Don Giovanni

Proprietà intellettuale: un sistema di rendite da superare

L – Caro padrone, la settimana scorsa ho cercato di collegarmi con Wikipedia, e ho scoperto che il servizio era sospeso, per protesta.
DG – Non avrei giammai creduto che tu fossi un frequentatore di Wikipedia.
L – No, solo ogni tanto, per chiarire qualche dubbio
DG – Mi fa piacere, Wikipedia è una gran bella invenzione, purché sia ben chiaro che la vera cultura continua ad aver dimora nei libri e nelle enciclopedie tradizionali.
L – Un mio amico ha svenduto per pochi soldi l’Enciclopedia Italiana, perché “ora, con Wikipedia, non serve più”?
DG – Bell’imbecille! Uno così, ci scommetto, l’Enciclopedia Italiana la teneva in salotto per bellezza, ma non l’ha mai sfogliata.
L – Per i vini, sono d’accordo con voi. Quanto ai libri, non so. Torniamo a Wikipedia: a cosa era dovuta la protesta?
DG – Si protestava contro la proposta di legge europea che voleva rendere più severe le norme sulla proprietà intellettuale. Per fortuna, almeno finora, non se n’è fatto niente. E’ vero che i servizi in rete tipo Wikipedia erano esplicitamente esclusi, ma il pericolo che prima o poi l’esclusione venga a cadere è reale. Non si tratta di difendere il proprio orticello. E’ una questione di principio. La proprietà intellettuale è un’invenzione truffaldina, allo stesso modo della riserva frazionaria. Un sistema come un altro per generare rendite, frenare la concorrenza, gonfiare i prezzi, favorire le posizioni oligopolistiche e monopolistiche.
L – Sulla riserva frazionaria sono d’accordo con voi. Ma non mi pare giusto che chi inventa qualcosa non debba essere tutelato: dopo tutto, l ‘invenzione è sua, in un certo senso ne è proprietario.
DG – In un certo senso, dici tu. In che senso? La proprietà o è o non è. Non può essere a metà, anche se le legislazioni attuali e la stessa costituzione tendono a degradarla, in molti casi, a mero interesse legittimo, per motivi di pubblica utilità. Avevano ragione gli antichi romani, che la qualificavano come “Jus utendi et abutendi”, intoccabile.
L- Che dire allora del povero Virgilio, che si vide requisire da Augusto i suoi terreni nel Mantovano, perché fossero assegnati ai veterani? Motivo di pubblica utilità anche quello?
DG – Lo Stato è sempre canaglia. Anche lo Stato romano era canagliesco. Fortunatamente il diritto consuetudinario riuscì a frenarne per molto tempo, anche in epoca imperiale, lo strapotere.
L – E i Gracchi? Non volevano portar via le terre ai ricchi per darle ai poveri?
DG – No, caro amico. L’aristocrazia senatoria si era impossessata di terre che le toccavano a titolo di concessione, non di proprietà; e in misura abnorme. Con buona pace di Cicerone, che li esecra, i Gracchi non avevano tutti i torti. Ma non divaghiamo. Torniamo alla proprietà intellettuale, che è un’invenzione moderna. Se fosse una vera proprietà, potrebbe estinguersi solo per volontà (o negligenza) del titolare, allo stesso modo in cui un bene può divenire disponibile per derelizione, o essere acquisito da un altro soggetto per usucapione. Invece la proprietà intellettuale ha una durata limitata, definita dalla legge. Un non senso! Se io sono titolare di un “copyright” o di un brevetto come sono titolare di un bene mobile o immobile, devo poterlo vendere quando e come voglio, regalarlo, lasciarlo in eredità, senza scadenze temporali. La proprietà intellettuale è un privilegio che il liberalismo classico ha sempre guardato con sospetto. Basta leggere quello che Einaudi dice a proposito dei brevetti.
L – In somma, uno non è padrone delle proprie invenzioni!
DG – Fin che le sue invenzioni stanno dentro la sua testa, ne è padrone. Quando in un modo o nell’altro diventano pubbliche, sono di tutti. Non sono più merce scarsa. La proprietà si giustifica proprio in conseguenza della scarsità. Se tutti i beni fossero illimitati, non avrebbe senso. Il comunismo sarebbe l’unico sistema valido, sotto ogni aspetto. Nel Paradiso Terrestre saremmo tutti comunisti. Lo stesso Marx pensava che il comunismo si sarebbe stabilito nel momento in cui il sistema capitalistico fosse entrato in crisi dopo aver fornito all’umanità la tecnologia capace di produrre beni in abbondanza per tutti.
L – Il vostro ragionamento mi lascia perplesso. Penso al povero Antonio Meucci, che si vide rubare l’invenzione del telefono da quella canaglia di Alexander Graham Bell.
DG – Guarda che con l’esempio di Meucci ti tiri la zappa sui piedi! Fu proprio il sistema dei brevetti a rovinarlo. Non aveva il denaro per far brevettare la sua invenzione; così Bell poté “rubargliela” e farla brevettare a suo nome.
L – Forse Bell ci era arrivato per conto suo.
