L’inferno statalista
A esultare non poteva essere che la solita Carmela Rozza – ve la ricordate? – che ogni tanto ricompare alla ribalta con qualche nuova trovata o qualche bella dichiarazione. Questa volta sempre in nome della legalità, plaude al muscoloso intervento della forza pubblica per sgombrare la Stazione Centrale di Milano e le aree adiacenti dalla feccia degli immigrati e dei clandestini che bivaccano, insudiciano, minacciano e commettono reati. Brava, signora. La legalità, vero? Quella nel cui nome, tempo fa, lei s’è permessa di insozzare con una pennellata di vernice un’auto in divieto di sosta che le impediva di eseguire la meritoria opera di cancellazione dei graffiti che sconciavano la metropoli lombarda. Anche allora, dov’era stata fino a quel momento la legalità, mentre i graffiti proliferavano, deturpando palazzi, chiese, monumenti, e nessuno si dava pena di stroncare il fenomeno con punizioni esemplari? Certa sinistra addirittura indulgeva a quelle forme d’arte trasgressiva. Non c’è da stupirsene, in un’epoca in cui la Biennale di Venezia è un campionario di sozzerie, e le cosiddette “installazioni” raccapriccianti dei cosiddetti “artisti” campeggiano nelle piazze delle città, pagate a peso d’oro con denaro pubblico. Sarebbe stato opportuno intervenire subito. Tutto sarebbe finito nel giro di poche settimane. Così fecero nel Canton Ticino (per una volta tanto è giusto parlare bene della Svizzera). Là i graffitari fin dal loro esordio vennero immediatamente individuati e le loro famiglie furono costrette a risarcire fino all’ultimo centesimo i danni per la rimessa in pristino dei manufatti danneggiati. Toccare nel portafoglio: è una ricetta infallibile.
Ma paga di più, in termini di consenso popolare, farsi fotografare col pennello in mano a cancellare i graffiti che fino a quel momento si sono moltiplicati in piena libertà, mentre i tutori dell’ordine delle sette o otto polizie di cui si fregia il Bel Paese, sempre prontissimi a elevare contravvenzioni per divieto di sosta e altre bazzecole, giravano la testa dall’altra parte. Che brava persona l’assessora! Invece di starsene a casa sua ad abbadare ai fatti propri, spende il suo tempo libero per il bene comune. Così s’ha da fare. E se qualcuno glielo impedisce, è sacrosanto che si ritrovi la macchina sfregiata da una pennellata di bianco. In nome della legalità, si intende.
Siamo tutti d’accordo che non bisognerebbe poter bivaccare negli spazi pubblici; e ancor meno importunare i passanti, minacciare, borseggiare, abbandonarsi a risse. Non sarebbe possibile neppure in un contesto sociale anarchico. Anzi, probabilmente, gli interventi sarebbero molto più drastici che in un sistema posto sotto la tutela dello Stato. Strade e piazze apparterrebbero a qualcuno: proprietà singola, o condominiale. Potrebbero far capo a società commerciali che si occupano di viabilità a fine di lucro, dietro pagamento di pedaggi. Probabilmente un apparato giuridico consuetudinario garantirebbe, in molti casi, diritti di passo acquisiti per abitudini antiche, da sempre riconosciute: l’assenza dello Stato non significa scomparsa di spazi e di diritti pubblici. Nessuno però potrebbe bivaccare dove non s’è mai bivaccato: il proprietario, singolo o collettivo, interverrebbe subito. Gli intrusi verrebbero fatti sloggiare. Così dovrebbe fare lo Stato: non appena qualcuno (non importa se immigrato o cittadino, o marziano o selenita) tenta di accamparsi in una pubblica via o in una piazza deve impedirglielo. Se uno viene colto a importunare i passanti, o a compiere atti di aggressione, dev’essere punito in modo esemplare (e possibilmente non lasciato libero il giorno dopo, a ripetere gli stessi reati). Il fenomeno cesserebbe. Invece che cosa si è fatto, a Milano ma anche a Roma, dove c’è stato anche un episodio luttuoso? Si è lasciato ancora