Don Giovanni

Keynesiano il padre, Ugo, keynesiano il figlio, Giorgio.

Cari amici, i grandi amori giovanili non si dimenticano mai. Può forse capitare che i casi della vita ne nascondano per qualche tempo la memoria nel più profondo dell’anima, ma poi, specialmente nella vecchiaia, riemergono con prepotenza,,vestendo i dolci colori della nostagia ed esalando gli inebrianti profumi di un mitico passato.
Giorgio La Malfa è ormai anche lui diventato un vecchietto. Figlio d’un casato illustre, ha ereditato, con qualche lieve ritocco migliorativo, i lineamenti, ben poco venusti, nonché la passione politica e l’interesse per l’economia dell’eccelso genitore. Keynesiano il padre Ugo, keynesiano il figlio. Non poteva essere diversamente: le tradizioni di famiglia si mantengono, i vecchi quadri che furono dei nonni e dei bisnonni rimagono appesi nel salotto buono, anche se sono croste, perchè quel che conta è il sentimento d’affetto e di gratitudine che continuano a ispirare. Pensate un po’: il grande Ugo fu uno dei paladini del pensiero keynesiano nell’Italia del dopoguerra. Un nuovo mito, che scalzava quello del liberismo einaudiano alla cui dottrina si attribuiva il merito (da ascrivere, per amor del vero, anche a La Malfa stesso), di aver dato slancio all’economia italiana nei primi anni del dopoguerra, sotto il segno del centrismo degasperiano, aprendo la strada a quello che sarebbe passato alla  Storia come “miracolo economico” a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Fu proprio il valore intrinseco del liberismo einaudiano a compiere il miracolo? Un liberista di ferro come Sergio Ricossa, che del lascito dottrinale einaudiano è sempre stato cultore ed estimatore, nel suo vecchio, gustosissimo libello intitolato “I fuochisti della vaporiera”, avanza qualche dubbio. Forse le ricette allora proposte ebbero buon esito perché tutti ci credevano. Una sorta di effetto placebo, come quando soffri  mal di capo non si sa bene perché, e il tuo medico di fiducia ti propina un po’ d’acqua zuccherata gabellandotela come rimedio infallibile;  tu la sorseggi, e per incanto il mal di capo passa. Che importa se è solo suggestione? Quel che conta è il risultato. Anche Gesù Cristo, per compiere miracoli, chiedeva la fede: altrimenti,niente! E anche l’acqua di Lourdes potrebbe operare allo stesso modo. L’importante, anche lì, è guarire.
Finita la moda liberista (è sempre Ricossa a ricordarcelo) cominciò la moda keynesiana. Erano gli anni della famosa “apertura a sinstra”, quando la DC, dopo aspre polemiche interne ed esterne, imbarcò per la prima volta nel governo della repubblica i socialisti, col proposito di fare quel che a suo tempo aveva tentato d Giolitti: dar loro responsabilità istituzionali per staccarli dal fondamentalismo marxista, erodendo la base elettorale d’un Partito Comunista sempre più agguerrito. Sappiamo com’è finita. Ma all’inizio, quale euforia! Bisognava nazionalizzare i monopoli, elettricità e telefoni in primis, e introdurre una rivoluzione economica basata su una rigorosa politica di bilancio. Qualche socialista si ostinava a chiamarla “pianificazione”, ma la parola sonava un po’ troppo sovietica. La Malfa padre si impadronì  del concetto, ma lo ribattezzò “programmazione”, un termine più accettabile alle orecchie di chi, pur dichiarandosi di sinistra, marxista non era e non voleva essere. Programmare, programmare, per correggere il mercato, per razionalizzare gli investimenti, orientare i consumi, eliminare le inefficienze e gli sprechi, combattere la povertà. Il paradiso in terra! E chi era il grande profeta cui s’ispirava una politica del genere? Keynes, proprio lui! Il quale, pur avendo a suo tempo lodato la politica economica di Hitler e di Mussolini e anche il sistema sovietico, s’era sempre detto liberale, con qualche se e qualche ma. Marxista lui? Neanche per l’anticamera del cervello! “Come posso aderire a un credo – scrive- che, preferendo l’osso alla polpa, esalta il rozzo proletariato al di sopra del borghese e dell’intellettuale?” Come dargli torto? Un operaio avrebbe guardato con un certo ribrezzo al culattonismo degli ambienti frequentati da quel raffinato e coltissimo rampollo dell’alta borghesia anglosassone, né avrebbe condiviso certi suoi gusti estetici. Programmare