Don Giovanni

Coraggio, Livermore!

Mi sembra di aver letto che i ghisa di Milano hanno deciso di spostare lo sciopero contro l’amministrazione comunale dalla giornata di Sant’Ambrogio, quando si inaugura la stagione della Scala, a quella di Capodanno. Non entro nel merito della loro protesta contro la pretesa di obbligarli a timbrare il cartellino, come tutti i lavoratori di questo mondo. Ohibò, dicono, non siamo mica come gli impiegati dell’anagrafe. Certo, sono molto peggio. Ma non divaghiamo. A Capodanno, quando non c’è nessuno in giro perché tutti se ne stanno a casa a smaltire la sbornia di mezzanotte, che incidenza può avere lo sciopero dei ghisa? Meno di zero. Nessuno avrà a soffrire della loro astensione dal lavoro. Magari ci sarà qualche multa in meno per divieto di sosta: tanto di guadagnato (per i trasgressori, non per il Comune). Io avrei desiderato che per Sant’Ambrogio scioperassero non solo i ghisa, ma anche i poliziotti e i Carabinieri. Lo so che non possono scioperare, ma se scioperano, che si può fare? Licenziarli tutti? Condannarli tutti per ammutinamento o violata consegna o qualcos’altro del genere? Pensate che meraviglia: nessuno potrebbe presidiare Milano, come ai tempi di Bava Beccaris, e in particolare Piazza della Scala, in occasione della “prima”, come capita almeno dal lontano Sessantotto, quando Capanna e i suoi energumeni si divertirono a bersagliare i rappresentanti dell’alta borghesia meneghina e le loro consorti con spruzzi di vernice. Come conseguenza, le autorità della Repubblica Democratica fondata sul lavoro se ne starebbero a casa loro, invece di arrivare a Milano per annoiarsi e magari addormentarsi su una poltrona di platea (come capitò a Giovanni Spadolini durante una recita del “Don Giovanni”: un’offesa che non potrò mai perdonargli, neanche dopo morto). Nessuno si radunerebbe in Piazza della Scala a protestare, per mancanza di bersagli: se mancano i politici e mancano gli sbirri, chi bersagliare? I rappresentanti di una borghesia sciattona? Non ne vale la pena. Le occasioni sono altre: ora che la Scala, grazie ai buoni uffici del sovrintendente Pereira, viene affittata per le sfilate di moda, quella è l’occasione buona per lanciare un po’ di vernice contro stilisti, modelle e invitati del bel mondo. Ecco, anche per quelle manifestazioni Milano ritorna ai tempi del crudele Bava: “Non si passa, abbiamo ordini severissimi!” “Vi compiango, ecco che cosa capita a portare una divisa: far la guardia ai sarti e alle loro corti dei miracoli, come le chiamò il grande Paolo Isotta. E se passo, che fate?” “Fuoco!”

Sarebbe finalmente un Sant’Ambrogio tranquillo, senza scontri in piazza e senza Inni di Mameli in sala. Qualcuno storcerà il naso. L'”Attila”, che inaugura la stagione del “primm teater del mond” (ai tempi di Stendhal), è un’Opera patriottica! L’Inno di Mameli poteva deconcentrare l’orchestra quando si eseguiva “Fidelio” sotto la bacchetta di Muti (che infatti non lo suonò), ma Verdi è un’altra cosa. Calma, calma. Patriottico l’ “Attila”? Può darsi. O non, piuttosto, sentito come tale, a suo tempo, dal pubblico, forse un po’ meno dall’Autore? Il protagonista dell’Opera, “il flagello di Dio”, appare una figura di tutto rispetto, tutt’altro che un barbaro. Molto più odioso il romano Ezio, che propone al re degli Unni un vile baratto, alla faccia del legittimo imperatore Valentiniano (“Avrai tu l’Universo/resti l’Italia a me”), da quello sdegnosamente e giustamente rifiutato.

Nessun barbaro in scena quindi, e nessun barbaro in piazza (né gli sbirri, né gli energumeni che tirano vernice o, peggio, bottiglie molotov); in compenso i barbari sono quelli che provvedono alla regia e alla messa in scena. Sì, ancora una volta la barbarie viene dal Nord, come al tempo degli antichi Romani, non dai terroni. La vera invasione non è quella dei poveri cristi che arrivano con i barconi per rimediare un tozzo di pane, prontamente respinti dall’eroico Salvini (“Avrete voi l”Europa/ resti l’Italia a me”), ma quella dei registi tedeschi, che hanno contagiato anche i loro colleghi del Bel Paese; al punto che non è più possibile vedere un’Opera con un allestimento decente. Alla Scala quest’anno avremo quel pazzoide di Davide Livermore, che ha già fatto incazzare qualche bigottone prima della “prima”, quando è trapelata la notizia che in scena si sarebbe vista una Madonna brutalmente profanata. E quel pavido ha fatto macchina indietro, cancellando la bella trovata. Ritorna la censura, e la connessa paura, signori miei! Invece l’unica censura dovrebbe essere quella del pubblico, a fischi e torsoli: perché la trovata è esteticamente repellente, non perché vilipende la religione. E poi, che diamine! Mica si vilipende Maometto: allora sì ci sarebbe da farsela sotto.

Nell’ “Attila”, una volta tanto, sono le donne a vincere. Abbiamo addirittura un maschicidio: Odabella, per vendicare il padre, che Attila ha massacrato, finge di acconsentire alle nozze con il re degli Unni, ma poi lo pugnala. Qualche tempo prima, lo aveva salvato dal veleno che Foresto, il di lei fidanzato, gli aveva versato nella coppa, svelandogli l’insidia. Voleva essere lei a ucciderlo! E così fa. Bel finale, dirà qualcun o, meglio, qualcuna, finalmente è un maschio a soccombere. E invece no! In questo modo Attila diventa ancora più simpatico, e con quella sua ultima battuta prima di stramazzare al suolo (“E tu pure, Odabella!” ) , che richiama il “Tu quoque, Brute, fili mi” di Giulio Cesare trafitto dai congiurati, acquista una statura ancora più nobile. Livermore non è stato abbastanza trasgressivo: avrebbe dovuto modificare il finale (se si può fare con “Carmen”, perché non con “Attila” ?): dovrebbe essere Attila a uccidere Odabella, perché non gliela vuol dare. Così si dimostrerebbe tutta la violenza dei maschiacci, che sono proprio barbari e pensano soltanto a chiavare; e se non ci riescono, accoppano. Allora sì che la Scala ridiventerebbe “el primm teater del mond”, tra l’esultanza di #metoo.

Sei poco trasgressivo, il mio caro Livermore. Che diamine, un po’ di coraggio!

Giovanni Tenorio

Libertino