Don Giovanni

Farsi del male

Il Belpaese, fin dal suo nascere, s’è sempre tirato la zappa sui piedi imitando – spesso malamente – modelli stranieri. La sua stessa configurazione istituzionale era ricalcata sull’esempio francese: accentramento amministrativo, sistema prefettizio, istruzione scolastica uniforme, coscrizione. Ben presto il modello economico liberista che aveva ispirato Cavour fu messo da parte. La moda- sempre ispirata all’esempio straniero- ormai era quella del protezionismo, per tutelare la grande industria pesante, che in caso di guerra può provvedere alla fornitura di armamenti. A scapitarne di più fu il Sud, per effetto del patto scellerato fra il grande capitale industriale del Nord e la proprietà latifondistica del meridione, che ottennero protezioni doganali da un lato a tutela della nascente industria pesante, incapace con le sue sole forze di tener testa ai potenti gruppi d’Oltralpe, dall’altro a sostegno della produzione granaria autoctona, che altrimenti avrebbe dovuto arrendersi alla concorrenza estera, in grado di offrire prezzi più bassi. Conseguenze: il Nord in qualche modo si ammodernò, sia pure col sostegno delle stampelle di Stato; il Sud si impoverì ulteriormente. Il popolo pagava il pane più caro, e per via delle ritorsioni commerciali degli altri Paesi i prodotti dell’agricoltura specializzata non ebbero più sbocchi sui mercati esteri. Tra i fautori di tale politica scellerata eccelsero proprio gli uomini politici del Sud, di cui Francesco Crispi rimane l’esempio più significativo. All’opposizione, uno sparuto gruppo di economisti liberali, dai quali avrebbe tratto linfa il pensiero di Luigi Einaudi, sempre ostile ai “trivellatori di Stato” e ai favori concessi all’industria siderurgica. Il Fascismo, con l’IRI, avrebbe fornito alla futura Repubblica antifascista fondata sul lavoro gli strumenti per continuare una politica scriteriata, nelle intenzioni a favore del Sud, di fatto a suo danno. Si pensava, stoltamente, che la grande industria pesante, una volta insediata nel meridione grazie a investimenti pubblici e a sovvenzioni ai privati, avrebbe stimolato la crescita di un indotto formato da piccole e medie imprese. Nulla di più falso. Nacquero le famose “cattedrali nel deserto”, isole ben poco felici in mezzo a lande che rimanevano sprofondate nella povertà di sempre. Si pensi a quel che doveva essere l’acciaieria di Gioia Tauro: diventata poi laminatoio, e infine smantellata. In compenso, sono stati distrutti, con il beneplacito di politici e sindacalisti, e grande esultanza della camorra, ettari ed ettari di terreni dove poteva prosperare un’agricoltura specializzata. Oggi lì c’è un porto di cui nessuno sentiva il bisogno. Fra i grandi fautori dello scempio, ancora una volta si annoverano illustri esponenti della classe politica meridionale. D’altra parte, le mastodontiche opere pubbliche sono sempre una bella mangiatoia per i politici che le le promuovono. Fu Gaetano Salvemini, meridionalista di razza, a dire che l’Acquedotto Pugliese (di per sé una delle poche strutture meritorie allestite a favore del Sud) aveva dato più da mangiare che da bere.
Gli antichi Greci seppero fare della Sicilia e del meridione d’Italia un magnifico giardino, che divenne fonte di ricchezza e faro di civiltà. Oggi si rischia di distruggere anche quel poco di bello e di buono ch’è rimasto. L’ILVA di Taranto è un inferno. Provate a passare in mezzo al quartiere tarentino dei “Tamburi”. Inorridirete. In quel litorale ionico che vanta uno dei mari più belli del mondo, con buona pace dei tanto vantati Caraibi, insediare un simile obbrobrio è stata opera di menti malate. Aveva ragione Einaudi: il genio italico era in grado di produrre qualcosa di meglio del petrolio e dell’acciaio. Si sa che l’acciaio italico è fra i peggiori: ottenuto in gran parte da prodotti di rottamazione, contiene un’alta percentuale di zolfo. Non sarebbe meglio comprarlo all’estero, in cambio di squisitezze alimentari che solo le terre del Sud possono offrire? DI servizi turistici d’alta classe? L’acciaio possono produrlo meglio i cinesi. I Bronzi di Riace non li può produrre nessuno. Si possono vedere solo in Italia, e bisogna venirci apposta (a proposito, che fine hanno fatto?).
Sembrerebbero discorsi ovvi, e invece no, bisogna farsi del male. E le classi dirigenti del Sud sono sempre all’avanguardia in questa discesa verso l’abisso.
Ne volete un esempio? Seguitemi.

Per rimanere in Puglia, la Valle d’Itria, nella Murgia dei Trulli, è un luogo meraviglioso. La popolazione è gentile e accogliente, come solo i terroni sanno essere, eredi, anche in questo, di quel mondo greco dove l’ospitalità era sacra. A Martina Franca, che sorge nel punto più alto del territorio e vanta un centro storico di incantevole bellezza, si tiene ogni anno un festival musicale promosso una trentina di anni fa da Rodolfo Celletti, il cui scopo istituzionale è quello di riscoprire, conservare ed esaltare la cultura del “bel canto”, attraverso riproposte di Opere rare sulla scorta di moderne edizioni critiche. Un unicum nel panorama dei festival musicali, compresi i più blasonati, Salisburgo, Aix-en-Provence, Glyndebourne, o, per rimanere in Italia, Maggio Musicale Fiorentino, Ravello, Spoleto, Ravenna, ROF di Pesaro.

