Censura statale e censura privata sono la stessa cosa: censura pubblica.
Ha fatto tanto scalpore l’oscuramento del discorso di Trump decretato da Twitter. Inevitabile lo sconcerto, dato il rilievo politico del personaggio coinvolto e l’eccezionalità del fatto in sé: non era mai capitato, non solo nella Storia degli Stati Uniti, ma nella Storia del mondo, che fosse un privato a censurare le parole di un personaggio pubblico posto a capo di una sistema politico dotato di enormi poteri coercitivi. Di solito capita il contrario. E’ il pubblico a censurare il privato, proprio facendosi forte dei poteri d’imperio di cui dispone, a fronte di un avversario solitamente disarmato. Secondo un vecchio adagio del giornalismo, un cane che morde un uomo non fa notizia, un uomo che morde un cane sì. Ecco, nel nostro caso siamo di fronte a qualcosa di simile a un uomo che morde un cane. Qualcuno ha plaudito all’iniziativa, perché il discorso del presidente uscente sarebbe stato un vero atto di istigazione alla violenza. Altri invece l’hanno condannata in nome della libertà di pensiero, che, come le altre libertà conquistate a duro prezzo nel corso dei secoli, dovrebbe essere considerata fra i principi cardinali dei sistemi democratici. Altri ancora, senza entrare nel merito delle parole pronunciate dl presidente, o giudicandole irrilevanti di fronte all’imprescindibilità dei proincipui liberali, benché ritenute deprecabili sotto l’aspetto etico-politico, hanno sostenuto che un privato deve poter decidere, sulla base delle proprie idee e dei propri gusti, fossero anche semplici capricci, quali notizie diffondere e quali no, a che cosa dar voce e a che cosa no, sui mezzi di informazione di cui è proprietario. Al che più di uno ha replicato che un conto è un editore, il quale davanti alla legge è responsabile di tutto quanto pubblicano i suoi dipendenti, un conto una piattaforma digitale, che è come una palestra dove ciascuno può (o dovrebbe potere) esercitarsi a suo piacimento senza vincoli fissati da un’autorità superiore, assumendosi di persona ogni responsabilità nel caso che i suoi interventi configurino qualche reato.
Chi ha ragione? Tutti e nessuno, perché penso che il problema sia mal posto. Vale dunque la pena di reimpostarlo. Innanzitutto bisogna allargare lo sguardo. Il problema della censura sulle piattaforme digitali è diventato davvero preoccupante, e riguarda tutti, non soltanto i soggetti di maggior spicco. Si ha perfino l’impressione che dopo la censura a Trump si sia aggravato in non lieve misura. C’è un nesso fra i due fenomeni? Difficile dirlo. Il principio “post hoc, ergo propter hoc” porta spesso a conclusioni fallaci. ll sospetto, comunque sia, rimane lecito. Ma ai nostri fini importa poco. Vediamo invece un esempio di censura che, per la limitata notorietà di chi ne è stato oggetto, non ha suscitato alcuna polemica al di fuori di un ambito molto circoscritto della pubblica opinione. “Finanza in chiaro” è un sito su Youtube curato da Giancarlo Marcotti, un esperto di econometria che quasi quotidianamente pubblica un video dove commenta fatti di attualità relativi non soltanto alla borsa, alla finanza e all’economia, ma anche alla politica interna e internazionale, nonché a tutti quegli avvenimenti che possano avere qualche interesse per la loro incidenza sulla vita quotidiana di tutti. E’ una persona garbata, parla molto bene, espone i suoi pensieri con chiarezza, sa essere ironico senza mai scadere nella polemica pesante. Si può non essere d’accordo sulle sue posizioni, ma merita il massimo rispetto per la sua correttezza e la sua urbanità. In questi ultimi giorni ha diffuso la notizia – taciuta, o riportata con scarsissimo rilievo dalla maggior parte dei canali di informazione più seguiti – delle 23 persone anziane decedute in una casa di ricovero della Norvegia dopo la somministrazione del vaccino anti-Covid della Pfizer – BioNtech. Non ha aggiunto nessun commento, limitandosi a riportare quanto dichiarato da fonti ufficiali come il Ministero della Salute e l’Agenzia del Farmaco di quel Paese. Ha ricevuto dalla proprietà di Youtube un avvertimento, in cui gli si contesta la violazione delle norme di comportamento fissate nel contratto di iscrizione alla piattaforma, con la minaccia di sospensione e anche di bando definitivo in caso di recidiva. Il ricorso contro il provvedimento è stato respinto senza una motivazione. Non ci si può che chiedere: perché? Che cosa c’è di scorretto nel diffondere una notizia vera, ricavata da fonti ufficiali senza togliere o aggiungere una virgola? Sarà un caso il fatto che, in questi ultimi mesi, vengono bandite da varie piattaforme tutte le informazioni relative alla pandemia in corso e alla campagna vaccinale da poco iniziata se vanno in controtendenza, avanzando qualche dubbio, per esempio (ma è solo uno fra tanti) sull’efficacia e sulla sicurezza della terapia genica? Ma anche questo esula dalle nostre presenti considerazioni. Il nostro discorso è un altro. Non si tratta più di stabilire se è giusto o no, per una piattaforma privata, censurare il discorso di un uomo politico ritenuto pericoloso per i suoi toni sovversivi. La domanda è questa: può un privato esercitare la censura, per qualsiasi ragione, contro un qualsiasi