Capitalismo, comunismo, mercato.
Siamo sicuri che Capitalismo e Comunismo siano cose tanto diverse? Non sobbalzate sulla sedia, vi prego; non sono diventato matto. Parlo di Capitalismo, non di economia di mercato, ch’è un’altra cosa. E intendo per Capitalismo quel sistema produttivo che è nato nei tempi moderni, come razionalizzazione estrema di processi economici che empiricamente erano sempre stati alla base dell’esistenza umana, per garantire la sopravvivenza e migliorare il tenore di vita. Continua a tener testa l’opinione di Weber secondo cui il Capitalismo sarebbe nato dall’etica protestante. Si è ribattuto che nel tardo Medio Evo lo sviluppo dei commerci nei liberi Comuni italici e nell’area anseatica aveva già un carattere capitalistico. A me pare abbia ragione Antonio Martino quando dice che il Capitalismo nasce con Luca Pacioli, l’inventore della “partita doppia”. E’ un’opinione, questa, che mi sembra cogliere appieno quel carattere di razionalizzazione del sistema economico di cui sopra dicevamo. Questo è l’aspetto che distingue il Capitalismo moderno da ogni altra forma di economia del mondo precedente, o di quelle parti del mondo che sono rimaste estranee al processo di modernizzazione. Poi sono arrivati il vapore, le macchine, i telai automatici, l’elettricità; in ultimo sono arrivate l’elettronica e l’informatica. Siamo sempre nel solco di una razionalità che si affina, sotto la spinta della scienza e della tecnologia, per render più efficiente la produzione di ricchezza.
E’ significativo che Marx abbia sottolineato questo aspetto progressivo del Capitalismo. Le più alte lodi della borghesia capitalistica, che ha costruito opere più grandi delle Piramidi d’Egitto, si trovano proprio nelle sue pagine. Che cosa criticava il barbuto filosofo di Treviri nel Capitalismo? La sua connotazione di classe, che l’avrebbe portato al crollo, per effetto delle (presunte) contraddizioni interne. Il mercato, a suo parere, costituiva un residuo di arretratezza. Manteneva, nel sistema produttivo, un elemento di disordine. Marx non diceva come sarebbe stata la futura, e forse imminente, società comunista. Diceva soltanto che sarebbe stata egualitaria e senza classi. Ma sarebbe stata anche ricca, a differenza delle società egualitarie agli albori dell’umanità, perché il progresso tecnologico che il Capitaslimo aveva promosso si sarebbe conservato e si sarebbe potuto ulteriormente sviluppare, ridondando a beneficio di tutto il popolo, e non di una sola classe privilegiata.
Storicamente, i sistemi comunisti hanno dovuto risolvere il problema lasciato insoluto da Marx (come governare l’economia in un regime collettivistico privo del sistema autoregolativo dei prezzi) ricorrendo alla pianificazione, che, a ben pensarci, vorrebbe essere la forma più raffinata di razionalizzazione, quella che finalmente abolisce l’anarchia del mercato e permette di impostare la produzione su basi scientifiche. Sappiamo com’è andata a finire; ma c’è stato un momento in cui anche nei Paesi cosiddetti “capitalisti” la pianificazione (magari ribattezzata più pudicamente “programmazione”) era tenuta in gran conto, come correttivo indispensabile al disordine del mercato. Il Fascismo in Italia fu dirigista e interventista in economia, anche se solo con la Repubblica di Salò si giunse a un sistema totalmente socialista. Lo stesso si dica per il Nazismo in Germania. Keynes, che non era tenero con il marxismo come ideologa (“Come posso aderire a un credo che, preferendo l’osso alla polpa, esalta il rozzo proletariato al di sopra del borghese e dell’intellettuale?” ebbe a dire in un suo scritto) elogia il sistema sovietico della pianificazione. Quando in Italia, nel secondo dopoguerra, si varò la politica cosiddetta di centro-sinistra, con governi di cui per la prima volta faceva parte il Partito Socialista, era tutto un inneggiare alla pianificazione. Per fortuna non se ne fece nulla o quasi: tutto si risolse nella nazionalizzazione, come allora si diceva, delle società elettriche e telefoniche, e in un nuovo impulso all’IRI e alle Partecipazioni Statali. Ancora pochi mesi prima che il sistema sovietico implodesse, al tempo di Gorbaciov, l’illustre economista premio Nobel Paul Samuelson affermava che il sistema di pianificazione sovietico non era niente male. Bel somaro!
