Don Giovanni

Abolizione del valore legale del titolo di studio: l’unica riforma possibile per la Scuola.

E’ inevitabile che, terminato l’anno scolastico, si ricominci a parlare dei problemi della scuola. Non a livello governativo: il governo è in tutt’altre faccende affaccendato. La smorta figura del presidente del consiglio deve far da mediatrice fra le velleità antitetiche dei suoi due vice, uno tutto intento a sbarrare la strada ai migranti, l’altro a disegnare una politica assistenziale che porterà l’Italia al baratro economico. La scuola è l’ultima ruota del carro. Ne parlano invece con insistenza i giornali, primo fra tutti il “Corriere della sera”, dove, nel giro di poche settimane, sono comparsi sull’argomento due succosi editoriali, uno firmato da Ernesto Galli della Loggia, l’altro dai due economisti Alberto Alesina e Francesco Giavazzi. Del primo, mi sembra condivisibile l’aspra critica alla “gestione sociale della scuola” che, introdotta all’inizio degli anni Settanta dello scorso secolo sull’onda dell’ideologia sessantottina, ha inferto un duro colpo all’efficienza e alla produttività dell’istituzione scolastica. Fuori dunque i sindacati, i rappresentanti degli studenti e quelli dei genitori dagli organi decisionali, che devono rimanere nelle mani dei tecnici, cioè degli insegnanti e dei capi d’istituto. Posizione coraggiosa. Anche nell’altro editoriale alcune osservazioni sono sensate. Ci si chiede innanzitutto: come mai la preparazione degli studenti al Sud risulta, da prove oggettive, lontana dai risultati degli altri Paesi europei, mentre al Nord appare sostanzialmente in linea con quelli? Evidentemente c’è qualcosa che non va. Nel Sud, fatte le debite eccezioni, il lavoro scolastico è meno rigoroso, la selezione più blanda. Bisogna tornare a una scuola che sappia essere egualmente severa in tutto il territorio nazionale. Bisogna ridurre il periodo, eccessivamente lungo, delle vacanze estive, tenere aperti gli istituti anche nel pomeriggio per attività complementari che impegnino i giovani in incombenze utili e formative, evitando così che cadano nel vizio e nella criminalità (è la funzione che un tempo, e ora sempre meno, svolgevano le parrocchie attraverso l’oratorio). E via di seguito.

Che dire? Siamo sempre in un’ottica statalista. Certo, c’è statalismo e statalismo. Quando Galli della Loggia propone che le biblioteche scolastiche rimangano aperte tutto il giorno, a disposizione di chi vuole frequentarle, dice una cosa saggia. Biblioteche e cineteche. Aggiungerei: musicoteche, perché finalmente i giovani possano avvezzarsi ad ascoltare la musica “forte”, come la chiama Quirino Principe. Lo statalismo della scuola d’oggi è uno statalismo straccione. Altro che “buona scuola”! Hanno ragione Alesina e Giavazzi a dire che le condizioni di abbandono e di incuria in cui versano molte sedi scolastiche fatiscenti non sono uno stimolo all’impegno nello studio. A dire il vero, gli uffici pubblici in genere comunicano un’dea di oppressione. Pensiamo ai tribunali: spesso sono, nel loro aspetto materiale, lo specchio della malagiustizia che vi si amministra. Quanto alla differenza fra la preparazione degli studenti al Sud e al Nord, non posso esimermi dal pormi due domande. Prima: come mai questa differenza, se la stragrande maggioranza degli insegnanti in servizio al Nord viene dal meridione? Spesso poi chiedono il trasferimento nelle terre d’origine, ma rimangono sempre gli stessi, con la loro personalità, la loro preparazione specifica e la loro capacità didattica! Evidentemente è l’ambiente a fare la la differenza. E’ risaputo che nelle splendide località marine del Sud la scuola di fatto non termina ai primi di giugno, ma molto prima, quando già tira aria d’estate e le spiagge sono più che mai invitanti. Ci sono le debite eccezioni, ma sono mosche bianche. Seconda domanda: era così anche un tempo, prima delle ultime sciagurate riforme che hanno sconciato, passo dopo passo, quello che una volta si chiamava esame di maturità? Un tempo le commissioni d’esame erano formate integralmente da insegnati esterni, che arrivavano anche da molto lontano. Al Nord arrivavano commissari del Sud, al Sud commissari del Nord. Erano commissioni agguerrite, vagliavano con rigore la preparazione degli studenti. Nessuno, né insegnante né studente, poteva prendere alla leggera il suo lavoro, nel corso del triennio delle scuole superiori, perché alla fine i nodi sarebbero giunti al pettine. Oggi non è più così.Gli esami sono diventati una burla, anche perché il programma è assai ridotto rispetto a un tempo e le commissioni, anche quando comprendono membri esterni, sono formate da insegnanti in servizio nel medesimo ambito territoriale: chi insegna a Nord fa il commissario al Nord, chi al Sud al Sud. Inevitabile che a questo punto la divaricazione territoriale, per quanto riguarda la preparazione scolastica degli studenti, si accentui.

