Stato, Cattolicesimo e Islam: tre religioni minacciano la scuola.
Qualche decennio fa, in un istituto scolastico superiore di una località italiana, un gruppo di insegnanti cattolici praticanti chiese alla direzione didattica – e ottenne – il permesso di disporre di un’aula, al di fuori dell’orario riservato alle lezioni, per riunioni da dedicare alla preghiera e alla meditazione. Si accese subito una polemica, fomentata da un altro gruppetto, nell’indifferenza dei più, che si opponeva alla concessione, nel nome della laicità della scuola pubblica. La controversia si risolse in una bolla di sapone. I dirigenti rimasero sulla loro posizione, rifiutandosi di revocare il permesso. Il Collegio dei Docenti, investito della questione, vide i contrapposti schieramenti azzuffarsi tra la noia generale, senza arrivare a nessuna deliberazione. Il Consiglio d’Istituto si schierò dalla parte della dirigenza. Risultato: i cattolici praticanti continuarono a riunirsi a pregare e a meditare, quegli altri continuarono a mugugnare, la maggioranza continuò saggiamente a disinteressarsi della questione di principio, considerando che, comunque si volesse deliberare, per loro la vita scolastica sarebbe continuata come prima.
Era un po’ buffa, quella controversia, che verteva intorno al tema della laicità dello Stato e – come diretta conseguenza – della scuola pubblica. Un po’ meno buffa la recente questione, salita agli onori della cronaca e oggetto di accalorate discussioni in vari dibattiti, nata dalla decisione di sospendere le lezioni, in un istituto scolastico di Pioltello, in occasione della festa conclusiva del Ramadan, per consentire agli alunni di fede islamica, molto numerosi, di celebrare la ricorrenza. In questo caso, ci si è accapigliati facendo appello , da un lato, ai principi dell’accoglienza, dell’integrazione, dell’eguaglianza, del rispetto di tutte le confessioni religiose, dall’altro a quello della laicità dello Stato, e quindi della scuola. Chi ha ragione? Secondo me, sul piano argomentativo, né gli uni né gli altri, perché il problema è mal posto. Sul piano pratico, invece, la giornata di festa per il Ramadan può essere opportuna, a patto che le ore di lezione perdute si recuperino in un altro momento.
Perché dico che le argomentazioni sono sbagliate? Perché partono da un presupposto sbagliato: che l’Italia sia un Paese laico e laica, di conseguenza, la sua scuola L’Italia non è un Paese laico, perché nella sua Costituzione, purtroppo, c’è un macigno difficilmente rimovibile, quel famigerato articolo 7 che così recita:” Lo Stato e la Chiesa Cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi”. Un monstrum giuridico per due motivi: prima di tutto, perché non s’è mai visto un costituzione che riconosce la sovranità di un altro Stato. E’ pensabile, ad esempio, che la Costituzione della Repubblica Italiana riconosca la sovranità della Francia? Può capitare che uno Stato non ne riconosca un altro, all’Onu non tutti gli Stati del mondo sono egualmente riconosciuti da tutti gli altri membri, ma questo è un altro discorso. Nel momento in cui uno Stato X riconosce uno Stato Y che fino a quel momento ha rifiutato di riconoscere, non è che lo dichiari introducendo un nuovo articolo nella propria costituzione! Invece con Santa Romana Chiesa è andata proprio così. Prevengo l’obiezione: Santa Romana Chiesa è un’ istituzione religiosa, non uno Stato. Davvero? Il Santo Padre non è anche il capo supremo della Città del Vaticano? Riconoscere la sovranità di Santa Romana Chiesa significa riconoscere la sovranità della Città del Vaticano. Altrimenti non ci sarebbe bisogno di un particolare privilegio costituzionale. I cattolici sarebbero liberi di professare la loro fede né più né meno delle altre confessioni religiose, che non godono di una loro propria sede territoriale giuridicamente assimilabile a uno Stato sovrano. Basta e avanza l’art.8, che, depurato, al secondo comma, dall’inciso “diverse dalla cattolica”, suonerebbe così : “Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze”. Non c’è bisogno di una parola di più. Come diceva Guglielmo di Ockham, “non sunt multiplicanda entia praeter necessitatem”.