soggetto, grande o piccolo? Facile rispondere: un privato deve poter fare quello che vuole. Ma se una piattaforma, per le sue estese dimensioni, è diventata così pervasiva da acquisire rilevanza pubblica? Che cosa succederebbe se un solo privato, o un’oligarchia di privati, controllasse tutte le fonti di informazione e tutte le “palestre” di pensiero? Sarebbe una situazione molto diversa da quella di uno Stato totalitario che può controllare tutto quanto si pubblica? No. Una proprietà estesa a tutto il mondo non è diversa da uno Stato totalitario. Anzi, direi che le due cose coincidono. Uno Stato totalitario è uno Stato che esercita senza limiti il suo diritto di proprietà su ogni bene esistente, e in modo particolare sulle fonti di informazione. Ecco dunque che, ancora una volta, la contrapposizione pubblico-privato è sviante. Dire che il privato è sempre buono e bello è un errore. Un privato monopolista non è mai né buono né bello. Un privato che possegga tutti i beni del mondo diventa un dittatore. Quello che conta è un mercato veramente libero, dove non ci siano barriere all’ingresso e quindi i monopoli o non si formano o, se si formano, non possono durare a lungo. La proprietà privata, per il mercato, è condizione necessaria, ma non sufficiente. Purtroppo a impedire la costituzione di un mercato veramente libero è proprio la presenza di un soggetto pubblico. Quel soggetto pubblico che all’inizio favorisce la formazione di grandi conglomerati industriali, con una legislazione di sostegno, con l’allestimento, a carico dell’imposizione tributaria, di strutture idonee a determinati investimenti piuttosto che ad altri, con l’introduzione di dazi, barriere doganali, brevetti, e con interventi fiscali di vario genere da cui derivano condizionamenti alle scelte di imprenditori e consumatori che altrimenti evolverebbero verso altri esiti (per non parlare di un sistema bancario subordinato a un un istituto d’emissione monopolistico che, manipolando la moneta, distorce i tassi d’interesse alterando le scelte di investimento); poi, quando si forma una situazione di monopolio, con tutte le sue conseguenze negative sul livello dei prezzi e l’allocazione delle risorse, cerca di sanarla con la legislazione anti-trust, che spesso si rivela un rimedio peggiore del male.In somma, capitalismo e Stato vivono sempre in simbiosi. E’ successo così al tempo della prima e della seconda rivoluzione industriale, quella del carbone e quella dell’elettricità, succede così con quella dell’elettronica e dell’informatica. Se non sbaglio, Internet nasce in ambiente militare. Colossi come Facebook, Google (e connesso YouTube), Amazon non si sarebbero mai potuti costituire nelle forme e nelle dimensioni che hanno raggiunto senza sostegni pubblici e legislazioni di favore , allo stesso modo in cui, negli USA, non si sarebbero potuti formare, nella seconda metà dell’Ottocento, grandi conglomerati industriali in assenza di investimenti pubblici per la costruzione di strade e ferrovie transcontinentali. Il guaio è questo: che se a produrre le scarpe è un monopolista, si avranno scarpe brutte a prezzi elevati; se le fonti di informazione sono nelle mani di un monopolista, è la libertà di pensiero e di parola a farne le spese. Rothbard diceva che, per poter esercitare la libertà di parola, diffondendo il proprio pensiero, uno deve acquistare una sala dove accogliere il pubblico, o prenderla in affitto. Giusto, ma se tutte le sale di questo mondo sono nelle mani di un unico proprietario, questo non mi vende e non mi affitta nemmeno un bugigattolo se sa che ho intenzione di usarlo per parlar male di lui o dei suoi soci in affari. Per tornare al povero Marcotti, se le grandi case farmaceutiche controllano Google finanziandola lautamente con il compenso per gli inserti pubblicitari, è evidente che Google non può permettere che si getti il discredito su Pfizer-BioNtech, anche se le notizie che la riguardano sono vere e certificate. Per ora è possibile ricorrere ad altri canali informativi. Un minimo di concorrenza esiste e resiste. In futuro staremo a vedere. Come rimedio si invocano leggi per garantire la libertà di parola, contro censure ingiustificate messe in atto anche da privati. Faranno la fine delle legislazioni antitrust. Un rimedio peggiore del male.In quanto monopolista per eccellenza, uno Stato che garantisce la libertà è una contraddizione in termini.
Non mi sono mai posto il problema di differenziare censura pubblica e censura privata, forse a causa della mia considerazione per lo Stato, paragonabile a una banda di criminali (quindi di privati in associazione, come una azienda o una mafia, se non consideriamo la prospettiva morale), che impone con la violenza la propria legge, forte del numero più che del valore. Qualsiasi problema di “espressione” è quindi pubblico perché riguarda la pluralità delle persone, ma privato se consideriamo il ruolo dei censori, perché scompare l’illusione di una entità superiore equidistante, della cui censura ci si meraviglia meno in nome del discutibile bene comune. La censura è quindi la stessa indipendentemente da chi la pratica: un gesto di difesa di chi, implicitamente, ammette la forza (non necessariamente la correttezza) delle parole del censurato.