Don Giovanni

La storia si ripete

Correva l’anno 1970. Il giorno 3 di marzo era fissato, al Conservatorio di Milano, per la Società del Quartetto, un concerto dell’ancor giovane ma già celeberrimo  Maurizio Pollini, in un programma dedicato a Chopin. Quando il pianista, atteso con impazienza da un pubblico che lo apprezzava per le sue doti artistiche, si presentò alla ribalta, prima di sedersi alla tastiera volle pronunciare qualche parola per deprecare i recenti bombardamenti di Hanoi, in quella guerra del Vietnam dove gli Stati Uniti erano impelagati da qualche decennio, dalla quale sarebbero usciti sconfitti, ma senza troppo disonore, qualche anno dopo, grazie alla diplomazia di Henry Kissinger, Segretario di Stato della presidenza Nixon. L’inaspettato fervorino politico, che aveva un chiaro orientamento di sinistra, colse di sorpresa gli spettatori, appartenenti in gran parte alla borghesia medio-alta di tendenza moderata. Partì subito una salva di fischi e di boati. Il concerto venne sospeso. Il giorno dopo, le reazioni degli opinionisti furono di varia natura, a seconda delle diverse posizioni politiche. C’era chi, come Indro Montanelli, giustificava l’atteggiamento del pubblico, sostenendo che se uno entra in una sala da concerto ha tutto il diritto di rifiutare di assistere a un comizio, allo stesso modo in cui, se uno intende ascoltare un comizio in piazza, ha buone ragioni di irritarsi qualora  l’oratore si metta a suonare la chitarra. C’era chi invece, come Giuliano Zincone, sosteneva il contrario: il pubblico non può trattare un attore o un musicista da servo; deve riconoscergli, oltre alle doti di interprete, un cuore umano nutrito di  sentimenti, che deve poter manifestare in ogni occasione, anche quando sembrino del tutto estemporanei. Io non avrei né fischiato né applaudito. Avrei aspettato che l’illustre pianista terminasse la sua predica, poi avrei ascoltato con la massima attenzione la sua interpretazione musicale, e alla fine avrei espresso un giudizio su quella, nei modi che da sempre si usano in teatro. Probabilmente avrei applaudito fino a spellarmi le mani: avevo ascoltato Pollini dal vivo, in un teatro di provincia, qualche anno prima, sempre in un programma chopiniano, e ne ero rimasto entusiasta. Probabilmente l’incanto si sarebbe ripetuto. Della guerra del Vietnam, in quel momento, non me ne importava un fico secco. Perché far polemiche, guastando la gioia di un bel concerto? Un’enorme stupidità. Un episodio per molti aspetti simile, anche se in circostanze e per motivazioni completamente diverse, è capitato in questi giorni. Lo scenario non è più il Conservatorio di Milano, ma la Sala Biagi  di Bologna. Il concerto ha come protagonista non un grande interprete della letteratura pianistica, ma un violoncellista di vaglia, Mauro Valli, uno dei fondatori  della raffinata Accademia Bizantina. Il programma è dedicato a composizioni di Gabrielli e di Bach. Tutto fila liscio fino al termine, ma a questo punto il musicista, rivolto agli spettatori, dichiara di non volersi più esibire in pubblico perché considera l’obbligo del “green pass”, imposto a chi vuol lavorare e a chi vuol frequentare cinema, teatri, sale da concerto, come un intollerabile ricatto lesivo delle libertà costituzionalmente garantite. La reazione questa volta è duplice:  una parte minoritaria dei presenti accenna a un timido applauso, subito coperto dai fischi e dai boati della maggioranza. Il comportamento dei dissidenti, in questo caso, è molto meno giustificabile di quello tenuto, nel lontano 1970, dal pubblico della Società del Quartetto davanti all’inattesa iniziativa di Pollini. Allora si poteva sostenere che la guerra del Vietnam con il concerto dedicato a Chopin non aveva nulla da spartire. Nel caso odierno, invece, il rapporto tra la protesta del musicista e l’attività concertistica è inoppugnabile. Il “green pass” è un fastidio per gli interpreti e un fastidio per gli spettatori. Dichiarare la propria contrarietà a una simile disposizione di legge proprio alla fine di un concerto non ha  niente di inopportuno e di estemporaneo. Chi ha applaudito ha fatto bene ad applaudire. E chi ha fischiato? Era anche lui nel pieno diritto di farlo. Il consenso e il dissenso,  a teatro e in piazza, si manifestano da sempre, in piena libertà, rispettivamente con gli applausi e con i fischi. Quel che dà fastidio, invece, è il commento degli opinionisti di oggi. Al tempo della vicenda Pollini erano equamente divisi fra pro e contro: allora la separazione fra destra e sinistra, moderati e progressisti, anticomunisti e comunisti era abbastanza netta, e le due posizioni tutto sommato si equilibravano. Oggi non è più così. I sedicenti progressisti sono diventati fascisti e, come al tempo del Fascismo storico, hanno dalla loro parte tutta la grande informazione, che inneggia al nuovo Duce Mario Draghi e ai provvedimenti liberticidi votati da un parlamento bulgaro prono ai voleri di un governo che continua a far strame della Costituzione. Il povero Mauro Valli viene subito bollato come un no-vax e messo nel novero di quei pericolosi terroristi che ogni sabato manifestano nelle piazze delle città italiane, prendendosi le manganellate e i getti d’acqua gelida delle Forze del Disordine al servizio  della ministra Lamorgese e dei suoi repellenti questori. Il pubblico berciante ha gridato al musicista di vergognarsi, perchè dimentica i morti di Covid? Ha fatto benissimo, anche se i morti di Covid sono da imputare non ai cosiddetti no-vax, ma alla politica criminale del ministro Speranza, sostenuta prima dall’inetto Conte, poi dal luciferino Draghi. Sapete che vi dico? La Storia si ripete, ma in peggio. Gli anni Settanta dello scorso secolo non erano per niente belli, ma quelli che stiamo vivendo  sono repellenti. E siamo soltanto all’inizio. Come ha detto Giorgio Agamben, il colpo di Stato non è in preparazione, è già avvenuto. Se Draghi arriverà alla Presidenza della Repubblica, la sua missione sarà compiuta. E’ stato Governatore della Banca d’Italia, poi Presidente della BCE, secondo gli auspici dei burattinai internazionali. “Due vaticini compiuti or sono, mi si promette dal terzo un trono” canta Macbeth nell’Opera di Verdi che inaugurerà la stagione della Scala. Se Draghi sarà presente all’evento, accanto a Mattarella, potrà rispecchiarsi nel terribile feudatario aspirante al trono di Scozia. Non avrà bisogno di far fuori fisicamente il re Mattarella, come quello fece fuori il re Duncano, perché Mattarella finirà tra breve il suo mandato né pare abbia voglia di ricandidarsi. Ambizioso spirito tu sei, Draghetto. Posso solo augurarti la brutta fine che ha fatto quell’altro. 

Giovanni Tenorio

Libertino

Un pensiero su “La storia si ripete

  • Alessandro Colla

    Anche il cinquantunenne pesarese Mario Mariani, pianista e compositore, ha annullato i suoi concerti dal vivo per la stessa ragione. Onore a tutti e due. Se dovessero salvarci i musicisti del versante adriatico, occorrerà dedicar loro un’intera stagione.

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