Democrazia e Mercato
Leggere un bell’editoriale di Angelo Panebianco sul quotidiano che, in questi mesi sciagurati, ha fatto dello spauracchio Coronavirus il suo Grundthema, e continua imperterrito a farlo, è come respirare una boccata d’aria fresca. Non che con Panebianco mi trovi sempre d’accordo, ma l’ho sempre considerato intellettualmente onesto, ne ho sempre apprezzato lo stile limpido e piano, e mi è diventato ancora più simpatico quando, qualche anno fa, è stato oggetto di un’indegna sceneggiata da parte di un gruppo di fascistelli (rossi) che, all’Università dove insegna, volevano impedirgli di far lezione per motivi ideologici. Il triste evento mi ha ricordato quello che, decenni fa, in pieno Sessantotto, capitò a Milano a un altro grande galantuomo, il professor Albino Garzetti, docente di Storia Greca e Romana. I tempi cambiano, il canagliume umano rimane sempre lo stesso, purtroppo. In breve, che cosa dice Panebianco? Prendendo spunto dall’ultima moda figlia della chiusura mentale americana, quella di abbattere le statue innalzate in onore di personaggi storici ritenuti “politicamente scorretti”e di censurare i testi letterari di scrittori considerati razzisti o sessisti o omofobi o quel che dir si voglia, svolge un’attenta analisi del fenomeno per cui un atteggiamento politico (in senso lato) che sulle prime interessa uno sparuto gruppo di fanatici “duri e puri”, col passar del tempo finisce di diventare senso comune, perdendo magari la sua virulenza originaria ma insinuandosi in tutte le pieghe del consorzio sociale. Perché questo avviene? Alcuni si adeguano al pensiero che via via va prendendo un carattere egemonico per ragioni di semplice convenienza: è sempre vantaggioso salire sul carro dei vincitori. Altri – e son di solito i più- lo fanno invece perché hanno timore di essere segnati a dito come ignoranti o come retrogradi. Finché, a un certo punto, qualcuno, come il bimbo della fiaba, grida che il re è nudo; o come Fantozzi, che la “Corazzata Potëmkin” è una boiata pazzesca. Allora l’incanto si rompe, e tutto viene rimesso in discussione. Può anche capitare che i “pensieri dominanti” siano due, in contrapposizione tra loro. Ci sarà chi si aggrega all’uno e chi si aggrega all’altro, per motivi che di razionale hanno poco o niente. Si prenda un problema grave come quello dell’immigrazione. Sarebbe opportuno optare per soluzioni che mirino a contenere il fenomeno, in base a criteri che sappiano contemperare la convenienza con i principi umanitari, sulla base delle risorse di cui si dispone e delle necessità del mondo produttivo. Invece ci si divide fra chi vorrebbe accogliere tutti, perché l’ha detto quel signore vestito di bianco che siede sulla cattedra di Pietro, e chi vorrebbe buttarli tutti a mare, come una volta si voleva cacciare in Africa tutti i terroni. Secondo l’ideologia democratica un popolo ben istruito, grazie a un sistema scolastico che offra a tutti un buon livello di cultura generale, è in grado di valutare le diverse proposte politiche presentate dalle forze in campo e decidere in modo razionale. Purtroppo questa è la teoria, ma la realtà effettuale ne è molto lontana. Panebianco ne è del tutto cosciente. Più di una volta ha detto che la cosiddetta “volontà popolare” è una finzione (condivido) e che la società non esiste (lo diceva anche la Thatcher). Sono tutte finzioni utili, come quella del popolo che sa decidere razionalmente; anche se poi di fatto a prevalere sono i pregiudizi, i conformismi e interessi non sempre nobilissimi. Ma rimangono finzioni. Mi pare di aver già detto altre volte che non sono d’accordo con il giudizio della Thatcher (e condiviso da Panebianco) a proposito della società. Che la società sia un’astrazione, penso che tutti lo possano ammettere pacificamente. Ma non direi che sia anche una finzione. E’ vero che per la strada io incontro sempre individui in carne ed ossa, mentre non ho mai incontrato la società. Rimane anche vero, però, che l’interazione dei singoli individui tra loro, in tutte le circostanze della vita quotidiana, ha come risultato conseguenze non riducibili alla semplice somma delle singole scelte, ma compone un quadro complessivo le cui dinamiche costituiscono appunto quello che chiamiamo sistema sociale. Se non esiste la società, non esiste neanche il mercato. Io vedo quotidianamente persone che comperano, vendono, contrattano, producono, consumano, offrono e prendono in prestito denaro, investono, ecc. ecc., ma non vedo il mercato. Eppure il mercato esiste, come luogo ideale di tutte le transazioni economiche, oltre che come luogo fisico dove, per esempio, si compera e si vende frutta e verdura. E, anche nel caso del mercato, i risultati delle diverse transazioni nel loro complesso compongono un quadro spesso ben diverso da quello che ci si potrebbe aspettare o dalle intenzioni dei singoli operatori. A proposito d mercato. Leggo una bella recensione di Nicola Porro (uno degli ultimi panda del liberalismo classico dopo la morte di Ostellino) a un libro che prima o poi leggerò (e, se ne avrò tempo e voglia, potrò far oggetto di qualche considerazione). Si intitola “Uomini o consumatori. Il declino del Ceo capitalism”. Gli