Dalle proteste alla sottomissione ruffiana: il palco reale della vergogna.
Se non sbaglio, la decisione di spostare la Prima della Scala dal giorno di Santo Stefano a quello di Sant’Ambrogio risale al 1940. Non saprei dire quale ne sia stato il motivo. Un omaggio al santo patrono della città meneghina? Può darsi. Perché non ci si è pensato prima? E poi, che rapporto c’è tra una ricorrenza religiosa e una festa mondana? Lasciamo perdere. Sta di fatto che dall’anno 1968 l’inaugurazione del Tempio della Lirica è sempre stata l’occasione per movimenti di protesta d’ogni genere, spesso degenerati in scontri tra manifestanti e forze di polizia. E’ una tristezza che la musica venga deturpata, da un lato, dalla pacchiana mondanità di chi fa atto di presenza per ostentare il proprio lusso, il proprio prestigio sociale, il proprio rango politico e istituzionale, fasciato (parlo in particolare delle signore) di abiti carnevaleschi che portano la firma di illustri sarti,chiamati non so perché “stilisti”; e dall’altro da manifestazioni di piazza che approfittano di un evento su cui sono puntati gli occhi di tutti per acquistare visibilità e far parlare di sé.
Anche prima del Sessantotto, però, l’apertura della Scala non era esente da polemiche, talora piuttosto infuocate: senza scontri di piazza, però. Nel 1960, quando si inaugurò la stagione con il “Poliuto” di Donizetti, interpretato da artisti del calibro di Maria Callas,Franco Corelli, Ettore Bastianini,sotto la guida di un illustre Maestro come Antonino Votto, si era nel pieno di quello che sarebbe passato alla Storia come “boom economico”.Era l’ Italia che, finalmente, dopo secoli di miseria e dopo aver patito due terribili guerre, usciva, tra mille squilibri e non poche sofferenze, dalla sua antica povertà contadina per avviarsi a diventare una potenza industriale di tutto rispetto. In quell’occasione, il lusso ostentato alla Prima dalle signore dell’alta borghesia cittadina,con ori e gioielli sfavillanti, fu così spudorato da suscitare non pochi risentimenti. Al punto che, durante la messa domenicale celebrata nella cattedrale di una città lombarda, il predicatore prese spunto,nella sua omelia, proprio dal lusso della Prima alla Scala per censurare la protervia di una ricchezza messa in mostra senza ritegno davanti a tutta una nazione dove molte famiglie vivevano ancora in difficoltà, il Sud continuava ad arrancare in una condizione di arretratezza, stuoli di emigrati del Meridione vivevano nelle città industriali del Nord, Milano. Genova ,Torino, ammassati in alloggi malsani, tra molte ristrettezze.
Atteggiamento deplorevole, senz’altro: ma almeno erano tempi che promettevano un radioso futuro (promessa che si sarebbe avverata solo in minima parte). Anche in politica si annunciavano grandi cambiamenti. Si cominciava a parlare di un passaggio dalle coalizioni “centriste” che avevano caratterizzato le legislature dei primi anni del dopoguerra a governi che includessero anche delegati di quel Partito Socialista che, dopo l’incontro di Nenni e Saragat a Pralognan, sembrava aver accantonato le nostalgie del Fronte Popolare, prendendo le distanze dal PCI. Si sentiva il bisogno di coniugare la ricchezza dello sviluppo industriale a una maggiore eguaglianza economica, che andasse a beneficio delle classi più deboli. L’omelia di quel predicatore, in toni allusivi ma fin troppo chiari, si spingeva proprio ad auspicare un simile cambiamento.
