I veri pirati
Quanto fracasso per la normativa sulla proprietà intellettuale appena approvata dal Parlamento Europeo! Io quando sento parlare di proprietà intellettuale, brevetti e altre astruserie del genere non posso trattenermi dal ridere, come quando si parla di intelligenza artificiale. Com’è vero che se è intelligenza non è artificiale e se è artificiale non è intelligenza, così è vero che se è proprietà non è intellettuale e se è intellettuale non è proprietà. Come possono le idee essere proprietà di qualcuno? Fin che rimangono nella testa di chi le escogita in un certo senso sono proprietà di costui, ma è una proprietà ben sterile. Io posso creare nella mia mente i più splendidi capolavori di poesia, comporre le partiture musicali più sublimi, immaginare opere pittoriche, scultorie, architettoniche degne di stare accanto a quelle di Raffaello, Michelangelo, Palladio, progettare meraviglie meccaniche ed elettroniche, risolvere problemi matematici più impervi del teorema di Fermat, scoprire nuove formule chimiche, escogitare prodotti farmacologici per malattie finora incurabili, ma fin che tutto questo ben di Dio se ne sta inerte dentro il mio cervello, rimane sterile. Le sementi finché rimangono dentro il sacco non germogliano: perché si sviluppino e diventino erbe o piante devono essere sparse sulla terra. Così le idee. Una poesia dev’ essere recitatata o messa per iscritto. Un’idea figurativa deve diventare pittura o scultura (Michelangelo “vedeva” platonicamente nel blocco di marmo l’immagine che voleva scolpire: ma per darle forma doveva prendere lo scalpello e menar colpi per togliere via il materiale superfluo). Non basta che Fermat dica di aver dimostrato il proprio teorema, deve esporre la sua dimostrazione (come purtroppo non fece, pare per mancanza di spazio a margine d’una copia della “Matematica” di Diofanto che stava compitando). Certamente chi ha un’ idea in testa per tirarla fuori ha il diritto di farsi pagare. Leonardo come ricompensa per il Cenacolo ricevette in dono una magnifica vigna, da ottimo intenditore di vini qual era (gli astemi non hanno mai combinato nulla di buono). Il mio papà Mozart per le sue opere e per le sue esibizioni concertistiche veniva pagato. Però sarebbe stato bizzarro se Leonardo avesse preteso una vigna tutte le volte che qualcuno copiava il suo Cenacolo; e il mio papà Mozart mica dovette pagare i diritti d’autore per aver citato, nella “Tafelmusik” che allieta il mio ultimo banchetto , musiche di Sarti e Martin y Soler: i quali, anziché adontarsene e minacciare il ricorso alle vie legali ne furono certamente lusingati. Solo la borghesia affaristica dell’Ottocento poteva inventare la proprietà intellettuale. Un vero assurdo. Una volta che un’idea è stata resa pubblica non è più merce scarsa: tutti se ne possono appropriare senza commettere alcun furto; non è che se entra nel mio cervello esce dal cervello di un altro. Tutte le volte che applico il teorema di Pitagora devo pagare i diritti a Pitagora? Tutte le volte che costruisco un giunto cardanico devo pagare i diritti a Cardano? Non mettetevi a ridere, amici miei, perché si fa di peggio. Mi volete spiegare per quale motivo, se in un ristorante si vuol diffondere musica per allietare i conviti degli avventori, bisogna pagare una tassa alla SIAE? Io mi allieto ancora di “Tafelmusik”, alle cui note rallegro anche i numerosi ospiti che invito ai miei sontuosi banchetti. Mai pagato un centesimo alla SIAE. Vi assicuro che qualora un giorno un funzionario di quella società di parassiti si presentasse a riscuotere, gli concederei trenta secondi per togliersi dai piedi, se non vuol fare la fine di Masetto quando voleva trucidarmi. I difensori della normativa europea sul “copyright” una cosa sensata la dicono: i colossi come Google, Amazon, Facebook si oppongono al riconoscimento della proprietà intellettuale per i contenuti di mano altrui da loro diffusi in rete, ma ma poi lucrano profitti enormi grazie alla protezione normativa di cui godono le loro piattaforme. Più coerenza, signori! Ma la conseguenza dovrebbe essere l’opposto di quel che si pretende: non protezione di ogni proprietà intellettuale, ma nessuna protezione per nessuno! La proprietà intellettuale è una rendita iniqua ed è giusto piratarla. A ben pensarci, però, chi sono i veri pirati? Non certo quelli che attingono a una merce infinitamente abbondante quali sono le idee rese pubbliche, ma quelli che pretendono di regolarne il libero godimento distorcendo, come sempre, il mercato, grazie alle barriere fornite dallo Stato. Siamo sempre lì: lo Stato è un furto e chi lo appoggia ne è complice. Non è ladro solo chi ruba ma anche chi tiene il sacco.
E infatti la “citazione” di un refrain musicale è usata spesso ultimamente (anche perchè è già stato scritto praticamente il 90% dello scrivibile e le note sono solo 7…) e la liberatoria è spesso concessa a titolo amichevole e gratuito, se il citatore dà lustro al citato. Purchè si citi, appunto, nelle note del testo, altrimenti è plagio: mi pare il minimo sindacale. (es. Madonna ha usato un mitico attacco degli Abba in Hung Up previo permesso, anche se miriadi di idioti incompetenti l’hanno accusata di copiare).
Noto nell’articolo esempi di tempi arcaici davvero fuori luogo, poichè i brevetti durano solo pochi lustri, diventando poi di pubblico dominio. Non vorrei che il negare la proprietà intellettuale fosse una comoda via d’uscita per non dichiararsi incapaci di risolvere il problema in una alquanto improbabile società anarcolibertaria. (siccome non si possono arrestare tutti i ladri, liberalizziamo pure il furto e siamo a posto).