Non so se avete mai visto, nel Bergamasco, il villaggio di Crespi d’Adda, che se non vado errato è stato recentemente dichiarato dall’UNESCO patrimonio dell’umanità. Fu costruito dall’industriale tessile Benigno Crespi, nell’ultimo quarto dell’Ottocento, e ampliato dal figlio. C’è la fabbrica, c’è la casa padronale. Ci sono le abitazioni dei dirigenti e dei tecnici. E ci sono le casette degli operai, tutte uguali. Ognuna ha il suo bel pezzetto di giardino e di orto.L’importante era controllare che i lavoratori facessero una vita morigerata, senza darsi a bagordi e a divertimenti smodati. Per gli infortuni e le malattie, c’era un ospedale. Per la pietà religiosa, la chiesa con il suo bravo prete. Ogni cosa al suo posto. Razionalità e umanitarismo un po’ peloso nel nome del Profitto. In forma molto più blanda, lo stesso controllo tipico di tutti i sistemi comunisti, dove il lavoratore è tenuto sotto l’occhiuta vigilanza del Partito, che si identifica con lo Stato. Tutto per il bene della Causa. Guai a sgarrare. Il lavoro è sacro e una vita sregolata è un danno per tutta la collettività. E’ tanto diverso il Capitalismo dal Comunismo?
Mi è capitato in questi giorni fra le mani un aureo libretto, pubblicato nei lontani anni Sessanta dello scorso secolo nella serie “Saper tutto” dell’Editore Garzanti. Si intitola “L’idea liberale”, ed è dovuto alla penna di Panfilo Gentile, uno scrittore oggi quasi del tutto dimenticato, e spesso anche calunniato (alla fine della sua vita si prese del fascista solo perché non lesinava le sue critiche alle democrazie, da lui considerate costituzionalmente “mafiose”). In una bella pagina si parla delle lotte operaie, e l’autore è il primo a deplorare la vita spesso faticosa e disumana del lavoratore nella grande fabbrica. Però-dice- qual è l’alternativa che si propone? Quella dei sistemi comunisti: fabbriche ancora più lugubri e disumane, il mondo degli stakanovisti e delle brigate del lavoro. Anche per lui, la differenza tra Capitalismo e Comunismo era soltanto di grado.
Qualche settimana fa -ne abbiamo parlato anche noi- ha fatto scalpore il proposito, avanzato da Amazon, di dotare gli addetti ai magazzini di sensori elettronici capaci di guidarli rapidamente alla ricerca delle merci da spedire, senza commettere errori. Non abbiamo esitato a dichiarare che ci sembra un provvedimento aberrante. Non si possono trasformare gli esseri umani in automi. Se il lavoratore si ribella, ha tutto il diritto di farlo. Sostituiscano del tutto il lavoro umano con i robot. Vedremo che cosa ne sortirà. A me un mondo tutto di “intelligenze artificiali” fa paura. Non credo-e l’ho già detto-che le macchine “intelligenti” potranno mai ribellarsi agli uomini. Temo invece che, prima o poi, nessuno sia più capace di ripararle. Potrebbe essere anche un bene. Si tornerà a impiegare esseri umani. Finalmente al telefono si sentirà rispondere non una voce sintetica, ma una voce umana, magari una bella voce di donna. Una donna vera, non una bambola di plastica.
Sono rimasto sbalordito leggendo, qualche giorno fa, che in Cina, per evitare errori, incidenti sul lavoro e cali di produttività, si sta pensando a caschi elettronici che i dipendenti delle grandi fabbriche dovrebbero indossare, abbandonandosi ai loro ordini, naturalmente a fin di bene. Una rinuncia al proprio cervello, ancora una volta per il bene della Causa. Il caso Amazon e il caso Cina sono molto simili. Ancora una volta la differenza tra Capitalismo e Comunismo è soltanto di grado.
Che cosa proponeva Panfilo Gentile al posto di un lavoro disumanizzante in una grande fabbrica? Tante fabbrichette nascoste nel verde, in un sistema di mercato in cui le sovvenzioni pubbliche non sostengano insediamenti industriali faraonici, del tutto estranei alla vocazione del territorio (pensava in particolare al Mezzogiorno d’Italia, con le sue “cattedrali nel deserto”. Pensava a qualcosa di simile all’attuale ILVA di Taranto; a quel mito dell’industria pesante che già Einaudi aveva stigmatizzato).
Quelli che criticano l’attuale sistema economico accusando il mercato non sanno quello che dicono. E’ ciò che fa anche un saggio di recente pubblicato da Laterza, “Salviamo il Capitalismo da se stesso” di Colin Crouch. Molte critiche sono del tutto condivisibili, ma il bersaglio è sbagliato. La colpa non è del mercato -come l’autore tende a dire- con il suo disordine senza controlli, ma di una realtà economica in cui Capitale e Stato in combutta manipolano il mercato a vantaggio di pochi e a danno dei più. Ha qualcosa che fare col mercato l’attuale sistema bancario mondiale, controllato dalle banche centrali? Ha qualcosa che fare col mercato il sistema dei brevetti e delle proprietà intellettuali, che permette di lucrare rendite enormi strozzando la concorrenza ai danni dei consumatori? Siamo sicuri che senza il supporto dello Stato si sarebbe reso possibile il gigantismo di certi colossi industriali che ci fanno un po’ paura? Qualcuno ha detto che se negli USA lo Stato non avesse promosso la costruzione di ferrovie transcontinentali si sarebbero avute reti ferroviarie locali, costruite per iniziativa privata, integrate tra loro in un complesso forse meno efficiente, che però avrebbe reso meno conveniente la formazione, lungo il tracciato, di grandi agglomerati industriali. Non so se le cose stiano proprio così, ma il ragionamento mi sembra sensato. Si sarebbe avuta meno efficienza capitalistica, i trasporti sarebbero stati meno rapidi, ma forse il lavoro sarebbe statoi più umano.
