La storia non ha senso: ricordare, non festeggiare.
“La Storia non è magistra / di niente che ci riguardi” scrive Eugenio Montale in una lirica della raccolta Satura, pubblicata nel 1971. Affermazione pessimistica e sconsolata, ma, a mio parere, profondamente vera.
Sarebbe troppo bello se la Storia avesse un senso: potremmo cercare di coglierlo, e individuarne il percorso verso il futuro. Nel Medioevo si pensava che tale percorso fosse segnato dalla Provvidenza divina, che si serviva delle azioni umane, pur compiute in base a libere scelte, in vista dei propri fini imperscrutabili. “Gesta Dei per Francos”, azioni di Dio compiute attraverso il popolo dei Franchi, così Paolo Diacono definiva l’epopea di Carlo Magno, fondatore di quel Sacro Romano Impero che, restaurando l’Impero dei Cesari dopo la sua rovinosa caduta, donava alla Cristianità una sua patria terrena, in attesa del Regno di Dio. Oggi ne sorridiamo, ma tutte le filosofie della Storia, da Hegel a Marx all’idealismo gentiliano cadono nel medesimo errore finalistico: la Storia ha un suo traguardo, che può essere lo Stato prussiano, o la dittatura del Proletariato, o lo Stato Etico che risolve la vecchia libertà individuale del liberalismo classico nella libertà vera delle nuove istituzioni totalitarie. Anche la “Storia della libertà” di Croce e la “Storia dell’autonomia” di Gobetti, pur non prefigurando una meta definitiva, vedono un percorso in continua evoluzione, fra qualche caduta e arretramento, verso un avvenire migliore chiaramente connotato. L’ultimo a credere a queste “magnifiche sorti e progressive” è stato Francis Fukuyama, che, dopo la caduta del sistema sovietico e il fallimento del comunismo su scala mondiale, ha voluto vedere la fine della Storia nel trionfo, ormai irreversibile, delle democrazie liberali. E’ un ironico paradosso che sia sempre stata la Storia stessa a smentire tutte le filosofie che pretendevano di interpretarla. Sono bastati pochi anni perché la dura “realtà effettuale”, per usare la sagace espressione di Machiavelli, smontasse il pensiero di Fukuyama.
Machiavelli, visto che siamo arrivati a parlare di lui, non aveva una filosofia della Storia, ma era convinto che dallo studio del passato si potessero trarre insegnamenti per il presente, con un rigore scientifico. Il politico che studia la Storia e ne comprende le dinamiche, sempre mosse dalle libere azioni degli uomini (ma condizionate molto spesso dalla Fortuna, un’entità ben diversa dalla Provvidenza cristiana), evita di ripetere gli errori che in passato hanno causato fallimenti più o meno gravi, e si apre la strada verso il successo e il consolidamento del proprio potere. Il suo contemporaneo e amico Guicciardini non la pensava così: a suo parere, proprio perché ogni fatto storico è un unicum e nessuna circostanza si ripresenta mai tale e quale nel volgere dei secoli, non è possibile trarre dal passato alcun insegnamento applicabile nel presente o nel futuro. Sarà solo l’intelligenza dei governanti a compiere le scelte che di volta in volta parranno più opportune. Ad esempio, davanti alle minacce di una grande potenza straniera, il governante di un piccolo principato farà bene a deporre ogni velleità di resistenza frontale, e cercherà invece invece di coltivare il proprio “particulare”, sfruttando tutte le occasioni da cui può trarre qualche vantaggio.