Rimedi? Alesina e Giavazzi vorrebbero allungare l’anno scolastico, riducendo, come s’è detto, le vacanze estive. Credo che abbiano in mente il modello tedesco, dove il numero annuo dei giorni di scuola è più o meno lo stesso che in Italia, ma le vacanze, anziché essere concentrate nel periodo estivo, sono distribuite in modo più uniforme nel corso di tutto l’anno scolastico. Non so se sia una buona idea. Tenere gli alunni a scuola per tutto giugno e luglio nel nostro Sud? Impossibile. Il clima mediterraneo non è compatibile con il modello tedesco. Una volta le scuole cominciavano in ottobre; subito dopo i primi giorni, cadeva la prima festività, in onore di San Francesco. Eppure i risultati finali non erano male. Ora si comincia un mese prima, ma la situazione pare peggiorata.
A me pare che le cose da fare siano sostanzialmente quattro. Restauro degli edifici scolastici fatiscenti. Scuole aperte al pomeriggio, per chi vuole frequentare attività complementari ed usufruire di servizi come biblioteca, cineteca, musicoteca. Ripristino degli esami severi di un tempo, che contemplino più prove scritte e interrogazioni orali su tutte le materie di studio del triennio. Commissari d’esame esterni, che vengano da ambiti territoriali lontani: a Nord dal Sud, al Sud dal Nord.

Ma non basta. La vera rivoluzione è un’altra, non mi stancherò mai di ripeterlo: abolizione del valore legale dei titoli di studio. Ma è una proposta tabù. Nessuno ne parla. Non sia mai che lo Stato non certifichi, attraverso il valore legale dei diplomi elargiti dalle sue scuole, la preparazione di chi ha seguito un certo corso di studi. Se non è lo Stato a farsene garante, sarebbe l’anarchia!
Certo, l’anarchia, che bella cosa! Nessuna ARCHE’ che garantisce nulla. Lasciar fare al mercato. Senza valore legale dei titoli, ogni scuola dovrebbe far di tutto per dare il meglio, se non vuole rimanere senza alunni. Dovrebbe cercare di accaparrarsi gli insegnanti migliori, se non vuole che tutti la disertino. Il valore dei titoli diventerebbe un valore puramente morale. Sei uscito da quella scuola di schiappe? Sei una schiappa. Sei uscito da quella scuola seria e severa? Probabilmente sei preparato. Però fammi vedere in concreto che cosa sai fare, se vuoi essere assunto a ricoprire il posto che desìderi.

Resto convinto che in una società anarchica si imporrebbe spontaneamente quello che il non mai abbastanza rimpianto Adriano Buzzati Traverso proponeva quando l’argomento non era ancora tabù: obbligo per i professionisti di indicare, sulla loro carta da lettera, l’anno e l’ateneo in cui si sono laureati. Nessuno si fiderebbe di un professionista che ha preso la laurea in un’università notoriamente scadente, in un anno in cui si elargiva il 18 politico.

A proposito di statalismo. Alesina e Giavazzi propongono una buona dose di educazione civica, nei programmi di tutte le scuole, non tanto per mandare a memoria gli articoli della costituzione, magari senza comprenderli, quanto per imparare le buone regole della convivenza civile. Fra le quali, manco a dirlo, spicca il dovere di pagare le tasse, perché lo Stato siamo noi e non pagare le tasse significa rubare a noi stessi. Qui il ragionamento diventa parecchio ingarbugliato. Che lo Stato siamo noi si dice e si ripete, ma è una gran fandonia. In ogni contesto sociale fondato su un regime di subordinazione a una potestà imperativa c’è chi comanda e chi ubbidisce. Questo è vero sia per le più efferate dittature sia per le democrazie più liberali, anche se la differenza è enorme. Lo Stato è l’insieme di chi comanda: un gruppo di persone che si sono fatte chiamare così per esercitare l’oppressione e l’estorsione. Se la chiami Mafia, la aborri, se lo chiami Stato, ti inchini. Potenza dei nomi! Nomina sunt consequentia rerum, dicevano nel Medioevo. Ma ammettiamo un momento, per ipotesi, che sia proprio vero: lo Stato siamo noi. Possiamo rubare a noi stessi? Neanche per idea! Se rubare è impossessarsi di una proprietà altrui, non è possibile rubare a sé stessi, per la contradizion che nol consente! Se si dimostra falsa la tesi (si ruba a sé stessi) si falsifica ipso facto l’ipotesi (lo Stato siamo noi).

Ma non è neanche vero che evadendo le tasse si ruba a qualcun altro. A chi? E’ l’altro che ruba a me. Io semplicemente mi difendo. Occulta compensazione, dicevano una volta i Gesuiti. Oggi i Gesuiti, a cominciare da quello che occupa il soglio di Pietro, dicono che non pagare le tasse è peccato. Certo, se nessuno pagasse le tasse anche l’otto per mille andrebbe a farsi benedire. E il Sommo Prete, per dirla con Alfieri, dovrebbe tornare alla rete.

Giovanni Tenorio

Libertino