Don Giovanni

La Legge delle Dodici Tavole e la giustizia moderna

E poi si dice che i rappresentanti del popolo in Parlamento sono incapaci e ignoranti! Calunnie, signori miei, calunnie! Avete visto che bella legge sono stati buoni a imbastire per rendere finalmente effettiva la legittima difesa? Sono andati addirittura a rispolverare il Diritto Romano in ciò che ha di più sacro e venerabile, la Legge delle Dodici Tavole. Sì, perché è proprio quel testo legislativo mirabile a sentenziare, nella tavola VIII, che SI NOX FURTUM FAXIT, SI IM OCCISIT, IURE CAESUS ESTO. Detto in termini d’oggi, l’uccisione di un ladro colto in flagrante nelle ore notturne è legittima. I Romani avevano ben capito che un conto è l’aggressione alle cose, un conto alle persone: la proprietà è sacra ma la vita ancora di più. Uccidere un ladro in pieno giorno è un delitto. Di notte, invece, è difficile distinguere se un malintenzionato intende soltanto rubare o è disposto anche a uccidere: nel dubbio, se uno reagisce uccidendo l’aggressore la legittima difesa si presume.

Tutto bene, però le condizioni di vita di oggi sono un po’ diverse da quelle dell’antica Roma. Oggi c’è la luce elettrica, che illumina le strade di notte e ciascuno può accendere a piacimento in casa propria. Se un energumeno entra in casa mia, e io sento un rumore sospetto, mi basta accendere la luce per vederlo e cercar di capire quello che intende fare. Certamente non è entrato per visitare la casa. Il minimo che ha progettato è di rubare, non importa quanto o che cosa. Poi può anche darsi che, vedendomi, sia disposto ad accopparmi per non fare lui una brutta fine. Oggi esistono le armi da fuoco, molto più pericolose dei pugnali d’una volta, perché possono colpire a distanza. Se alle mie intimazioni l’aggressore avanza verso di me, io non posso sapere se è armato o no. Potrebbe sfoderare da un momento all’altra una pistola e spararmi. Se, prevenendolo, sono io a ucciderlo, la legittima difesa dev’essere presunta. Se riesce a fuggire sulla strada pubblica, lo inseguo e lo uccido, sono passibile di condanna per omicidio volontario. In un sistema statale il mio reato dev’essere perseguibile d’ufficio. Se invece l’omicidio avviene entro la mia proprietà, saranno i parenti della vittima a dover dimostrare, ad esempio, che il ladro stava fuggendo e io gli ho sparato alle spalle. Non dev’essere molto difficile, nella maggior parte dei casi, raggiungere la certezza : basta individuare con una perizia balistica in quale punto del corpo s’è conficcata la pallottola. Se nella schiena, non ci sono i dubbi che il ladro stava fuggendo. Altri casi saranno più difficili da giudicare.

Quel che conta, però, è l’inversione dell’onere della prova. Non sono io, l’aggredito, a dover dimostrare il mio buon diritto. Sono i parenti dell’ucciso a dover dimostrare che la mia non è stata legittima difesa. Ma le menti dei legislatori italici sono troppo sottili per arrivare a una soluzione così limpida.

Forse hanno studiato il latino, ma non il greco antico. L’avessero fatto, forse conoscerebbero l’orazione di Lisia per l’uccisione di Eratostene in difesa di Eufileto. In breve, il caso giudiziario è il seguente. Il contadino Eufileto, di ritorno dal lavoro nei campi, sorprende nella propria casa Eratostene in compagnia della moglie, e lo uccide. La legge era dalla sua parte: chi sorprendeva un adultero in casa propria, era tenuto a ucciderlo. Il suo buon diritto si presumeva. Altra cosa sarebbe stato uccidere un adultero, magari confesso, in altra occasione, per vendetta privata: in questo caso erano ammesse soltanto le procedure giudiziarie. La discriminante era la flagranza di reato entro le mura domestiche. Più limpido di così… Sta di fatto che i parenti di Eratostene intentano causa ad Eufileto, sostenendo che il suo è stato un omicidio premeditato: sapendo dei rapporti adulterini fra Eratostene e la moglie, ha fatto in modo, con uno stratagemma, che il rivale cadesse in trappola, e, sorpresolo in flagrante, l’ha ucciso. La questione è assai delicata. L’orazione, scritta da Lisia ma pronunciata a memoria dall’imputato, come allora si usava, si conclude con un’osservazione che appare attualissima: spesso nei processi chi ha subito atti criminali corre più rischi di chi li ha commessi. Ecco le testuali parole:” Io dunque, o giudici, ritengo che questa non sia stata una vendetta privata nel mio interesse, ma nell’interesse dell’intera città; infatti coloro che commettono tali crimini, considerando quali sanzioni sono inflitte per colpe di questo genere, si renderebbero meno volentieri colpevoli verso il loro prossimo, a patto che vi vedano concordi con la mia autodifesa. Altrimenti sarebbe meglio cancellare le leggi vigenti e stabilirne altre che puniscano chi difende la propria moglie e concedano l’impunità a chi vuol commettere adulterio con lei. Sarebbe molto più giusto così: e invece, le leggi insidiano i cittadini, proclamando che chi sorprende un adultero in casa propria può farne ciò che vuole, mentre poi i processi sono molto più terribili per coloro che subiscono i torti che per quanti,contro le leggi stesse, disonorano le mogli altrui. Io ora rischio la mia vita, i miei beni e tutto il resto per aver obbedito alle leggi della città”.
Per la cronaca, Eufileto fu assolto. La giuria sentenziò che aveva agito secondo la legge. Erano stati i parenti dell’ucciso a cercar di provare il contrario. Inversione dell’onere della prova, dunque, che in questo caso non ebbe successo. Non dobbiamo mitizzare il passato, ma forse nell’antica Atene la giustizia operava meglio che nell’odierno Bel Paese.

Giovanni Tenorio

Libertino