DG – Può darsi, è una storia intricata che non conosco bene; comunque sia andata, il risultato non cambia. Senza il sistema dei brevetti, Meucci e Bell avrebbero potuto fabbricare telefoni in concorrenza tra loro, con beneficio dei consumatori. Invece Bell è diventato un riccone, e ha dato lustro alla società telefonica che ancora esiste e porta il suo nome, mentre il povero Meucci rimase povero in canna.
L – Ammetterete che un casa farmaceutica, se impiega enormi capitali per la ricerca di nuovi farmaci, ha ben diritto a una protezione per un certo numero di anni. Se i concorrenti potessero subito produrre i nuovi farmaci, sfrutterebbero senza merito gli sforzi e le risorse altrui. Nessuno avrebbe più convenienza a spender denaro per la ricerca.
DG – Chi l’ha detto? Ci sono fior di studi che sostengono il contrario. Piuttosto, è vergognoso che le case farmaceutiche ricevano denaro pubblico per la ricerca, e poi grazie ai brevetti sui nuovi farmaci che della ricerca stessa sono il frutto accumulino rendite enormi. O l’uno o l’altro, o finanziamenti pubblici o brevetti. Anzi, né finanziamenti pubblici né brevetti. Solo risorse proprie e donazioni di privati.
L – Mi state smontando, padrone mio! Ma torniamo per un momento al “copyright”. Vi sembrerebbe bello che uno potesse pubblicare un vostro articolo senza pagarvi i diritti d’autore?
DG – Io sarei contentissimo, anche se lo firmasse con il suo nome al posto del mio. Vuol dire che ha apprezzato il mio scritto. Anche il nostro papà Mozart era ben contento se qualche collega prendeva spunto dalle sue invenzioni musicali. E fece un bello sberleffo al papa quando, ascoltando una sola volta a Roma il “Miserere” dell’Allegri, la cui partitura era proibito ricopiare sotto pena di morte, riuscì a mandarlo a memoria e a trascriverlo. Oggi dovrebbe pagare i diritti d’autore. Qualcuno ha detto che, se vigesse in campo musicale la legge islamica, tutti i musicisti avrebbero la mano mozza, perché non ce n’è uno che non abbia copiato qualcosa dai colleghi. Il famoso incipit della Terza di Beethoven è copiato di sana pianta dall’Ouverture di “Bastiano e Bastiana” del nostro papà.
L – Mi pare sia stato Verdi, in Italia, a battersi in parlamento per l’approvazione di una legge sul diritto d’autore.
DG – Non poteva sopportare che le sue Opere venissero sconciate in tutti i modi. Posso capirlo. Mi commuove pensare che lasciò in eredità i suoi diritti alla Casa di riposo per musicisti da lui fondata a Milano, “monumento vivente all’arte e alla bontà”, come la definì un giornalista americano. Però, però… anche Verdi ha “rubato”, e proprio al nostro papà. Anzi, proprio dall’Opera di cui siamo protagonisti! Hai presente il minuetto che si suona alla mia festa? Verdi l’ha preso e l’ha inserito nel primo atto del suo “Rigoletto”, senza cambiarne una nota. Ha fatto benissimo, non poteva fare di meglio. Alla faccia della proprietà intellettuale, però.
L – Mi gira la testa. Come sempre, mi avete atterrato. Ma torniamo a Wikipedia. Dicevamo che per colpa di Wikipedia qualcuno vende libri preziosi, ritenendoli ormai inutili.
DG – Fanno come quegli stupidoni che negli anni Cinquanta del secolo scorso, finita da poco la guerra, per la smania di una malintesa modernità svendevano i bei mobili antichi della nonna per comperare mobili impiallacciati fabbricati in serie. I furbi rigattieri li portavano via a carrettate, pagandoli poche lire. I figli e i nipoti di quegli stupidoni li hanno ricomprati a peso d’oro, come pezzi d’antiquariato. Vuoi scommettere che i figli e i nipoti degli stupidonid’oggi ricompreranno a prezzi da capogiro l’Enciclopedia Italiana svenduta da padri e nonni? Einstein diceva:”Due cose sono infinite: l’Universo e la stupidità umana. Sull’Universo ho qualche dubbio…”

NOTA di Leporello.
Ho ritardato cosi tanto la pubblicazione dell’articolo che nel frettempo, per caso, ho scoperto che oggi è possibile, senza tirare in ballo notaio o Stato, provare l’esistenza di un documento (di una foto, di un logo, di una melodia) e l’appartenenza con una spesa trascurabile. Tutto è posssibile grazie a una cosa che si chiama Blockchain: penso che dovrò approfondirne lo studio.
Sia chiaro: dimostrare di aver inventato per primo una melodia o un principio attivo, non significa chiamare lo Stato in difesa della proprietà intellettuale, ma potersi vantare di essre “il primo” o “l’originale”, non sottraendosi qundi alla competitività e alla necessità di migliorare l’idea o il prodotto, ma potendo spendere una carta importante nei confronti del cliente, per conquiqstarne la fiducia, oppure per trarne un po’ di gloria meritata.

Giovanni Tenorio

Libertino