Don Giovanni

Stato canaglia e canaglie di Stato

Forse è vero che nell’ aspetto fisico e anche nel nome che portiamo è scritto il nostro essere più autentico. Chi fa mestieracci, spesso ha un brutto viso e un brutto nome. Come quel famoso personaggio dell’Iliade, Tersite, che prende a male parole i più illustri comandanti dell’esercito acheo, e viene ridotto al silenzio dalle bastonate di Ulisse. E’ gobbo, ha la testa a pera, e si chiama Tersite, che vuol dire “sfrontato”. Quali la figura esterna e il nome, tale la viltà d’animo. Intendiamoci bene: quando parlo di mestieracci, non intendo affatto riferirmi ai mestieri faticosi o sporchi, di chi, ad esempio, lavora in miniera o in fonderia, è addetto alla pulizia dei cessi o agli allevamenti di pollame in batteria. Quelli sono lavori di tutto rispetto, che ormai nessuno di noi vuole sobbarcarsi, ben lieti come siamo di lasciarli agli immigrati, gli stessi che poi vorremmo ricacciare in mare perché negri musulmani o possibili terroristi. Tanto di cappello a tali lavori e a tali lavoratori, senza di cui i Paesi ricchi, primo fra tutti la Germania – che a dire il vero li accoglie con una certa generosità – possono chiudere bottega. Parlo invece dei veri lavoracci, che hanno come protagonisti i grandi falsatori di moneta e i ladri, quelli che Dante sprofonda nelle parti più basse dell’Inferno. Anche qui bisogna intendersi: non alludo ai ladruncoli e ai piccoli falsari,  che ogni tanto, magari  a Napoli, ma anche  altrove, sono còlti in flagrante a sfilare il portafogli dalle tasche di qualche sprovveduto turista o a stampare moneta falsa in un oscuro bugigattolo. No, quelli mi sono quasi simpatici, dopo tutto corrono rischi in proprio, e fanno lo stesso mestiere dei grandi banchieri, centrali e non centrali, i quali invece si vedono  tributare incensi dalla debole ragione dei gazzettieri di regime e, anziché finire in manette, sono gratificati con lauti onorari. Lavoracci sono, al contrario,  proprio quelli dei ladri e dei falsari istituzionali: le Yellen e i Draghi fra i secondi, i dirigenti dell’apparato fiscale tra i primi, ministri dell’Economia in testa. A proposito, che fine ha fatto l’espertissimo ministro dell’Economia dell’ultimo governo Berlusconi, quello che spudoratamente da Servitore dello Stato tosava i sudditi, da titolare di un prestigioso ufficio di consulenza fiscale insegnava ai facoltosi clienti come gabbare… lui stesso? E si piccava di scienza politica, e sproloquiava di valori morali, e pronunciava panegirici a Colbert e a Rathenau. Personaggio pirandelliano: uno nessuno e centomila! E’ sparito dalla circolazione, non scrive più né libercoli né articoli.  Né dà più interviste televisive: Dio sia lodato! Con quella voce chioccia, irritava non appena attaccava discorso. Anche lui, brutto dentro, brutto fuori.

La signora che attualmente dirige il più grande apparato estorsivo del Bel Paese, davanti a cui le imprese di Cosa Nostra sono giochetti da ragazzi, intendo dire l’Agenzia delle Entrate, è l’eccezione che conferma regola. Pur essendo stata allieva di quel Vincenzo Visco che nel cognome porta davvero inciso il suo malaffare (Visco suona come fisco, con lenizione della fricativa labiodentale sorda iniziale, direbbero i linguisti), ha un nome e un cognome che suonano bene, e pur non essedo più una giovincella può ancora dirsi una bella signora. Potrebbe stare, in posizione per nulla disonorevole, nella mia lista redatta da Leporello. Però, col mestieraccio che fa, nella mia lista non ci entrerà mai! Avete letto la sua ultima, lunga intervista sul “Corriere della sera” di  domenica 20 Settembre? Da far accapponare la pelle! Passa il tempo, ma lo Stato non cambia pelle. Anche all’epoca della famigerata “riforma Vanoni”, negli anni Cinquanta dello scorso secolo, si diceva che il rapporto tra fisco e contribuenti sarebbe d’allora in poi diventato amichevole, perché il buon cittadino che vuol compiere il suo dovere dev’essere trattato con riguardo. Capì subito come andavano le cose quel povero artigiano che presentò la denuncia dei redditi dichiarando fedelmente tutto il suo utile, fino all’ultima lira. Non fu creduto, dovette pagare più del dovuto. Da quel momento divenne un acceso evasore. E fece bene! Lo Stato è sempre lo stesso, ora come ai tempi della legge su macinato di Quintino Sella, quella che provocò rivolte, incendi di mulini e assalti alle esattorie. Dura repressione, con episodi di sangue, e infine caduta della Destra Storica. La tassa sul macinato causò fra l’altro la chiusura dei mulini più piccoli, che non avevano i mezzi per dotarsi delle apparecchiature per il calcolo del balzello. Anche adesso la pressione fiscale feroce porta alla chiusura e al fallimento di piccole imprese e di modeste attività commerciali. Gli studi di settore, poi, sono una vera ghigliottina: se ti cadono sul collo, sei fritto. Hai un bel dimostrare che il tuo utile corrisponde davvero a quanto hai dichiarato. Se in base a parametri  astratti dev’essere una cifra superiore, pagherai su quella cifra. Infine, davanti ai funzionari dell’Agenzia non vale la presunzione d’innocenza, quella ch’è proclamata nella costituzione più bella del mondo: se appena appena si ha un minimo sospetto, basato sul nulla, di dichiarazione non veritiera, è il contribuente-suddito a dover dimostrare d’essere in regola, con una vera e propria inversione dell’onere della prova. Barbarie pura.

Di tutti questi sconci nell’intervista non si parla, naturalmente. Si elogiano gli sforzi per la lotta all’evasione. Si magnifica la collaborazione internazionale per mettere alle strette i cosiddetti “paradisi fiscali” , bollati come “Stati canaglia”. Come se non fossero canaglie tutti gli Stati, in quanto tali! Anzi, i paradisi fiscali sono meno canaglie degli altri, perché rubano meno e offrono uno scampo a chi è tartassato in patria. Si auspica una sempre più stretta tracciabilità delle transazioni commerciali. Si fa capire che l’uso del contante piace poco, perché sfugge ai controlli. Si liscia il pelo ai buoni cittadini che vigilano sul rilascio di scontrini e ricevute fiscali (nell’antica Atene simili delatori erano chiamati sicofanti, e considerati come la feccia del popolo). Si sogna un’Europa del Fisco che faccia gravare la sua cappa di piombo allo stesso modo su tutti i sudditi dell’impero. “Il contribuente ha preso coscienza che noi sappiamo”. Capito? E’ il grande fratello di Orwell.
Sapete cosa auguro alla gentile signora? Che un imminente referendum svizzero mandi a carte quarantotto la cosiddetta “voluntary  disclosure” (altro termine barbaro per indicare il rientro “volontario” dei capitali portati,” illegalmente”, ma legittimamente, all’estero), facendo saltare gli accordi a suo tempo stipulati fra Roma e Berna. Le banche tremano, i governi si cacano sotto. Anche il Renzino e il suo ministro Padoan (altra brutta faccia+ brutto nome) prenderanno una bella diarrea.

Giovanni Tenorio

Libertino