L’affare Volkswagen
Non sembra vero ai tanti detrattori del rigorismo economico tedesco, sempre pronti a bollare Angela Merkel con i più infami appellativi per la parte non indifferente che ebbe a svolgere nelle macchinazioni antiberlusconiane dell’anno di grazia 2011, di leggere le ghiotte notizie sull’ “Affare Volkswagen” riportate in questi giorni dalle prime pagine di tutte le gazzette. Ci scommetto che il buon Alessandro Sallusti, l’orfanello di Berlusconi che qualche settima fa additò ai suoi lettori l’operato della cancelliera teutonica come esempio di fallimento plurimo, si sta scompisciando dal piacere. Vedete i tedeschi? Come gli altri e peggio degli altri! E vogliono dettar legge a noi! Anche Renato Brunetta, il keynesian-berlusconiano prodigo di ricette economiche espansive, farà salti di gioia. E chissà che anche Draghi, tante volte in rotta di collisione con il collega della Bundesbank Jens Weidmann, non sghignazzi in cuor suo dietro quel fare così impettito (Draghi+ sghignazzo: forse ci ho azzeccato a chiamarlo più d’una volta Draghignazzo).
Non intendo incensare i tedeschi, pur riconoscendone le eccellenze, e tanto meno difendere la Volkswagen. Se la prestigiosa casa automobilistica, democraticamente voluta da Hitler a beneficio del suo Volk, ha sbagliato, è giusto che paghi, sia in sede civile, risarcendo chi è stato vittima della frode, sia in sede penale. Però le cose non sono così semplici. E’ doveroso riconoscere che tutte le case automobilistiche, quale più quale meno, sono in un certo senso costrette ad aggirare le feroci normative ecologiche sui gas di scarico degli autoveicoli. Feroci soprattutto negli Stati Uniti. Per una maggiore sensibilità verso i problemi dell’inquinamento ambientale ? Non si direbbe, visto che in altri ambiti le normative statunitensi sono più blande di quelle europee. Vero che negli ultimi tempi, con Obama, molti atteggiamenti sono cambiati: non per nulla il papa abbraccerà con grande trasporto il presidente americano, con cui condivide ciecamente la fede nel surriscaldamento del globo e in tante altre fanfaluche, più che nella resurrezione di quel galileo impalato tanto tempo fa. Ma nella democrazia USA – un altro idolo da infrangere come quello elvetico – sono le mafie a comandare , come altrove e anche più. Mafia dei petrolieri, mafia degli agricoltori, mafia, in questo caso, dei produttori di autoveicoli. Ai quali dà fastidio la concorrenza delle case estere. Dà fastidio, in particolare, la Volkswagen, che, come tutti i produttori europei (ma con una rete commerciale molto più radicata nel continente americano), può offrire la tecnologia del motore Diesel, per la quale i maggiori produttori americani sono tradizionalmente poco concorrenziali, per non dire impreparati . Quindi, democraticamente (anche là i rappresentanti del popolo si possono comperare in vari modi) si introducono normative che, penalizzando il Diesel, obbligato a dotarsi di costosi dispositivi, favoriscono la produzione nazionale. Come reagisce la concorrenza estera? Con vari stratagemmi furbeschi, grazie ai quali si superano i controlli per l’omologazione simulando emissioni di sostanze inquinanti in apparenza conformi, di fatto superiori ai limiti di legge. La Volskwagen, probabilmente, forte del suo prestigio, non è andata troppo per il sottile: ha applicato ai suoi Diesel un algoritmo che, durante i controlli in laboratorio, fa emettere ai motori gas conformi ai limiti, mentre su strada si disattiva consentendo emissioni fuori legge. Lo scandalo è venuto alla luce perché, per difendere i propri interessi, le case automobilistiche USA sono attentissime alle trasgressioni delle concorrenti estere. E’ stato facile gioco individuare il dolo della Volkswagen e denunciarlo alle autorità. Questo succede a fidarsi troppo della propria potenza. Chi ha agito in modo più subdolo e coperto, troverà sempre un grande principe del foro capace di dimostrare a un collegio giudicante privo di approfondite conoscenze tecniche che il comportamento degli imputati rientra nella fattispecie del “dolus bonus”: imbroglio sì, ma tutto sommato lieve, quindi tollerabile e innocuo. Per la Volkswagen, invece, temo che nessuno potrà schiodare i giudici dall’idea del “dolus malus”, anche grazie alle velenose campagne di stampa che si stanno preparando, di sicuro sostenute, anche finanziariamente, dalle mafie dell’auto, che lì si chiamano “lobbies”.
Morale della favola? Qualche giorno fa sul “Corriere della sera” Dacia Maraini, ottima scrittrice ma mediocre opinionista, ha detto la sua sulla globalizzazione, mettendone in evidenza le presunte ombre. Conclude affermando che le liberalizzazioni sono dannose quando lo Stato è debole e quindi non è in grado di garantire i dovuti controlli a beneficio dei consumatori. Anche qui il papa darebbe la sua benedizione. Ma è un’enorme sciocchezza, e il caso Volkswagen lo dimostra. Il sistema economico tedesco è fortemente statalista: corrisponde a quell’ “economia sociale di mercato” che tanto piace ai sedicenti liberali italici della risma di Mario Monti. Il controllo è ferreo, grazie a una rete di interessi costituiti che vede al vertice i pubblici poteri, e appena sotto potenti sindacati che a loro volta condizionano le scelte aziendali attraverso la cosiddetta “Mitbestimmung”, la codeterminazione, una sorta di soviet alla tedesca, a suo modo esemplare. Il capitale della Volkswagen, privatizzata negli anni Sessanta del secolo scorso, quando in Italia si vaneggiava di pianificazioni e nazionalizzazioni , è però ancora detenuto in misura del 20% dal Land Bassa Sassonia. Controllo pubblico diretto, quindi! Eppure, la buona fede contrattuale non è stata garantita; e, a quanto risulterebbe dalla risposta del ministro competete a un’interrogazione parlamentare di un deputato “verde”, pare che anche il governo centrale sapesse qualcosa dell’inghippo. Lo Stato come paladino della Moralità? Lasciatemi ridere! Come se lo Stato non fosse un’altisonante parola dietro la quale sta il Nulla. Che dico? Stanno una caterva di persone in carne ed ossa, che si trincerano dietro la “legalità” per esercitare i più turpi commerci.