una volta che lo sconcio incancrenisse, per poi montare la solita sceneggiata: forze dell’ordine che, rimaste fino a quel momento con gli occhi bendati, s’armano di tutto punto e muovono alla carica, menando le mani, com’è loro precipuo divertimento (“A furia di bazzicar co’ ladri avete un poco imparato il mestiere” dice Renzo Tramaglino agli sbirri che lo stanno traendo in arresto). Così ci scappa anche il morto. Fatalità. Soffriva di cuore! L’avessero allontanato con le buone, a suo tempo, sarebbe ancora vivo. I bivaccanti potrebbero ben dire:”Non ci avete detto niente fino ad ora! Ormai il nostro è un diritto acquisito! Come quello degli zingari. Perché non fate sgomberare anche loro?” Naturalmente i paladini della legalità gongolano. Così s’ha da fare! Pugno di ferro! E invece no. Si doveva intervenire prima, senza scudi e manganelli. Con fermezza, ma anche con civiltà. Perché i bivaccanti, anche se malintenzionati ( ma non tutti sono così: ci saranno senz’altro fra loro anche tante brave persone) sono esseri umani.
Esseri umani che, in nome dei più nobili principi di solidarietà, sono stati lasciati entrare nel territorio nazionale, magari addirittura dopo essere stati salvati da un naufragio, e poi abbandonati a se stessi. Non è vero che i campi profughi sono come i lager nazisti e i rifugiati sono i nuovi martiri: parole grosse, pronunciate da un signore vestito di bianco che, quando non ha un foglio davanti con un testo scritto per lui da qualche collaboratore, parla a vanvera arrivando addirittura a bestemmiare. Però la sofferenza del migrante è grande; e profonda la sua disillusione, quando trova, nei Paesi d’accoglienza, una situazione del tutto diversa da quella che s’aspettava. Qualcuno si sbanda, dandosi alla delinquenza. Inevitabile. E’ questo il frutto della territorialità, dei confini, dello Stato assistenziale. Se non ci fossero barriere di nessun genere, né passaporti, né carte d’identità, né polizie di frontiera, né eserciti, né imposte, né provvidenze pubbliche, ognuno potrebbe spostarsi liberamente, pagando i pedaggi quando dovuti e le altre spese di trasporto. I flussi migratori, in occasione di gravi cataclismi, crescerebbero d’intensità,, ma sarebbero in qualche modo regolati dalla legge del mercato: l’accoglienza ha un limite; anche a voler vendere tutto quello che si ha per darlo ai poveri, quando s’è venduto tutto non resta più niente. I poveri che restano dovranno arrangiarsi, o trovarsi qualche altro benefattore, da qualche altra parte. In ogni caso, sarebbe beneficenza privata. O anche interesse privato, se qualche imprenditore ha bisogno di manodopera che non trova in loco.
Non so se i sospetti che molte ONG lucrino sulla tratta dei migranti corrispondano a verità. Spero di no. E’ deprecabile, in ogni caso, che il sostituto procuratore da cui è stata promossa l’indagine sia fatto oggetto di reprimende e chiamato a rispondere di un atto dovuto. Dove sono finiti tutti quelli che si scandalizzano quando si critica -giustamente- il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale? Se c’è un sospetto non del tutto infondato, intervenire con un’azione giudiziaria è un atto di legalità.
Vero, signora Rozza? Mi piacerebbe conoscere il suo parere. Una cosa è certa. Se davvero alcune ONG hanno commesso il turpe atto criminoso, questo è un altro bell’effetto dello statalismo. Se non ci fossero Stati né frontiere, nessun privato potrebbe nasconder fini di lucro sotto la maschera della solidarietà. Si farebbero pagare pedaggi e spese di trasporto, alla luce del sole. Nessun pasto sarebbe (in apparenza) gratis. Pagherebbe (visibilmente) qualcuno per spirito di liberalità. Non si sarebbe obbligati a essere caritatevoli per forza, attraverso la coercizione fiscale. Non sarebbe il paradiso, forse soltanto un purgatorio. Una cosa è certa: adesso è l’inferno.
