Don Giovanni

“Corruptissima re publica, plurimae leges”

“Corruptissima re publica, plurimae leges”, quando lo Stato era del tutto marcio, le leggi si moltiplicavano. Tacito parlava dei tempi delle guerre civili a Roma, ma la massima vale per ogni epoca. E’ chiaro che l’ordinamento giuridico di una società moderna deve essere più complesso di quello dei tempi passati, quando la vita era più semplice, i rapporti umani più immediati, l’economia più statica, le innovazioni tecnologiche più lente. Rimane vero però che anche per il sistema delle leggi dovrebbe valere sempre quello che, sul piano epistemologico, si chiama “rasoio di Occam”: non sunt multiplicanda entia sine necessitate. Inutile, anzi spesso dannoso, introdurre nuovi princìpi laddove non sono necessari. Sostituiamo “princìpi'” con “norme” e il gioco è fatto. 

Vogliamo fare qualche esempio? Prendiamo il cosiddetto “femminicidio”. Prendendo per vere le statistiche secondo cui sono più le donne vittime dei maschi che i maschi vittime delle donne (e sono il primo a non metterle in dubbio, lo dico senza ironia; anche se io, che sono una canaglia, di donne non ne ho mai uccise, ma solo il padre di una di loro, che se l’è cercata), si è ritenuto opportuno introdurre una fattispecie particolare di reato  al fine di ridurre il fenomeno. Con quale risultato? Nessuno. Tutto è rimasto come prima. Era proprio il caso di complicare ulteriormente il sistema penale? Proprio no. Il reato di omicidio era già ben distinto in tutte le sue possibili manifestazioni. C’è l’omicidio colposo, l’omicidio preterintenzionale, l’omicidio volontario, addirittura il tentato omicidio. Ognuno di questi può essere specificato da attenuanti o aggravanti. Che si vuole di più? “Omicidio” non vuol dire uccisione di un maschio, ma di un essere umano. Al genere “Homo” appartiene anche la donna. E allora? Ferme restando le aggravanti o le attenuanti dei singoli casi, uccidere un maschio o una femmina dovrebbe essere la stessa cosa. Se l’uccisione di una donna è avvenuta per motivi particolarmente abietti, la pena può essere aggravata. Basta e avanza. Il Codice Rocco è fascista, ma in questo non è maschilista. Era maschilista quando vigeva la norma (abrogata, per fortuna, ma troppo tardi, nel 1981)  del cosiddetto “delitto d’onore”, che comminava pene meno severe a chi uccidesse una donna per motivi di gelosia. Aver tolto di mezzo quell’obbrobrio è stato un atto di civi lltà. Si è resa giustizia alle donne, abrogando una norma discriminatoria, “per via di levare”, non “per via di mettere”. Quando è possibile (talvolta la “via di mettere” può essere necessaria) dovrebbe essere sempre così. 

Ritengo invece del tutto controproducente l’introduzione delle cosiddette “quote rosa”. Prima di tutto perché una discriminazione a rovescio, anche se a fin di bene, è sempre una discriminazione. Tra l’altro, fa a pugni con l’art.3 della Costituzione, che non mi risulta ammetta deroghe: se in un concorso una donna passa davanti a un maschio solo perché femmina, la discriminazione è palese. So già che qualcuno confuterà la mia affermazione citando il secondo comma del medesimo articolo: la Repubblica ha il compito di rimuovere tutti gli ostacoli alla piena eguaglianza, quindi ben vengano le “quote rosa”. Facciamo finta che abbia ragione. Non esistono già molte norme antidiscriminatorie che tutelano l’eguaglianza “di genere”, come si dice oggi (confondendo sesso e grammatica)?Basta applicarle rigorosamente. Con le “quote”, invece, si rischia di promuovere persone incapaci e si pongono le basi per intralci all’attività economica e contenziosi d’ogni tipo. Con quale risultato? Che sono premiati i migliori, anzi le migliori? Tutto da dimostrare. 

E dell'”omicidio stradale” che cosa si può dire? Né più né meno di quello che abbiamo detto per il femminicidio. Basta applicare la norma relativa all’ omicidio colposo”, magari con le aggravanti, e forse, in qualche caso, quella dell’omicidio preterintenzionale.

