Don Giovanni

Bersaglio sbagliato?

L’unica cosa bella della cerimonia svoltasi domenica 28 giugno a Bergamo, alla presenza delle autorità (quelle che, con il rimpianto Arrigo Benedetti, insigne giornalista, non cesseremo mai di irridere per quel tanto di disumana comicità che la parola racchiude) in memoria delle vittime mietute dal Covid 19 nel territorio orobico è l’esecuzione della “Messa di Requiem” di Gaetano Donizetti, scritta per la morte del collega – e rivale – Vincenzo Bellini, nell’anno 1835. Ottima scelta, per una sere di motivi. Innanzitutto Donizetti è uno dei più illustri figli di Bergamo. Poi, fu un altro bergamasco, il Maestro Gianandrea Gavazzeni, fine saggista oltre che musicista indimenticabile e indimenticato, a riscoprire la partitura del suo grande concittadino, riproponendola, se non vado errato, nel 1948, dopo che era stata eseguita due o tre volte a molti anni dalla la morte dell’autore, e poi messa da parte. Infine, trattandosi di un’opera molto bella, è un gran bene che venga fatta conoscere a un vasto pubblico per rientrare magari nel comune repertorio, accanto a capolavori fin troppo noti e continuamente presenti nei cartelloni delle istituzioni musicali. Vi confesso che anch’io, pur conoscendone l’esistenza, non avevo mai avuto il piacere di ascoltarla, anche perché le poche incisioni fonografiche in commercio sono difficilmente reperibili (si consulti il catalogo Amazon per averne la prova). Ne sono rimasto incantato. Forse è un’opera incompiuta, perché mancano le parti del canone corrispondenti al “Sanctus” al “Benedictus” e all'”Agnus Dei”, ma questo non toglie nulla al fascino della composizione, anzi ci aggiunge qualcosa, come spesso capita ai capolavori che gli artisti, per un un motivo o per l’altro, non hanno potuto portare a termine (si pensi, per rimanere in argomento, al “Requiem” di Mozart, o, volendo andare un po’ fuori tema, alla “Pietà Rondanini” di Michelangelo). In Donizetti c’è una purezza di canto che è tutta sua, inconfondibile, anche se partecipa di quel momento magico (i tedeschi lo chiamano “Zeitgeist”) che vide attivi compositori dall’ispirazione ugualmente immacolata, come Schubert, Bellini, Chopin, e un poeta dalla voce purissima come Giacomo Leopardi. Sempre limpida la strumentazione, frutto di un magistero che il Bergamasco apprese  alla scuola del bavarese Giovanni Simone Mayr, attivo in quei tempi a Bergamo, dove diffuse la conoscenza del grande patrimonio musicale austro-tedesco. Quivi comincian le dolenti note.