Le sette o otto polizie potrebbero avere in mano l’uovo di Colombo se solo il legislatore si decidesse a fornirglielo. Avrebbero il tempo di controllare i vandali se non fossero impegnati a occuparsi di narcotraffico. Ma proprio ieri, il reverendo arcoriano si è pronunciato contro la liberalizzazione delle sostanze stupefacenti. Per lui il rapporto con quel genio della strategia politica che risponde al nome di Giovanardi è più importante della rivoluzione liberale. Solo lui sa come fa a continuare a prometterla, dichiarandosi contestualmente contrario al più semplice dei provvedimenti liberali. Evidentemente anche ad Arcore c’è una posizione …rozza. Sarà la risorsa del suo mestiere: con la donnetta, col… “cavaliere”.
Caro Colla, mi ha rubato le parole di bocca! Avrei voluto scrivere qualche commento alle ultime esternazioni del Cavaliere in lode del proibizionismo. Le Sue parole mi esimono dall’intervenire: tutto ben detto, in lucida sintesi, meglio di quanto avrei saputo fare io. Come Lei ha ben ricordato in altra occasione, l’originario spirito liberale dell’uomo di Arcore -evidentemente del tutto strumentale- che gli aveva conciliato, sulle prime, l’attenzione di Pannella (in breve ravvedutosi dell’abbaglio), s’è ben presto stemperato fra compagni di cordata d’altra tempra: avanzi di sacrestia, ammiratori di Colbert e Rathenau (alla faccia di Antonio Martino, liberista vero e antiproibizionista da sempre), reliquie della vecchia DC e del vecchio PSI, esponenti di CL, fuorusciti del vecchio MSI, ex-sessantottini riciclati, e chi più ne ha più ne metta. L’ultima sparata riguarda il problema del testamento biologico e dei suoi corollari: “Amo la vita, fino al punto di far fatica a capire chi voglia rinunciarvi. Credo che lo Stato dovrebbe compiere lo sforzo di aiutare a vivere, non di aiutare a morire, naturalmente nel rispetto della volontà di ciascuno”. Punto primo: lo Stato dovrebbe compiere lo sforzo di non interferire in faccende squisitamente personali, in cui solo l’interessato e i suoi cari dovrebbero decidere, magari con il consiglio di un medico di fiducia: è una “zona grigia” che grigia deve rimanere, fermo restando che l’eutanasia propriamente detta, senza il consenso del paziente, dev’essere equiparata all’omicidio premeditato, magari con le attenuanti dei motivi umanitari. Punto secondo: è facile amare la vita quando si è stati baciati dalla fortuna (e da amicizie non sempre limpidissime), giungendo alla vecchiaia in ottima salute, un po’ meno quando, magari dopo una vita di stenti, si è colpiti da malattie incurabili che provocano gravi sofferenze senza speranza di guarigione. Mi chiedo se, a dispetto dei suoi studi classici, il Cavaliere abbia mai letto l'”Edipo a Colono” di Sofocle :” Non nascere è per l’uom ventura massima;/ e poi, venuto al giorno,/colà donde ebbe origine,/ subito far ritorno./ Ché quando gioventù sparve,/recando le sue lievi follie,/quale su noi travaglio non preme, quale mai colpo si schiva?/Discordie, gelosie,/risse, battaglie, stragi; e infine, retaggio ultimo esecrabile/ è la vecchiaia, priva/ di vigore, di piacevoli conversari, di amicizia,/che in sé d’ogni tristizia ha la tristizia.” E Schopenhauer, e Leopardi? Chissà se il Cavaliere li ha mai sentiti nominare…