autori sono Giovanni Maddalena Riccardo Ruggeri. La tesi sostenuta è questa: nel capitalismo di oggi la figura dell’imprenditore d’un tempo è stata sostituita da quella del supermanager, il “Chief executive officer”: un personaggio che non rischia il proprio capitale ed è nominato dal Consiglio d’amministrazione dell’azienda. Il suo potere è enorme, ma la sua responsabilità per gli esiti delle scelte che compie assai diluita, proprio perchè non rischia del proprio. E’ pagato profumatamente grazie alla sua capacità di vantare successi spesso illusori, al solo fine di spingere in alto i valori borsistici dei titoli azionari, in un sistema perverso in cui la finanza – in complicità con gli organi di controllo e in connivenza con la politica – risulta del tutto sganciata da quelli che un tempo si chiamavano i “fondamentali” dell’universo produttivo. Nel sistema informatico che ormai domina il mondo le grandi imprese governate dai CEO vendono tutto a basso prezzo ma prendono gratis tutti i dati personali riguardanti i consumatori. E’ un modello organizzativo che si propaga in ogni settore. Così accanto al supermanager abbiamo il superavvocato, il superprofessore, il supermagistrato, il supercuoco, ecc. ecc. Mentre Panebianco, a proposito della democrazia, sembra rimanere pessimista, Porro, nella sua esuberanza giovanile, si sforza di contraddire le scarse speranze, manifestate da Maddalena e Ruggeri, di poter riformare un capitalismo così degenerato. Proclama la sua fiducia nell’ordine spontaneo del mercato, che prima o poi rimette in ordine le cose. Santa ingenuità! Sarebbe vero se il mercato esistesse ancora. Ma se quello che continuiamo a chiamare mercato ne è soltanto l’orrida caricatura, nata da un tristo connubio con lo Stato( che garantisce la difesa della proprietà intellettuale, da cui derivano rendite enormi, e offre incentivi e protezioni d’ogni genere, oltre a manipolare domanda e offerta attraverso il sistema fiscale) e con un sistema bancario abominevole, guidato dagli gnomi delle banche centrali, il mercato vero che fine ha fatto? Non c’è più. “Banco è spento, e non uscirà dalla sua tomba”. Può uscirne, tutt’al più il suo fantasma. Il mercato lo vedono soltanto gli antimercaristi come Giulio Tremonti. Non Banco, ma il fantasma di Banco, sconciato e insanguinato.E allora? E allora non basta distruggere lo Stato perché il mercato faccia tutto da sé, come vorrebbero i rothbartiani puri, che confondono capitalismo e mercato. Bisogna distruggere tanto lo Stato quanto questo capitalismo, che dello Stato è fratello gemello. Poi si potranno sperimentare le più svariate forme di organizzazioni produttive, da quelle ispirate al più sfrenato liberismo, basato sul calcolo economico e sul sistema dei prezzi, a quelle solidaristiche, fondate sulla gratuità e sul dono, a quelle rigidamente collettivistiche. A un patto: che nessuno sia obbligato a una scelta piuttosto che a un’altra, e che ognuno sia sempre libero di passare da un sistema all’altro a suo piacimento, e magari di sperimentarne uno nuovo. Tutti questi sistemi si confronteranno tra loro, mettendo alla prova la propria efficienza, o anche soltanto il gradimento che riescono a ottenere. Un confronto di mercato! In somma. In una società anarchica si può fare a meno del capitalismo come storicamente si è andato configurando, ma non del mercato. “Il mercato non può essere soffocato se non dallo Stato”, come dice Logan Marie Glitterbomb(*). E’ quello che lo Stato ha fatto, anche se i circhi non lo vedono. E nel frattempo? Si fa quel che si può. Mercato nero, mercato grigio, lavoro nero , lavoro grigio (senza approfittarne per imporre retribuzioni da fame a chi è più debole), evasione fiscale, elusione fiscale, boicottaggio e sabotaggio (evitando danni fisici alle persone, finché si può). Anche ai margini di un rigido sistema collettivistico come quello sovietico sbocciavano forme di mercato clandestino
Rimane il fatto che distruggere lo stato è sufficiente perché questo “capitalismo” se è fratello gemello dello stato non è vero capitalismo. E se è finto, una volta distrutto il suo protettore stato, finirà per autodistruggersi in automatico. Quindi il mercato potrà tranquillamente fare tutto da sé. Questo, ovviamente, in un’ottica come la mia che non vede differenze semantiche tra capitalismo e mercato con il primo conseguenza del secondo. Le altre forme di organizzazione produttiva non sono ormai più nella fase sperimentale, ciò che manca è solo la libertà di attuarle e l’unico freno è appunto lo stato. Nel frattempo si può anche fare quel che si può ma ci sarà sempre, in un mercato grigio, chi approfitterà per proporre retribuzioni da fame a chi è più debole. Non lo facciamo ogni giorno quando chiediamo lo sconto al commerciante? Il problema è che se il debole è tale, la colpa è unicamente e ancora una volta dello stato; e a volte è debole anche chi offre poco in quanto ha solo quel poco da offrire. Il non approfittare può essere un’esortazione ma se diventa un’imposizione siamo al punto di prima. Quanto agli amministratori delegati, si sta avverando una profezia di Schumpeter: solo che la colpa non è del sistema capitalistico ma di quello legislativo.
