn”, costretti a sobbarcarsi un nuovo balzello! Perché è evidente che i datori di lavoro scaricheranno il nuovo onere sui dipendenti, prima di tutto, e forse anche sui clienti. I sindacati già sono sul piede di guerra:non sia mai! L’onere rimanga a carico dei padroni! Ma per quale motivo? Ogni costo deve essere in qualche modo coperto. Nessun pasto è gratis. Se un’ora di lavoro mi costa di più, poiché devo pagare anche il parcheggio dei miei dipendenti, qualcuno deve pur rifondermi. Il dipendente paga per la mensa? Paghi anche per il posto-auto! E visto che gran parte dei dipendenti motorizzati sono “tagliàn”, paghino i “tagliàn”, e se non gli va bene se ne stiano a casa loro. D’altra parte i leghisti ticinesi, quelli del fu Bignasca, la pensano né più né meno come i loro cugini lumbard: “Padroni a casa nostra!”