Pensiamo all’Italia. Se non fosse stata costruita, all’inizio degli anni Sessanta dello scorso secolo, l’Autostrada del Sole, l’evoluzione del traffico automobilistico sarebbe stata diversa e anche la FIAT avrebbe dovuto puntare più sul trasporto pubblico che sulla motorizzazione privata; sarebbe stata privilegiata la rete ferroviaria rispetto a quella stradale.
In somma, Capitalismo e Stato vanno sempre a braccetto. Dove lo Stato è dominante, abbiamo un sistema comunista. Dove Stato e privati si equilibrano abbiamo un sistema socialista, come quello odierno, checché ne dicano i fustigatori del fantomatico “liberismo selvaggio”.
Il mercato è un’altra cosa. E noi diciamo: giù le mani dal mercato.
Chiedo scusa se ogni tanto difendo un po’ i cattolici (salvo poi attaccarli sui loro siti integralisti), ma non è un po’ ingeneroso bollare Crespi e il suo villaggio di “razionalità e umanitarismo un po’ peloso nel nome del profitto”?
Crespi era cattolico, così come Adriano Olivetti, altro grande imprenditore dal volto umano.
Napolone Leumann invece era svizzero calvinista, ma con grande civiltà ed educazione verso il paese che lo ospitava, si comportò da cattolico creando un villaggio ben più grande e importante del Crespi alle porte di Torino e con chiese di culto cattolico, tuttora esistente.
Nessuno di questi imprenditori mi pare abbia fatto danni, anzi. Gli operai erano onorati e felici di lavorare per loro. Nel nome del profitto vero si agiva nell’Inghilterra vittoriana, dove veniva teorizzato che al salariato dovesse essere concesso il minimo indispensabile per non morire di fame, perchè il di più lo avrebbe viziato.
In fin dei conti il capitalismo di matrice cattolica non ha mai creato le masse di pezzenti proprie dall’etica anglo-protestante così ben descritte da Dickens.
E non è un piccolo particolare. (cit.)
“… un lieto fine era previsto e assai gradito” (cit.)
In realtà il lieto fine sarebbe superare le categorie “padrone” e “operaio”, prima di tutto nella testa degli individui coinvolti, poi nelle sintesi di politici, storici e teorici del lavoro. In questo senso l’approccio etico “per categorie” (cattolico, marxista, protestante, …) non sembra sufficiente.
Sono il primo a riconoscere i meriti di un filone del pensiero cattolico (invero minoritario) che ha anticipato alcuni principi della moderna economia di mercato. È stato Rothbard a dimostrare la genialità della Scuola di Salamanca, che ha intuito con largo anticipo alcuni principi degli economisti “austriaci” . Ho sempre avuto grande simpatia per Rosmini, Sturzo, Novak. La “Rerum novarum” di Leone XIII non è affatto contraria all’ economia di mercato. Mi piace molto meno la “Populorum progressio” di Paolo VI, che sembra confondere liberalismo capitalismo e mercato. L’etica protestante mi è sempre stata invisa. La teoria di Max Weber che la vede come matrice del Capitalismo non mi ha mai convinto e mi pare sia stata ben confutata da Luciano Pellicani: eppure continua ad essere ripetuta a pappagallo, come oro colato.Che i salari debbano essere tenuti al livelllo più basso per impedire che i dipendenti si diano agli stravizi è moralismo stupido ed economicamente fragile: i consumi di massa possono decollare solo se c’è denaro da spendere. Riconosco le benemerenze dei Crespi, i cui successori ebbero però il demerito di estromettre Albertini dalla direzione del “Corriere” in omaggio al Fascismo. Quanto a Olivetti, è stato sicuramente un personaggio ispirato da grandi ideali umanitari. Sergio Ricossa (che, non dimentichiamolo, era figlio di un operaio della Fiat) gli preferiva però un “tipaccio” come Valletta. Cito a memoria: “Olivetti vorrebbe per ogni operaio un quadro di Mirò. Ma agli operai non piacciono i quadri di Mirò. E neanche i romanzi di Volponi”. Ecco, è questo il paternalismo che criticavo. Il che non significa che la Londra vittoriana di Dickens sia il mio modello. Non ho alcuna difficoltà a dire che mi fa orrore. Detto questo, caro Max, i Suoi interventi mi fanno sempre piacere. A risentirci!