Si direbbe che Montale sia dalla parte di Guicciardini. Anch’io, per quel che può valere il mio pensiero, sono d’accordo con loro. Ma allora-dirà qualcuno- perché studiare la Storia. se non serve a nulla? Verrebbe voglia di rispondere: anche l’Arte, anche la Letteratura, anche la Musica non servono nulla. Le gettiamo alle ortiche? Ma l’Arte, la Letteratura, la Musica servono a risollevare lo spirito, sono un nutrimento dell’anima – si potrebbe rispondere. Vero, ma tale è anche la Storia, se ci permette di capire il presente. Senza la Storia non sappiamo chi siamo e perché ci troviamo immersi in un certo contesto, alle prese con certe istituzioni, e permeati – o, se volete, condizionati – da certi “valori”.
Pensiamo a un “valore” che, dopo essere caduto in disgrazia per lunghi anni, in quanto connaturato, nella concezione vulgata, all’ideologia fascista, è ultimamente rinato: il Patriottismo. E’ stato Carlo Azeglio Ciampi, da Presidente della Repubblica, a riportarlo in auge, insieme con quell ‘inno di Mameli-Novaro che, dopo il Fascismo erta stato adottato, si diceva, solo in via provvisoria, senza che poi nessuno avesse mai più pensato a sostituirlo (ma in Italia non c’è nulla di più definitivo di quel che viene dichiarato provvisorio: non è mai il momento giusto per provvedere al cambiamento di qualcosa, anche se a parole tutti lo desiderano). Negli anni Settanta dello scorso secolo uno dei tanti governi a guida democristiana (presidente Andreotti) abolì non soltanto un certo numero di feste religiose, con il vergognoso beneplacito di Santa Romana Chiesa, ma anche qualche festa civile, come il 4 Novembre, giorno della Vittoria nella guerra del 15 -18 e simbolo dell’unità nazionale. Nessuno fece una piega. A quei tempi del 4 Novembre non importava niente a nessuno e dell’intervento italiano nella Prima Guerra Mondiale si diceva soltanto male. Oggi il vento è cambiato. Il “sovranismo” dominante, che la Lega ha esteso dalle rivendicazioni regionalistiche (la “Padania” , il “Centro Nord”) a tutto lo Stivale con le sue isole, si sposa perfettamente con il ritorno alla retorica della Vittoria e del Piave che mormorava. Non c’è da stupirsi, quindi, se l’idea di ripristinare la festa del 4 Novembre sembra prendere sempre più piede.
Anch’io sono d’accordo di ripristinarla, ma, sulla scia di un vecchio suggerimento del compianto Marco Pannella, non come festa di gioia, bensì come celebrazione di lutto. Bandiere a mezz’asta. Niente Piavi che mormoravano. Niente bande musicali che inneggiano alla Patria. Niente discorsi che esaltano l’eroismo delle truppe e le glorie del riscatto dopo la rotta di Caporetto, fino al trionfo di Vittorio Veneto. Non chiuderei le scuole, quel giorno: obbligherei invece gli alunni a studiare, in quelle ore, qualche aspetto della Guerra Mondiale che di solito viene sottaciuto nei discorsi ufficiali. Forse allora si scoprirà che l’entrata dell’Italia nel conflitto non fu dovuta -se non nell’auspicio di qualche idealista- a fini patriottici, come coronamento dell’epopea risorgimentale, ma a un insieme di ragioni ben poco nobili: le Forze Armate volevano la guerra, non importa se dalla parte della Triplice Alleanza o da quella della Triplice Intesa, per lavare l’onta di Adua e di altri eventi poco gloriosi; la grande industria voleva lucrare sulle commesse per gli armamenti e gli equipaggiamenti militari; i socialisti dissidenti di Mussolini vedevano il conflitto come l’occasione per accendere la scintilla della rivoluzione proletaria(in Russia sarebbe capitato proprio così). Futuristi, nazionalisti, intellettuali di ogni tipo facevano la voce grossa. Il Vate D’Annunzio perorava la causa dell’intervento con tutta la sua fascinosa arte retorica. Il “popolo” (in realtà una minoranza vociante di scalmanati), allettato da tutte queste sirene, anche allora scendeva in piazza per chiedere che si rinunciasse alla neutralità.. E il governo anche alllora ascoltò la voce del “popolo” (la minoranza che grida di più, pretendendo di essere l’espressione di un sentire comune) infiaschiandosene del Parlamento, la cui maggioranza, di fedeltà giolittiana, era contraria all’entrata in guerra. Il Fascismo cominciò in quel momento, com’ebbe a dire molti ani dopo, in una sua lettera, Alberto Frassati.