Un altro modo aberrante per complicare senza motivo il sistema giuridico è quello di introdurre nuovi presunti “diritti”. Il diritto è una pretesa, ma non ogni pretesa può essere diritto. Alcuni cosiddetti diritti non sono neanche pretese. Prendiamo i “diritti degli animali”. Premetto che nessuno più di me aborre le violenze gratuite compiute nei confronti degli animali. Non mi piace la caccia (i fagiani che mangio non li uccido io: ammetto di essere un po’ ipocrita), non mi piace la pesca come divertimento, deploro certi allevamenti intensivi, ho un grande rispetto per i vegetariani, un po’ meno per i vegani, che mi sembrano estremisti. Giusto punire chi maltratta gli animali. Ma quando qualcuno mi viene a dire che i “diritti degli animali” dovrebbero essere scritti nella Costituzione, mi si rizzano i capelli. Gli animali non avanzano nessuna pretesa, che tra l’altro implica il principio di reciprocità! Se lo facessero, il gatto dovrebbe astenersi dall’ uccidere il topo, così come l’uomo deve astenersi dall’uccidere il gatto (ma perché, invece, il coniglio sì? No, neanche il coniglio!)E la signora Maria Vittoria Brambilla, animalista DOC, dovrebbe disfarsi delle azioni che possiede di una certa società di commercio ittico. O i pesci non sono animali? O si può pescare per mangiare ma non per divertirsi? Così i presunti diritti, degli animali, a forza di eccezioni, si sgretolano! Ma, a parte questo, vogliamo correre verso un sistema in cui, a poco a poco, saremo costretti per legge a diventare tutti vegetariani, o magari vegani? Pare sia stato Leonardo da Vinci  (ma non è del tutto sicuro) a dichiarare che si raggiungerà la piena civiltà solo quando uccidere un animale sarà considerato un delitto come uccidere un essere umano. Principio nobilissimo. Mi sta bene che, prima  poi, si arrivi a una società vegetariana: spontaneamente, però, non a suon di leggi che si moltiplicano, ora proibendo questo, ora proibendo quello. Purché qualcuno, poi, non tiri fuori i “diritti delle piante”, che potrebbero avere qualche giustificazione perché, a quanto si dice, anche le piante soffrono. Non ci resterebbe che morire di fame. A meno che non si ricorra a cibo sintetico, ma partendo da che cosa? Forse dalla merda, che però deriva pur sempre da materiale organico. Chissà, le vie del Signore sono infinite.

Si dovrebbe riflettere su quest’altro punto: introdurre nuovi “diritti” significa anche introdurre, come corrispettivo, nuovi doveri: quindi ancora nuove leggi.  Prendiamo il caso dell’omosessualità. Certo che gli omosessuali non vanno discriminati! Certo che devono poter scegliere liberamente il tipo di sessualità che prediligono! Certo che le coppie omosessuali devono essere protette come quelle etero! Ma tutto questo è già garantito dalla legislazione ordinaria. Per nostra fortuna il Codice Rocco non contempla il reato di omosessualità. qualcuno dice che la scelta è dovuta al fatto che il Fascismo non poteva neppur lontanamente ammettere l’esistenza di omosessuali nel Bel Paese. Può essere, ma rimane il fatto che, invece, nel civilissimo Regno Unito il povero Alan Turing fece una brutta fine proprio perché accusato di omosessualità. Non nel Medio Evo, ma nel 1952. L’altro ieri.

Detto questo, è opportuno introdurre il diritto all’omosessualità e, come conseguenza,  il reato di omofobia? Proprio no. Se uno offende un omosessuale, la Legge punisce già l’ingiuria a querela di parte. Basta questo. Il resto, è reato d’opinione, odioso quanto si vuole, ma pur sempre incompatibile con un ordinamento liberale. Si corre il rischio di censura. Qualcosa di simile sta capitando in tutto il mondo cosiddetto civile. Anche in questo, i civilissimi Stati Uniti hanno fatto da apripista. Il Regno Unito segue a ruota. Gli altri stati liberal-democratici ne diventano emuli. Si censurano addirittura i classici quando esprimono qualche pensiero omofobo o presunto tale. Prima o poi dalle edizioni scolastiche della Divina Commedia sarà espunto il Canto di Brunetto Latini. Nelle edizioni del Nuovo Testamento si cancelleranno le pagine delle Lettere di San Paolo dove si dice peste e corna degli “arsenokoitai” , ovverossia i culattoni. E via di questo passo. Il disegno di legge Zan è obbrobrioso non per il suo intento di proteggere i sessualmente diversi, che le leggi ordinarie, se ben applicate, già proteggono, ma perché introduce nuovi reati d’opinione, come se non ne avessimo già abbastanza (pensate al reato di “Negazionismo”: qui si dovrebbero aprire pagine e pagine, ma per ora non è il caso).

Vorrei concludere parlando di qualcosa di molto più serio: la questione del cosiddetto “utero in affitto”, orrida espressione per indicare la gravidanza surrogata. Metterla fuori legge? Ma, scusatemi, è già fuori legge. Vendere un essere umano si può soltanto in un sistema schiavistico. Lo so che qui il problema si complica anche per chi si dichiara anarchico. Un anarco-capitalista alla Rothbard potrebbe osservare che, secondo il Maestro, dovrebbe esser lecita la vendita di bambini. In questo modo, un bambino che nella sua famiglia d’origine potrebbe trovarsi a disagio per motivi di povertà o d’altro tipo, avrebbe l’opportunità di andare a star meglio, in una famiglia che lo ama e gli prodiga tutte le cure. Io lo trovo obbrobrioso. Ma, in quel caso, si tratterebbe almeno di bambini già nati  secondo natura. Nel caso, invece, della maternità surrogata, un bambino viene, in un certo senso, fabbricato su commissione. Una volta uno diventava schiavo perché figlio di schiavi, o perché catturato in guerra o per altri atti di brutale sopraffazione. Oggi invece gli schiavi si fabbricano.

Io non vorrei vivere nella Russia di Putin. Però quando, sulle orme del suo ideologo Alexandr Dugin l’autocrate russo dichiara che l’Occidente è marcio e sull’orlo della decadenza, forse non gli si può dare torto del tutto. E non credo proprio che si possa salvare per l’intercessione della Madonna, come sperano Sua Beatitudine Alessandro Meluzzi e Sua Eminenza Carlo Maria Viganò.

Giovanni Tenorio

Libertino