La seconda mostruosità consiste nel fatto che questa presunta rispettiva sovranità, che ognuno dei due soggetti riconosce all’altro, si risolve, nella realtà, in un vulnus alla sovranità dello Stato. Se la Chiesa interferisce nella politica italiana, come ha fatto spesso, e in maniera pesantissima, in passato (negli anni Cinquanta si predicava dal pulpito che chi non votava DC andava alliinferno), nessuno dice niente. Se invece si tocca la Chiesa nel nome della sovranità dello Stato, apriti cielo. Negli anni bui della famigerata pandemia, quando nella Diocesi di Milano si continuava a pretendere che i fedeli durante il rito portassero la mascherina anche dopo la caducazione dell’obbligo, a chi cercava di opporsi al sopruso invocando la legge italiana qualche avvocaticchio arrivò proprio a opporre il Concordato come fonte di legittimazione per l’obbligo ecclesiastico della museruola, quasi si dovesse difendere un principio evangelico (d’altra parte, il Santo Padre non aveva proclamato che vaccinarsi è un segno di carità cristiana? Gesù Cristo deve averlo detto, ma, si sa, allora non c’erano i registratori, mica tutto si poteva scrivere…). Non voglio ripetere quello che ho già detto altre volte sull’aberrazione dell’8 per mille. Ricordo soltanto che, oltre ai proventi dell’8 per mille, Santa Romana Chiesa riceve dallo Stato italiano, ogni anno, a vario titolo, qualcosa come sette miliardi di euro. Si continua a ripetere, ipocritamente, che gli evasori fiscali sottraggono risorse agli ospedali, all’assistenza, alla scuola ecc. ecc. Quando penso che le sottraggono anche alle pretese di Santa Romana Chiesa mi vien voglia di dire che anche loro compiono un atto di carità cristiana: a Cesare quel ch’è di Cesare e a Dio quel ch’è di Dio.
Veniamo ora alla scuola, che non è laica, come si diceva, proprio perché lo Stato non è laico. tant’è vero che i programmi di studio contemplano anche l’insegnamento della Religione Cattolica. Perché non di quella ebraica, di quella islamica, di quella buddhista, o induista, o confuciana? Perchè non quella dei Testimoni di Geova? Perché in Italia sono (quasi) tutti cattolici! E quei pochissimi che tali non sono possono chiedere di non avvalersi dell’insegnamento religioso cattolico, per frequentare corsi di materie alternative (da appioppare, per completamento d’orario, a qualche malcapitato insegnante, che sì arrangia come può).Tutti cattolici? No, tutti battezzati. Perché poi a messa ci vanno ormai solo quattro gatti, che magari confondono l’Immacolata Concezione con la verginità della Madonna, e pensano che la Comunione dei Santi siano i santi che vanno a fare la comunione (ecco perché spiegare Dante a scuola diventa sempre più problematico, a dispetto di quella ridicola boiata che si chiama Dantedì). Che cosa significa”Vergine madre, figlia del tuo figlio”? Oppure, “Chè qui per quei di là molto s’avanza? Boh! Doveva essere sbronzo!). Niente di tutto questo! Si insegna Religione perché c’è il Concordato. Punto e basta (se invece si insegnasse Storia delle Religioni, lasciando, com’è giusto, ampio spazio al Cattolicesimo per l’importanza che ha avuto nella cultura italiana, Dante ridiventerbbe uno di noi).
