Strutture sintattiche e strutture architettoniche
Amici miei, leggete di grazia con me questa frase. E’ scritta in lingua italiana ma potrebbe essere scritta, che so io, in ottentotto, in swahili, in amarico, nell’idioma dei Maori della Nuova Zelanda, senza per questo risultare meno comprensibile. Tenetevi ben stretti ai braccioli della poltrona, tirate un respiro profondo, e via:
“In particolare, tutto questo muove proprio contro l’architettura che, tra le pratiche artistiche è quella in cui la dialettica con l’eteronomia delle condizioni è materiale indispensabile, ma nello stesso tempo anche invadente, nel farsi del progetto e l’autonomia di chi cerca di riscoprire il terreno di qualche verità del nostro fare”.
Agli esami di maturità d’una volta, quando i professori si chiamavano, per fare qualche esempio, Giosue Carducci o Giovanni Pascoli, uno studente che in un lavoro scritto di Italiano avesse esibito una simile aberrazione, sarebbe stato inesorabilmente bocciato, con un giudizio del genere: “Forma sintatticamente scorretta, contenuto lambiccato e incomprensibile”. Oggi fiori di questo genere si leggono sul più prestigioso quotidiano italiano. La frase campeggia nel bel mezzo di un articolo fumoso e contorto, il cui concetto fondamentale, se ho ben compreso (ma non lo do per certo) sarebbe questo: nell’epoca nostra, dominata da una globalizzazione finanziaria che assume connotati neo-colonialistici, l’architettura egemone propone modelli in linea con la cultura neocapitalistica dell’effimero e del disordine, che pone il denaro come unico valore, rifiutandosi di confrontarsi con le proposte delle culture marginali, da cui si scelgono soltanto alcuni tratti caratteristici per aggiungere ai progetti un pizzico di esotismo. Morale: bisogna tornare a un’architettura che sappia dialogare alla pari con le culture diverse, per ritrovare una progettazione capace di esprimere valori alti e universali. Temo di non essere stato, anch’io, né elegante né chiaro, ma che volete? Dopo aver letto un articolo così, uno si rovina lo stile, e per rimettersi in sesto deve immergersi, che so, in una bella pagina di Italo Calvino, o di Leonardo Sciascia, o di Primo Levi… O forse rileggersi una gustosa novella del Boccaccio o dell’Aretino, o “Il Cortegiano” di Baldesar Castiglione, o il “Galateo” di monsignor Della Casa, o un’Operetta Morale di Leopardi, o la “Storia della colonna infame” di Manzoni. Vedrò di farlo al più presto, per ora prendetemi come sono, non è colpa mia. O meglio: un po’ di colpa ce l’ho, perché, letta la firma dell’articolo, in base all’esperienza avrei dovuto capire subito che brodaglia indigesta mi si propinava.
Per non infierire troppo non vi dico chi è questo signore. E’ un architetto famoso, che purtroppo ha anche il vezzo di scrivere, senza possedere non dico lo stile limpido di un Bruno Zevi (ecco un altro autore che dovrei rileggere), ma neppure quello di un vecchio capomastro uscito dalle scuole tecniche del buon tempo antico, dove si imparava anche la correttezza grammaticale, si studiava un po’ di Storia dell’Arte e la matematica era considerata una cosa seria (oggi gli architetti conoscono a malapena le quattro operazioni: senza gli ingegneri che gli fanno i calcoli vanno nel panico). Mi auguro soltanto che gli edifici costruiti da costui abbiano una struttura più solida della sua sintassi. Altrimenti, rischiano di crollare sul capo dei malcapitati che ci abitano, o che ci entrano magari per la prima volta, o che per caso ci passano vicino… Col cavolo che io chiamo uno così a restaurare la mia villa palladiana! Si salvi chi può!