Ebbene, che cosa hanno deciso di fare i responsabili dell’istituzione, proprio nell’anno in cui si celebra il centenario della nascita di Celletti, che vedeva come il fumo negli occhi il cosiddetto “teatro di regia”, al punto da disdegnare un regista come Luca Ronconi, oggi considerato un classico al pari di uno Srehler o di un Visconti? Ancora una volta non si sa resistere al modello straniero, per timore di apparire arretrati. Come si buttano via gli oliveti per ospitare le fabbriche puzzolenti, come si sconciano terreni coltivabili ricoprendoli di pannelli solari, come si ferisce il paesaggio costellandolo di orride pale eoliche ( che spesso rimangono tristamente ferme), così si rinuncia al buon gusto italico, erede del Rinascimento, per fare quel che fanno gli altri: teatro di regia del peggior gustaccio tedesco. Quest’anno si è addirittura allestito un “Gianni Schicchi” da far rigirare nella tomba il povero Puccini (la cui musica, a dire il vero, con la linea culturale del Festival di Martina Franca c’entra come i cavoli a merenda). Non solo sconcezze registiche (in scena si vedeva di tutto, orde di barboni mal vestiti e avvinazzati) ma anche un’opinabilissima revisione della parte orchestrale. A dirigere, è stato chiamato uno sconosciuto maestrucolo tedesco, che ha interpretato la partitura come se avesse sul leggio non Puccini, ma Kurt Weil. Incapace di accompagnare il canto – come tutti i tedeschi mediocri – ha fatto letteralmente scomparire le due famose arie “Firenze è come un albero fiorito” e “O mio babbino caro”. Il pubblico beota, formato in gran parte da persone del luogo, in abbigliamento da spiaggia, con calzoncini corti e ciabatte infradito, non ha lesinato gli applausi. Come diceva un mio vecchio amico: “De gustibus non est disputandum; però ci sono anche i gusti di merda”.

Il peggio però è arrivato con la “Margherita d’Anjou” di Meyerbeer, che essendo una riscoperta (una “riesumazione”, come si dice in orrido gergo cadaverico) avrebbe meritato un allestimento scenico rispettoso dell’ambientazione al tempo della Guerra delle due Rose fra la casa di York e quella dei Lancaster. Invece, che cosa si è fatto? Ambientazione in epoca moderna, nel mondo dell’alta moda, tra modelle e paparazzi. Così la trama, di per sé già complicata, è diventata incomprensibile. Un vero peccato mortale, perché la parte musicale, in orchestra e sul palcoscenico, era di prim’ordine, sotto la guida del Maestro Fabio Luisi, il cui unico torto è quello di aver accettato un’operazione del genere. Peccato mortale, ripeto, tanto più grave se si pensa che Luisi è anche direttore musicale del Festival; quindi gran parte delle responsabilità delle scelte artistiche ricade su di lui.
Alla prima rappresentazione buona parte del pubblico -questa volta prevalentemente forestiero- ha protestato. Sacrosanto diritto. Si paga lo spettacolo due volte: col prezzo del biglietto, consapevolmente, e come contribuenti, non del tutto consapevolmente. Quindi bisogna fischiare con potenza doppia di fiato. Alla seconda, il regista Alessandro Talevi, autore dello scempio, non ha osato presentarsi in scena dopo la fine dello spettacolo. In compenso, nell’intervallo fra i due atti buona parte del pubblico s’è dileguata. Anche il Maestro Diego Fasolis (cui si deve , in questa edizione del Festival, uno splendido “Orlando Furioso” di Vivaldi, per fortuna sorretto da un ottimo allestimento scenico), presente in prima fila durante il primo atto in omaggio al collega Luisi, ha preferito squagliarsela.
Se anche un critico come Enrico Girardi, solitamente entusiasta, come la collega Carla Moreni, del “teatro di regia”, ha detto che lo spettacolo è brutto, vuol dire che è brutto davvero. Non solo merda; merda diarroica…
Il direttore artistico Franco Punzi -persona affabile e squisita- sostiene che così s’ha da fare, perché questi allestimenti piacciono ai giovani. L’anno venturo si proseguirà su questa strada. Chi non vuol vedere-dice lui- chiuda gli occhi. No, dico io: chi è venuto da lontano ha l’obbligo morale di fischiare sonoramente. Con potenza doppia di fiato.
Se il Festival della Valle d’Itria diventerà un festival come tutti gli altri, si voterà al fallimento. Dubito che certe cose piacciano ai giovani (quali?); in ogni caso, il pubblico che viene da fuori è formato in gran parte da persone mature, che possono permettersi di spendere un po’ di soldi, mentre i giovani di solito sono a bolletta, e in genere, se possono spendere qualcosa, preferiscono i concerti rock. Presto il pubblico degli affezionati diserterà la bella cittadina di Martina Franca. Per vedere le solite brutture, meglio una meta come Salisburgo, dove almeno si possono sentire i Wiener Philharmoniker e gli interpreti più prestigiosi. Magari, lì sì, chiudendo gli occhi.
Ancora una volta il Sud si sta facendo del male, con la complicità degli uomini politici che lo rappresentano.
Anche Franco Punzi è un politico. Di musica si intende poco. A chi gli esibiva in privato il proprio disappunto per l’allestimento della “Margherita d’Anjou, salvando però la parte musicale, ha risposto: “E la parte vocale?” Come se il canto non fosse musica! Allora una Messa di Palestrina che cos’è? Insalata mista?

“Un democristianaccio”, lo definì qualche anno fa, in tono scherzoso e amorevole, Sergio Escobar, direttore artistico del Piccolo Teatro di Milano, dove i responsabili del Festival erano venuti, secondo una vecchia consuetudine, a presentare il cartellone. Confermo: un democristianaccio. E lo dico in tono né scherzoso né amorevole.

Giovanni Tenorio

Libertino