È chiaro che i riferimenti a Pitagora e a Cardano volevano essere ironici, a dimostrazione che l’idea bislacca della proprietà intellettuale è tutta moderna, così come quella della moneta fiduciaria priva di alcun retrostante merceologico (la moneta come fittizia costruzione giuridica o qualcosa di simile). Follie che accettiamo perché ormai diventate senso comune, ma pur sempre follie. Non si tratta di abolire il reato di furto perché non si è in grado di prendere i ladri. In chiave di filosofia del diritto, il ragionamento è semplice: il diritto di proprietà si giustifica in presenza di beni scarsi, come sono tutte le risorse fisiche di questo mondo e tutti i servizi che la società è in grado di fornire. Se beni e servizi esistessero in quantità infinita, così da consentire a ciascuno di usufruirne a piacimento traendoli da un pozzo di San Patrizio, il diritto di proprietà non avrebbe più senso(nell’utopia marxiana della società senza classi le cose andrebbero più o meno così).Ora, un’idea, quando sia stata resa pubblica, magari a pagamento(in un libro, in un articolo o con qualsiasi altro mezzo), è appunto pubblica, cioè di tutti, e il farne uso non implica il sottrarre ad altri la possibilità di usarla a loro volta nel modo che preferiscono.
Se la proprietà intellettuale fosse vera proprietà non avrebbe termini di scadenza, come hanno invece i brevetti e i “copyright”. Qualora io prestassi da leggere a qualcuno il giornale che ho comperato commetterei furto d’uso, come quando presto a un amico un oggetto o una somma di denaro che ho ricevuto in deposito.
Ridicolo, poi, che sia reato diffondere un testo nella forma in cui è stato scritto e non ,invece, una sua parafrasi. Qui la proprietà intellettuale non è neppure proprietà di un’ idea, ma di un vuoto. Non del vino, ma della bottiglia che lo contiene.
Basta ragionarci un po’ sopra, e ci si accorge che sono tutti arzigogoli da legulei, fatti apposta per difendere rendite altrimenti ingiustificabili.
Un modo per non dichiararsi incapaci di risolvere il problema? Proprio il contrario!
Il problema non è il “riutilizzo” di cocnetti/idee/melodie/… il problema è che lo Stato che difende il copyright difende una posizione di privilegio, del tutto immotivata anche moralmente (per quello che riguarda il lato utilitaristico della cosa, rimando al libro di Boldrin, una delle poche cose che approvo dell’economista: https://www.amazon.it/Abolire-propriet%C3%A0-intellettuale-Michele-Boldrin/dp/8842098213). Qualsiasi produzione intellettuale non è infatti altro che uno “stare sulle spalle dei giganti”, senza riutilizzo nessuno potrebbe produrre cose interessanti.
Inoltre Don Giovanni pone giustamente il problema della scarsità: come è possibile limitare l’uso di un bene non scarso? Nel momento in cui pubblico una cover musicale, cosa sottraggo all’autore, se non il privilegio di sfruttare una posizione di fittizia precedenza?
Ancora una cosa e poi chiudo, anche perchè avevo già espresso e argomentato il mio favore alla p.i. in altro articolo e non è il caso di diventare pedante.
La scarsità di un bene non è sempre determinante; in un frutteto recintato possono esserci tonnellate di frutti non raccolti che vanno a marcire, ma se scavalco la palizzata per farmeme una scorpacciata posso beccarmi una schioppettata da qualche burbero padrone incazzato e asociale.
Il problema è che non esistono solo lavoro manuale e beni fungibili, ma anche di idee, concetti, innovazioni, marchi (per fortuna, aggiungo). Domanda-esempio: è per voi lecito che cinesi e altri asiatici (tralasciamo qui di sviscerare il problema della produzione e della distribuzione in condizioni tutte da verificare e affidate perlopiù a imprenditori criminali e/o criminali imprenditori) invadano con falsi marchi di stilisti italiani ed etichette “Made in Italy” il mercato mondiale? (e vi assicuro che nutro antipatia, quasi odio, per il mondo della moda, mai vestito con capi firmati…)
Einstein diceva che due cose sono infinite, l’Universo e la stupidità umana, ma sull’Universo aveva qualche dubbio. Se uno è così stupido da pagare un occhio della testa uno straccetto firmato da uno “stilista” (come oggi vengono chiamati i sarti che cuciono abiti degni, al più, di essere indossati nelle sfilate di Carnevale), fatti suoi. Se un cinese mi vende uno straccetto taroccato perfettamente identico all’originale spacciandomelo per autentico, commette una frode. Se dichiara che è un falso e me lo vende per una manciata di spiccioli, è un benefattore dell’Umanità. Dimostra che il re è nudo, che dietro quella firma c’è solo uno straccetto. Ricordate la beffa dei falsi Modigliani, gettati per burla in un fossato, ripescati e riconosciuti come autentici da studiosi blasonati come Cesare Brandi? Quegli studenti burloni dimostrarono al mondo che dietro tanti “capolavori” dell’arte moderna e tanti pomposi giudizi critici, espressi in un linguaggio iniziatico spesso indigesto e incomprensibile, c’è il puro Nulla.
Il bene scarso non è costituito dalle presunte tonnellate di frutti lasciati a marcire ma dal terreno recintato che non ha una metratura infinita. Le idee, una volta rese pubbliche, non sono recintate. Non è lecita la firma falsa, è giusto sanzionarmi se firmo con il mio nome i canti di Leopardi ma se li diffondo non compio alcun abuso. E’ come se urlassi ai quattro venti che dietro la palizzata c’è tanta frutta abbandonata ma non la consumo né sostengo di aver piantato io gli alberi.
Mi sembra una buona sintesi