Prima di rutto, che tristezza il coro del Teatro Donizetti costretto a cantare con la mascherina! Io mi sarei ribellato. E’ il modo migliore per ammalarsi. Il canto esige una particolare tecnica, che impegna non poco l’apparato fonatorio e quello respiratorio. Mi meraviglio che, nonostante il sovraffaticamento cui si sono dovuti sobbarcare, i coristi abbiano saputo dare una così eccellente prova di sé. Davvero valorosi. Con il caldo che faceva, mi aspettavo che qualcuno cadesse a terra svenuto, per un attacco di ipercapnia. Per fortuna i cinque solisti avevano il volto libero, e lo stesso , nell’orchestra, i professori di strumenti a fiato (vorrei proprio vedere come si può sonare una tromba, un flauto o un corno con una mascherina appiccicata alla bocca). Anche il bravo Maestro Riccardo Frizza – reduce, fra l’altro, da un attacco di Coronavirus, per fortuna senza gravi conseguenza e ormai in ottima forma – ha diretto a viso scoperto. Altro motivo di tristezza quello di aver dovuto vedere ancora una volta, in concomitanza con le  immagini del concerto, quella lugubre sequenza stile “Nosferatu il Vampiro”, con le bare dei deceduti per Coronavirus trasportate dagli automezzi dell’esercito, che nei momenti più bui dell’emergenza ci sono state continuamente messe davanti agli occhi da tutti i notiziari televisivi. Per carità di patria quelle immagini sarebbero da archiviare. O forse no: sarebbero da spedire a chi di dovere perché si apra un procedimento giudiziario contro i responsabili di quelle morti. Mostrarle di nuovo a chi ha avuto qualche perdita tra le persone più care equivale a un turpe sberleffo. E’ inutile che il “governatore” della Regione Lombardia, presente al concerto insieme con quasi tutti i sindaci del territorio, si affanni a dichiarare, per discolparsi delle accuse di cui è stato ingiustamente fatto segno, che l’unico assassino è il virus. Certo, non è colpa sua se i provvedimenti per arginare i contagi nelle zone più colpite sono stati presi in ritardo, perché la profilassi internazionale, secondo la Costituzione, spetta al governo centrale; le amministrazioni regionali hanno compiti puramente regolamentari ed esecutivi. Ma, a parte il Coronavirus, che non è un essere umano e forse neppure un essere vivente, un assassino, o una masnada di assassini, c’è, e, guarda caso, nessuno di quei compari era presente alla cerimonia. Proprio così. Era presente il Presidente della Repubblica, che ha tenuto un discorso lodevolmente sobrio e privo di retorica. Era presente il vescovo di Bergamo. Era presente il “governatore” della Regione Lombardia. Nessuna rappresentanza del Governo. Paura di mostrare la faccia e di esporsi a qualche lancio di uova? A dire il vero, ad accogliere le altre autorità c’era, nei pressi del cimitero, un manipolo di sfigati che urlavano improperi. Bersaglio sbagliato. Quelli che si meritavano gli improperi non erano lì. Sbagliano bersaglio anche i rappresentanti dei parenti delle vittime, che continuano ad accusare il “governatore” di colpe che non ha. Strano che nessuno chieda di far luce su quella circolare del ministero competente che ha di fatto costretto i medici degli ospedali di Bergamo a evitare le autopsie. Si è fatta tanta retorica sul rispetto dei provvedimenti governativi dimostrato dalla grande maggioranza degli italiani durante tutta l’emergenza. Si è lodata, giustamente, l’abnegazione dei medici e degli infermieri. Più di tutti andrebbero lodati però quei medici che, contravvenendo agli ordini dei superiori, hanno cominciato a eseguire le autopsie, permettendo così di comprendere che le terapie fino a quel momento applicate erano sbagliate e affrettavano la morte dei pazienti, anziché scongiurarla. Come diceva Don Milani (personaggio che amo poco, ma che qualcosa di buono ha detto e ha fatto) l’obbedienza non è sempre una virtù. Niente da dire su quei medici? La disobbedienza è encomiabile solo quando è compiuta dalla scarmigliata e bisunta Carola Rakete, mettendo in pericolo la vita di chi, nel rispetto della legge, cerca di fermarla?Mentre scrivo mi giunge notizia che il “governatore” Fontana ha procrastinato di quindici giorni il termine dell’obbligo di portare la mascherina. Stia attento anche lui a non passare dalla parte di quella masnada che si diceva. Con il caldo afoso che è improvvisamente scoppiato, obbligare i poveri cittadini ad andare in giro mascherati vuol dire condannarli a morte, per ipercapnia, non per Coronavirus (che ormai, checché se ne dica, è ridotto all’impotenza). Una mia cara amica, che, iscritta all’AVIS, dona generosamente il sangue, uno di questi giorni, durante un prelievo, è improvvisamente svenuta. Portava, come d’obbligo, la mascherina. “Post hoc, ergo propter hoc” ? In questo caso, sicuramente. Sono decenni che si sottopone a prelievi. Non le era mai capitato nulla di simile. Attento Fontana, attento. Lo so che sei in buona fede. I tuoi consiglieri forse un po’ meno. Vorrei vedere quanti sono a libro paga di qualche casa farmaceutica, di quelle che hanno tutto l’interesse a far ammalare la gente. 

Giovanni Tenorio

Libertino