Ma allora, per concludere: se la scuola non è laica è inutile tirare in ballo la laicità davanti a casi come quello del Ramadan. Sbagliano i “laicisti” a dire che se è laica non si deve riconoscere il Ramadan e sbagliano, e gli “inclusivisti” a dire che se è laica deve includere tutti: se ci sono le festività cattoliche si devono riconoscere anche quelle musulmane. E allora perché anche non il sabato ebraico? E chi più ne ha più ne metta, per non escludere nessuno? Il problema del Ramadan è un problema pratico, non di inclusione o di esclusione, di laicità o di confessionalità, o altri principi astratti del genere. Se la scuola fosse davvero laica, si direbbe: è un dato di fatto che, se facciamo lezione nella festa del Ramadan, metà degli alunni stanno a casa. Sono islamici? Fatti loro. Però così perdiamo tempo per recuperare chi ha perso le lezioni “per motivi di famiglia” (legittimi). Fatti nostri! Non possiamo permetterci, per ragioni didattiche, di avere metà classe in ritardo rispetto all’altra metà. Bene, allora lasciamo a casa tutti, approfittando dei giorni di “festività soppresse” che ogni istituto ha la facoltà di gestire come vuole. Questo non è un cedimento all’Islam! E’ un problema didattico che si può risolvere pragmaticamente, senza togliere nulla a nessuno, svolgendo integralmente le ore di lezione fissate dalla legge I cedimenti sono altri: quando, per esempio, un giudice assolve un genitore che impone il velo alla figlia perché “questa è la loro cultura”. E le femministe zitte, per non apparire islamofobe, razziste, suprematiste, ecc. ecc. Mi viene in mente quell’aneddoto che molti anni fa il compianto Piero Ostellino riportò, se non vado errato, nella rubrica “Il dubbio” , di cui era titolare sul “Corriere della sera”. In India, al tempo del governo coloniale inglese, un alto dignitario locale pretendeva che una vedova salisse sul rogo del marito defunto” perché -diceva- questa è la nostra consuetudine”. Risposta del funzionario britannico: “E invece è nostra consuetudine impiccare chi manda sul rogo le vedove”.
Sono inciampato nella scuola per diversi motivi e con diversi ruoli (alunno, genitore, insegnante, consulente tecnico esterno, …) negli ultimi 40 anni: il problema dell’ingerenza Cattolica (e quindi di quella Islamica, che punta evidentemente al modello del Concordato) sollevato da Don Giovanni è un peso significativo. Come se non bastasse, non sono solo due le religioni che si contendono il controllo della scuola (quindi la formazione culturale delle prossime generazione ma anche un grande serbatoio di “posti” di lavoro e di potere di spesa): ne esiste una terza. Quando la scuola non celebra il Ramadan, la Quaresima o l’ora di religione (spesso affidata a personaggi ambigui quando non viscidi), è una assemblea intenta nella celebrazioni della liturgia dello Statalismo più arrogante e esplicito.
Più che “storia delle religioni” sarebbe opportuna una conoscenza dei contenuti delle varie dottrine. Non tanto attraverso la storia, perché già solo quella del cristianesimo porterebbe via un numero di ore eccessivo. Per la parte storica c’è già la disciplina della storia ufficiale che in occidente non può prescindere dallo sviluppo del cristianesimo.
Sono sostanzialmente d’accordo: quel che conta sono i contenuti delle diverse dottrine religiose. Ma parlavo di “Storia delle Religioni” allo stesso modo in cui, nei programmi scolastici, si parla di “Storia della Filosofia”: dove quel che conta non è la biografia dei singoli filosofi, ma il loro pensiero. D’altra parte, come non è possibile comprendere isolatamente il pensiero di un filosofo senza conoscerne i precedenti, anche nei loro risvolti politici e sociali, così non è possibile, ad esempio, comprendere il Cristianesimo di oggi senza percorrerne la lunga e spesso tormentata evoluzione, strettamente intrecciata alle vicende politiche, partendo dalla sua genesi, quando si divarica dall’ebraismo assorbendo le decisive istanze del pensiero platonico, nella temperie eclettica e cosmopolita del mondo ellenistico, ormai confluita nella politica universalistica dell’Impero Romano (senza di che, il Cristianesimo sarebbe rimasto una setta ebraica). Un altro esempio: per capire la differenza tra Sunniti e Sciiti nell’Islamismo d’oggi, è inevitabile risalire alle vicende successive alla morte di Maometto. Anche il monoteismo ebraico, per essere compreso, necessita di un esauriente quadro storico, che ne chiarisca la genesi (ancora problematica). Un’ultima osservazione: anche l’Ateismo deve trovar posto in una “Storia delle Religioni”, non tanto come istanza contrapposta alle religioni, quanto come religione esso stesso, incardinato com’è sul dogma della non esistenza di Dio, indimostrabile come il suo opposto. Anche in questo caso, il discorso storico, dall’antichità ad oggi, rimane imprescindibile.