I luttuosi fatti d’America di cui sono piene le cronache di questi giorni, fra poliziotti criminali che uccidono “per legittima difesa” cittadini di colore disarmati, e altrettanto criminali “vendicatori”, ben addestrati, guarda caso, da quel medesimo Stato che si arroga il monopolio della violenza finanziando un servizio militare ove si insegna a uccidere impunemente chi di volta in volta vien dichiarato “nemico”, riportano alla ribalta l’annosa discussione sul porto d’armi. Si sa che, rigorosamente controllata da norme severe in tutti i Paesi del vecchio mondo, la facoltà di detenere armi e di circolare armati negli Stati Uniti è stata sempre legittimata dalla Corte Suprema in nome del secondo emendamento della Costituzione, che riconosce a ogni cittadino il diritto di armarsi per legittima difesa. Oggi molti sedicenti “progressisti” si oppongono a questo principio, proponendo interpretazioni restrittive del suddetto emendamento, contestualizzandolo nelle particolari circostanze storiche in cui fu formulato, e auspicando un intervento del Congresso per approvare una normativa che sottoponga la facoltà di portare armi a regolamenti severi e a rigidi controlli. Se qualcuno, timidamente, fa osservare che il problema della violenza in America è un dato strutturale, connaturato alla nascita e allo sviluppo di quel sistema sociale, e che non sarà certo il monopolio statale delle armi a risolvere il problema, viene tacciato come amico dei criminali e lacchè della lobby degli armaioli.
A me le armi non piacciono. Sono un grande spadaccino, ma mi piace tirare di scherma per sport, con fioretti innocui dalla punta protetta. Porto la spada per ornamento; l’ho usata per uccidere solo una volta, contro quell’imbecille di Commendatore, un vecchio infatuato convinto che gli avessi stuprato la figlia, mentre era lei che ci stava. Fu legittima difesa, l’ho già detto e lo ripeto. Che avrei dovuto fare, lasciarmi uccidere da quell’invasato? Io ammiro chi porge l’altra guancia, prima di tutto il figlio del falegname di Galilea che si dichiarava figlio di Dio -e forse, chissà, lo era davvero, io non impugno mai quel che non so- e si fece crocifiggere per lesa maestà, cioè per aver parlato male dello Stato. I suoi seguaci però, a quanto pare, giravano armati, tant’è vero che Pietro nell’Orto degli Ulivi tagliò un orecchio a un servo del sommo sacerdote, meritandosi le reprimende del Maestro. Ammiro Gandhi, che della non violenza fece l’arma per la redenzione del suo popolo, finendo purtroppo ucciso dalle pistolettate di un fanatico. Ho un’autentica venerazione per Martin Luther King, che, a quanto si dice, allorché gli regalarono una pistola la rifiutò, e anche lui, purtroppo, di pistola morì. Io non sono capace di essere così eroico, né credo si possa obbligare la gente a esserlo. Così come ammiro le comunità volontarie dove tutti i membri rinunciano alla proprietà privata individuale mettendo in comune i propri beni, alla maniera delle comunità cristiane primitive o dei kibbutzim israeliani; ma aborro il sistema comunista di Stato, in quanto criminale espropriazione di beni legittimamente posseduti e di ricchezze onestamente guadagnate. Ecco perché mi oppongo con tutte le forze alle restrizioni del possesso di armi. In una società anarchica non si potrebbe proibire a nessuno di dotarsi di armi e di circolare armato. Se con le sue armi uno commette un delitto, potrà essere punito, e con la massima severità, quando siano le vittime, i loro parenti o tutti quelli che ne hanno interesse ad attivare le confacenti procedure giudiziarie presso agenzie arbitrali private. Proibire le armi? E’ come proibire la droga. Nasce un mercato nero, che sfugge a ogni controllo, si genera una criminalità mafiosa che, come tutte le mafie, può prosperare grazie alle connivenze istituzionali. Dio ne scampi e liberi. Gli onesti non potranno armarsi, i criminali si armeranno come prima e più di prima. Vi esorto a leggere il passo seguente, invitandovi a indovinare chi ne è l’autore. Ci scommetto che qualcuno, quando gli avrò rivelato l’arcano, esclamerà:”Non l’avrei giammai creduto!”; proprio con le stesse parole che io pronunciai quando, inaspettatamente, mi si presentò a casa la statua del Commendatore, che avevo invitato a cena, per semplice motteggio, la sera prima, al cimitero.
“Falsa idea di utilità è quella che sacrifica mille vantaggi reali per un inconveniente o immaginario o di poca conseguenza, che toglierebbe agli uomini il fuoco perché incendia e l’acqua perché annega, che non ripara ai mali che col distruggere. Le leggi che proibiscono di portar le armi sono leggi di tal natura; esse non disarmano che i non inclinati né determinati ai delitti, mentre coloro che hanno il coraggio di poter violare le leggi più sacre della umanità e le più importanti del codice, come rispetteranno le minori e le puramente arbitrarie, e delle quali tanto facili e impuni debbon essere le contravenzioni, e l’esecuzione esatta delle quali toglie la libertà personale, carissima all’uomo, carissima all’illuminato legislatore, e sottopone gli innocenti a tutte le vessazioni dovute ai rei? Queste peggiorano le condizioni degli assaliti, migliorando quella degli assalitori, non iscemano gli omicidi, ma gli accrescono, perché è maggiore la confidenza nell’assalire i disarmati che gli armati. Queste si chiaman leggi non prevenitrici ma paurose dei delitti, che nascono dalla tumultuosa impressione di alcuni fatti particolari, non dalla ragionata meditazione degli inconvenienti ed avantaggi di un decreto universale”.
Parole forti, vero? E argomentazioni di ferro. Se non fosse per il linguaggio antiquato, potrebbero essere state scritte ier l’altro, a confutazione delle tesi di chi auspica un giro di vite sul porto d’armi in seguito ai fatti luttuosi cui s’è qui sopra accennato. Chi le ha scritte? Tenetevi forte, quel Cesare Beccaria* ch’è sulla bocca di tutti i bempensanti “progressisti” quando si discute di pena di morte. Tutti lo citano, quasi nessuno l’ha letto. Perché se lo si leggesse, le sue argomentazioni sulla pena di morte apparirebbero in tutta la loro fragilità. A differenza di queste sul porto d’armi, che invece sono difficilmente confutabili. A scanso di equivoci: la pena di morte mi ripugna. Ma questo sarà argomento di un’altra conversazione.
*Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, cap. XL, “False idee di utilità”.