Sono passati più di sessant’anni da quella sera. Il mondo è cambiato. Anche l’Italia è cambiata. In peggio. Si è appena usciti da due anni di finta pandemia, in nome della quale i diritti dei cittadini sono stati calpestati nel modo più brutale da governi che hanno ridotto la Costituzione a carta straccia. Si è in guerra, anche se si finge di no. I prezzi di tutti i beni stanno raggiungendo aumenti vertiginosi. Non è l’inflazione degli anni Sessanta dello scorso secolo, naturale conseguenza di un accelerato sviluppo economico, che trovava mitigazione in meccanismi di adeguamento di stipendi e salari al costo della vita. Non è neppure l’inflazione dovuta alla crisi delle forniture di petrolio dopo la guerra del Kippur, negli anni Settanta.E’ qualcosa di molto più inquietante, perché le prospettive del prossimo futuro sono, a dir poco, spaventose.Basta leggere quello che ha detto la presidente della BCE Christine Lagarde, nel suo ultimo discorso ufficiale. Nelle sue parole non si avverte neppure un lumicino di speranza: solo tenebre fitte. Ebbene, in una situazione come questa, la Prima della Scala di quest’anno è stato uno spettacolo davvero vomitevole.Non parlo dello spettacolo musicale, ovviamente, che mi sono astenuto dal guardare, pur adorando il “Boris” di Mussorgskij, perché sul Teatro alla Scala ho messo una croce da tempo. Parlo di tutto il contorno modano.
Già le premesse sono state abominevoli. Tutto ha avuto inizio nel febbraio scorso, quando, subito dopo l’invasione dell’Ucraina, il sindaco di Milano e la direzione del teatro hanno preteso che il Maestro Valery Gergiev, impegnato nelle recite della “Pikovaya dama” di Ciaikovskij, dichiarasse pubblicamente la sua condanna dell’azione di Putin. E’ risaputo che Gergiev di Putin è amico e sostenitore, ma mica era venuto a Milano per arringare dal podio il pubblico in favore della guerra! Bella faccia tosta quella di chiedere al cittadino di una nazione di pronunciarsi contro le scelte politiche della sua patria! Gli inglesi dicono: “Right or wrong, my country”. E’ un principio che piaceva anche a Montanelli. Io non lo condivido affatto. D’altra parte, anche l’antifascista Benedetto Croce, al tempo della guerra d’Etiopia, aderì alla campagna dell’oro alla patria. E allora, che cosa si voleva dal povero Gergiev? Che dicesse: “Sì, Putin è un delinquente”, per poter continuare il lavoro per cui era stato scritturato senza alcuna clausola contrattuale di natura politica? Ha fatto bene ad andarsene. Speriamo che non torni più, perché Milano e la Scala, cui ha donato in passato memorabili interpretazioni, non se lo meritano.
Poi è successo di peggio. Nell’imminenza della Prima, il console ucraino a Milano chiede di rinunciare all’apertura della Scala con il “Boris”, sostituendolo un altro titolo, perché altrimenti sarebbe come far propaganda a Putin. Ignorante e cretino. Ignorante perchè probabilmente non sa che cos’è il “Boris”, dove campeggia l’immagine di un fosco tiranno, tormentato dal rimorso dell’infame delitto di cui si è macchiato. In che senso può far propaganda a Putin? Cretino perché non si rende conto che non si può cambiare un allestimento operistico, minuziosamente preparato da mesi, nelle ultime settimane, con tutto quello che tra l’altro -se fosse fattibile- provocherebbe in termini di spesa, visto che la risoluzione dei contratti stipulati con gli artisti porterebbe con sé l’apertura di spiacevoli contenziosi e il pagamento di sostanziose penali.
La provocazione avrebbe dovuto essere accolta nel più gelido silenzio. Degnare di una risposta un simile individuo significa dargli importanza. Fare come se neanche avesse aperto bocca significa considerarlo uno zero. Invece, che s’è fatto? Gli si è risposto con fin troppo garbo, con mille giustificazioni: l’Opera era stata programmata prima dell’invasione russa all’Ucraina, la vicenda rappresentata non si presta alla propaganda filo-putiniana, bisogna distinguere le nefandezze della Russia di Putin dalla grande cultura russa che è patrimonio dell’Umanità, e via di seguito. Solo i rappresentanti di un popolo di servi e di straccioni possono comportarsi così.