Allora forse, a ben pensarci, non è del tutto ve che la Storia non è maestra di nulla che ci riguardi. Anche oggi il Parlamento viene irriso, qualcuno dice che sarebbe ora di rottamarlo. Anche oggi si dileggino le istituzioni proprie del sistema liberal-democratico in nome del “popolo”, cioè di quelli che si esprimono nelle piazze attuali, come la piattaforma Rousseau e altre brutture del genere. E’ forse il caso di fermarsi un pochino a riflettere.
Forse, in questo senso, la Storia può insegnarci qualcosa.
Mi sembra già di sentire qualche obiezione: “Proprio tu, che ti dichiari anarchico e attacchi la liberal-democrazia, ora la difendi?” Faccio come Gandhi, che pur essendosi sempre battuto contro l’Inghilterra per la libertà dell’India, nella Seconda Guerra Mondiale si schierò con gli Inglesi. Fra la Germania di Hitler e la liberal-democrazia del Regno Unito, meglio la seconda. Fra la piattaforma Rousseau e il Parlamento, meglio il Parlamento. Sarà anche vero che il nemico del mio nemico è mio amico, ma non si può vendere l’anima al diavolo, né per la libertà dell’India né per il trionfo dell’ideale anarchico. Lo dice uno come me che all’inferno, dal diavolo, è stato trascinato (ma per altre ragioni).
In effetti il Parlamento ha un merito rispetto alla “piattaforma “Rousseau” (tra l’altro la scelta del nome è molto discutibile). Attraverso il filtro del formalismo, della “liturgia” istituzionale, della ragionevolezza umana (che, anche se suona strano scriverlo, si può trovare anche in quei parassiti dei politici), funziona come un “filtro” attenuando gli effetti catastrofici e pericolosi di quella dea chiamata “Democrazia”.
Purtroppo è una medicina con degli effetti collaterali: se da una parte attenua l’innata violenza della democrazia “pura” e applicata senza filtri, dall’altra introduce un meccanismo vizioso di “clientele” (la democrazia indiretta è senza dubbio coincidente con il concetto di “voto di scambio”) che conduce a un inevitabile aumento della spesa pubblica, vero “carburante” di tutta la dinamica della “rappresentatività”.
Non mi sento di criticare lo sfoltimento operato nel 77, quando tra scioperi e feste comandate l’allegro paesello italico era con l’acqua alla gola per scarsa produttività. Unico errore marchiano fu abolire l’Epifania, festa molto sentita e tradizionale chiusura del periodo natalizio (ed infatti dopo pochi anni fu ripristinata).
Il 2 giugno fu ripristinata invece quando si iniziò a parlare di secessione, ostentare i vessilli verdi e cantare il “Va’ pensiero”. Si fece pure una legge ad hoc per esporre lo straccio tricolore in tutti gli edifici pubblici. Si arrivò persino a criticare 11 gaglioffi in mutande perchè non sapevano le parole e non cantavano l’orrida spiattellata di Mameli (Italienische Zumpappa la chiamano i crucchi, beati loro che hanno Haydn…).
La Lega per me ha avuto il merito di farmi sognare per un momento, ma poi mi sono risvegliato in una situazione peggiore di prima. “Eterogenesi dei fini” la chiamano i colti.
Il paradosso della storia che smentisce le previsioni, ritengo sia dato dalla mancanza di volontà da parte di troppi di imparare dagli errori. Probabilmente questi troppi sono la maggioranza. Una maggioranza che comunque non conosce la storia.