Stato e Capitalismo non sono come una madre degenere che ha sviato il proprio figlioletto dai buoni propositi innati, trasformandolo in un delinquentello suo malgrado; cosicché, togliendo di mezzo la madre, il figlioletto sarà indotto a ravvedersi, guidato dalla sua buona natura. Sono due esseri strettamente avvinghiati insieme, parassiti reciproci; a allora la morte dell’uno porta inevitabilmente alla morte dell’altro. Tolto di mezzo il turpe viluppo, la società anarchica può nascere solo sulla conseguente tabula rasa, che dal mercato non può prescindere, in quanto il mercato è sostanzialmente anarchico (lo riconoscono anche i suoi acerrimi nemici, imputandoglielo come uno stigma repellente, una sorta di peccato originale irredimibile). Forse, per uscire dalla garbata polemica che, su questo punto, mi vede contrapposto a qualcuno dei pochi lettori che qui mi seguono (in particolare Alessandro Colla, della della cui amicizia mi onoro), dovremmo deciderci a ridefinire le parole che usiamo. Che cos’è il mercato? Che cos’è l capitalismo? E poi andare a vedere che cos’è il capitalismo “reale” in cui tutto il mondo è immerso, e fino a che punto coincide con il mercato ideale: che forse storicamente non e mai esistito, così come non è mai esistita una società anarchica (il che non significa che sia condannata a rimanere nel mondo dei sogni, purché siamo disposti ad accettare che non sarà affatto una società perfetta e che dovrà fare i conto con tanti problemi da risolvere; non ultimo, i tentativi di chi si batterà per restaurare centri di potere coercitivo, in cui politica ed economia sono strettamente avvinghiate, si chiamino Stati o in qualsivoglia altra maniera).
Infatti più che contrapposizione è un diverso significato che diamo alle parole. Per me capitalismo e mercato coincidono proprio perché stato e capitalismo non sono madre fuorviante e figlio mal cresciuto ma due realtà estranee e ostili; la prima parassitaria e la seconda produttiva. Non ho mai chiamato capitalismo di stato le aree del socialismo reale. Ritengo che il mercato crei ricchezza e quindi capitale. Conseguenzialmente potrebbero esserci dei super ricchi in un contesto simile, realtà come la Disney e la Coca Cola probabilmente esisterebbero anche senza aiuti di stato o interventi legislativi favorevoli. Quasi sicuramente non esisterebbe un monopolio Fiat nel settore automobilistico: quando l’interventismo era più limitati di adesso, avevamo l’Alfa, la Innocenti, la Lancia, la Bianchi, la Maserati, la Piaggio… forse anche la Ferrari avrebbe investito nelle utilitarie se non ci fossero state le politiche mercantiliste degli ultimi decenni. Dovunque si crei liberamente capitale io definisco tale entità come capitalistica, lo stato il capitale è capace solo a distruggerlo. Ma è un problema nominalistico. L’obiettivo deve essere una società di mercato che andrà sempre difesa dai numerosi restauratori in perenne servizio. Dover scegliere tra marxisti e keynesiani era un problema da male minore del passato. Oggi che i marxisti si nascondono dietro Keynes, la scelta è tra libertà e statalismo. Vedo molte forze politiche in difesa dello statalismo, non riesco a vederne alcuna in difesa dell’autentica libertà. Gli ultimi avvenimenti pseudopandemici (vero Zaia, Gelmini, Cicchitto ma anche quasi tutti gli altri?) ne forniscono ampia testimonianza.