Il culmine si è raggiunto la sera della Prima. Che abominio vedere il bel mondo dell’alta borghesia meneghina applaudire per cinque minuti, con accompagnamento di ringraziamenti proclamati a gran voce, quei personaggi accomodati nel palco reale! Quel signore che resterà alla Presidenza della Repubblica per 14 anni, se Dio non ci farà la grazia di toglierlo di mezzo prima, e che ha tollerato senza batter ciglio la violazione delle libertà costituzionali, promulgando provvedimenti discriminatori che non avevano precedenti dopo le leggi razziali; che ha sostenuto la legittimità dell’obbligo vaccinale per un prodotto inefficace, pericoloso e ancora in via di sperimentazione, facendo del popolo italiano un gregge di cavie; che ha avallato la spedizione di armi all’Ucraina, rendendo di fatto l’Italia un Paese belligerante, a dispetto dell’art.11 della Costituzione; che ha dato man forte per dotare la Corte Costituzionale di una schiera di giudici pregiudizialmente ostili a tutti i ricorsi contro i provvedimenti sanitari dei governi di Conte e Draghi. Quella signora dell’alta aristocrazia tedesca, moglie di un dirigente dell’industria farmaceutica, la quale ha gestito la stipulazione dei contratti per la fornitura di vaccini nel modo più opaco, attraverso colloqui al telefono cellulare, poi cancellati: contratti rimasti in gran parte inattingibili, sottoposti addirittura al segreto militare. Quell’altra signora che si è rimangiata tutto quanto aveva promesso in campagna elettorale, allineandosi alle direttive dell’Agenda Draghi, a capo di un governo che i cretini di sinistra bollano come fascista in base alle remote ascendenze del partito principale della coalizione (il quale accampa, nel suo simbolo, una minacciosa, fascistissima fiamma tricolore!), mentre è effettivamente fascista nel merito, non nei simboli e nelle ascendenze, per essersi conformato alle decisioni obiettivamente fasciste dei governi che l’hanno preceduto. Perché, come diceva Flaiano, in Italia ci sono due tipi di fascisti: i fascisti e gli antifascisti.
Intanto, mentre la Scala celebra i suoi riti, a Milano i senzatetto dormono all’addiaccio in pieno centro, la Stazione Centrale è in balia delle bande criminali, le squallide periferie, dove il sindaco radical-chic non ha mai messo piede, sono diventate invivibili, la viabilità, a causa dei divieti e delle zone precluse al traffico motorizzato, è diventata un inferno.
Io vorrei che l’inaugurazione della Scala fosse riportata al giorno di Santo Stefano. Quando si ha la pancia piena e si è ancora in preda al torpore dei pranzi natalizi, nessuno ha voglia di scendere in piazza a protestare. Anche i politici preferiscono rimanere in famiglia. Lo stesso si dica per le alte cariche dello Stato e per tutte le autorità. Forse la musica tornerebbe in primo piano. Forse i giornali darebbero poco spazio alla cronaca mondana e si concentrerebbero su considerazioni squisitamente artistiche. Il “forse” è d’obbligo. Sono finiti i tempi dei grandi critici come Giulio Confalonieri e Franco Abbiati. Purtroppo ci ha lasciato anche quel ragazzaccio di Paolo Isotta, spesso cattivo e ingeneroso, ma colto, intelligente, dotato di uno stile di scrittura raffinatissimo (il suo predecessore al “Corriere” era un semianalfabeta). Quante volte mi ha fatto arrabbiare! Eppure lo amavo, e mi manca.
Tra gli ingenerosi, con il primo Verdi, va annoverato anche Abbiati. Non saprei dire su Courir ma è stato presidente dell’associazione dei critici musicali. Chi lo ha votato?
“I critici non capiscono niente” : me lo disse, in confidenza, il compianto Roman Vlad, gentiluomo di finissima cultura.
Sì, ebbi occasione di conoscerlo nel 1980. Non ho mai conosciuto suo figlio Alessio. Il padre me lo presentò Massimo Bogianckino che era amico della famiglia di mia madre. (Mia madre, poi, mi presentò Goffredo Petrassi la cui figlia era stata sua allieva nella scuola primaria). Sui critici non scambiammo opinioni, citò casualmente Guido Pannain ma non si espresse sulle sue capacità di critico. Ricordo che aveva disistima per coloro, critici e non, che snobbavano i compositori della famiglia Strauss. E ricordo anche un’intervista di Corrado Augias nella quale rispose con decisione a un’affermazione dell’intervistatore relativa alla religione rockettara dei nostri tempi. Secondo Augias, quel tipo di “musica” andava considerata come la cultura sonora del tardo ventesimo secolo così come il melodramma lo era stato per il diciannovesimo; tutto ciò in quanto ambedue “generi popolari”. Vlad pronunciò la frase “non diciamo eresie”. Ancora oggi, troppe persone continuano a confondere la moda con la cultura.