dunque, e puntare sugli investimenti pubblici. E se è il caso, non badare ai deficit di bilancio. Il risparmio non è più una virtù; e se i privati mettono i soldini sotto il materasso,  sia lo Stato a spendere e a investire: grazie a quel benedetto “moltiplicatore” ci renderà tutti ricchi. Sulle orme di questi bei principi se ne dissero e se ne ne fecero di tutti i colori. Un bello spirito arrivò addirittura a parlare del salario come “variabile indipendente”:cioè a dire, si possono aumentare stipendi e salari senza timore che i  costi di produzione diventino insostenibili, mandando a carte quarantotto le imprese. Visto l’andazzo, La Mafa padre cominciò a fare il frenatore e il moralizzatore. Era troppo intelligente per condividere certe sciocchezze, ma obtorto collo accettò anche lui tanti provvedimenti demenziali e non rinnegò mai la sua fede keynesiana. E questa volta l’effetto placebo tardava a manifestarsi. Anzi, si andava di male in peggio…
In mezzo a tanto sfacelo,il figlio  ha seguito le orme del padre. Ha vissuto con lui il tramonto delle illusioni, finite in rovina con le rivolte del Sessantotto, l’ “Autunno caldo” sindacale, l’inflazione a due cifre ,dovuta in parte a ragioni esogene, come l’aumento vertiginoso del prezzo del petrolio dopo la guerra del Kippur, ma robustamente sostenuta dalla politica monetaria di Guido Carli alla Banca d’Italia.  Con i governi Craxi, altra illusione: siamo più ricchi della perfida Albione, ci sentivamo dire, e intanto il debito pubblico si gonfiava a vista d’occhio. Keynes, sempre Keynes, anche se altrove si cominciava a mettere in dubbio -timidamente, in verità-certi dogmi. Con la mannaia di Tangentopoli, saltata per aria la DC, sfasciatosi il glorioso Partito Repubblicano e con quello i parenti serpenti del mummificato Partito Liberale, spirato da tempo il vecchio genitore col cocente rammarico di non aver coronato il sogno a lungo covato di diventare Presidente della Repubblica, Giorgio La Malfa trovò rifugio sotto le grand’ali del movimento berlusconiano. Non ebbe bisogno di far nessuna abiura né di abbandonare la sua devozione a Keynres. In Forza Italia c’era il liberista Antonio Martino, discepolo di Milton Friedman, ma contava come il due di briscola, perché  per consiglio del suo stesso maestro si guardava bene dall’assumere responsabilità nei dicasteri economici, dove sarebbe stato fatto a pezzi, e rimaneva sempre nelle retrovie a mugugnare. Ben presto, infatti, la politica economica del cosiddetto centro-destra sarebbe stata dettata dai Tremonti e dai Brunetta, keynesiani anche loro (Tremonti anche colbertista  e ammiratore di Rathenau).
E ora che Berlusconi si sta avviando alla fossa? Rinascono gli antichi amori, rinverdisce la non mai spenta passione del tempo che fu. La Malfa figlio pubblica un saggio su Keynes, accolto con favore da professori d’alto rango. Ce  n’era davvero bisogno? Parrebbe proprio di no. La corposa biografia di Harrod, pubblicata in Italia da Einaudi e più volte ristampata, basta e avanza. E allora, perché tanto schiamazzo? Ma è un atto d’amore, una lettera carica di nostalgica passione spedita all’amante ormai incanutita degli anni giovanili! Va dunque con Renzi il nostro La Malfa figlio, visto che il bambolone fiorentino ha poca voglia di tagliar le spese, fa solo finta di abbassare le tasse e si appresta a gonfiarte ancor di più il debito pubblico, promettendo grandi investimenti come il ponte sullo Stretto di Messina e faraonici centri di ricerca dell”elisir di lunga vita  sulle macerie dell’EXPO?  Macché, si rifugia a sinistra della sinistra, fra i fuorusciti dalle file dei DEM, che ormai vanno a braccetto di SEL e compagnia, con la benedizione del grande economista keynesiano Joseph Stiglitz. Bisogna compatirlo. Crede di ritrovare la giovinezza fra personaggi che sbandierano idee vecchie come il cucco. Sì, perché il pensiero di Keynes è vecchio come il cucco. L’avete vista la fotografia di La Malfa figlio al recente convegno dei suoi nuovi sodali? Con quell’aspetto da tartarugone, simile ormai nel viso raggrinzito e nel portamento cascante all’illustre genitore buonanima, pensate proprio che possa partorire qualche bella idea, foriera di  magnifiche sorti e progressive?

Giovanni Tenorio

Libertino