Abbietta zingara
Leggo nel bel saggio “La democrazia non esiste” di Piergiorgio Odifreddi – del quale forse più avanti avremo occasione di parlare – che la famigerata “legge del taglione” (occhio per occhio, dente per dente), sancita ufficialmente per la prima volta in un testo scritto nel XVIII secolo a.C. in Mesopotamia ad opera di Hammurabi, sesto re della prima dinastia di Babilonia, lungi dall’essere una testimonianza di barbarie, costituisce invece un alto esempio di civiltà giuridica, in quanto introduce nel sistema penale quel principio di proporzionalità fra crimine e pena che da allora è rimasto tra i fondamenti imprescindibili di ogni ordinamento. Certo, nessuno oggi riterrebbe lecito seguire alla lettera il precetto, cavando un occhio a chi l’ha cavato volontariamente a un altro: quel che conta è il principio, che l’affinamento del pensiero giuridico, in sintonia con l’evoluzione del sentire comune, può declinare in modi diversi, alleviandone gli aspetti più brutali. L’importante è non tornare indietro, non comminare, con la scusa della deterrenza, pene eccessive rispetto alla gravità del reato che si vuole colpire. La pena di morte come punizione di chi ha ucciso rientra nel concetto di proporzionalità: la morte si punisce con la morte. Il che non significa che oggi la pena capitale debba essere mantenuta, dove c’è, o magari ripristinata, dove è stata abolita. Io sono il primo ad aborrirla. Però, con buona pace di Cesare Beccaria, se è vero che un duro ergastolo, senza speranza di uscirne, fa più paura della pena di morte, e quindi costituisce un deterrente più forte per il crimine di omicidio, allora i conti della proporzionalità non tornano più: la pena non è proporzionale al delitto, in quanto infligge al colpevole un patimento maggiore di quello che da lui è stato causato alla vittima. Lo so che criticare Beccaria è come sparare sulla Croce Rossa: attendo però qualcuno che confuti, argomenti seri alla mano, quanto da me affermato. Il concetto di “deterrenza” è figlio di una concezione utilitaristica della pena (che Beccaria, da illuminista,condivideva): un principio che, quando portato alle estreme conseguenze, può indurre a comminare una pena del tutto fuor di misura, se si ha ragione di credere che raggiungerà il fine di scoraggiare il comportamento criminoso contemplato nella norma (detto questo, la lotta di Cesare Beccaria e di Pietro Verri contro la disumanità del sistema penale vigente alla loro epoca, che ricorreva sistematicamente alla tortura, rimane uno dei momenti più fulgidi dell’Illuminismo italiano).
Pare essersi dimenticato del principio di proporzionalità il solito Salvini, quello che, se potesse, rigetterebbe in mare tutti i migranti e non vede l’ora di rimpolpare il già esorbitante numero di sbirri reclutandone di nuovi ( come se in Italia il rapporto fra popolazione e agenti di polizia non fosse già il più alto d’Europa, e forse del mondo): vorrebbe che, in caso di difesa personale, l’uccisione di chi attenta alla vita, alla libertà e alla proprietà di un suo simile fosse ritenuta per legge sempre legittima. Ne abbiamo già parlato, mostrando l’insostenibilità della proposta. Può essere opportuno (come qui si è suggerito), invertire l’onere della prova, ma il principio di proporzionalità va mantenuto, sia pur tenendo conto che, in caso di pericolo immediato, risulta difficile valutare fino a che punto è opportuno reagire. Salvini fa, nel cammino della civiltà, non un passo, ma parecchie centinaia di migliaia di miglia indietro. Ritorna all’epoca che precede Hammurabi.
Con i tempi che corrono, e purtroppo con il governo in carica, dove il Presidente del Consiglio è un arlecchino e a spadroneggiare sono i suoi due vice, di cui Salvini è il capobanda, stiamo assistendo a un imbarbarimento dei costumi. Pare che tutti si stiano incattivendo. I migranti vengono considerati,senza distinzioni, persone inclini alla delinquenza o potenziali terroristi. Gli zingari sono da bruciare. Un alto magistrato arriva a dire che i carcerati sono pochi (non come negli Stati Uniti, dove c’è una caterva di gente in galera!) e bisognerebbe costruire più luoghi di pena, magari per gettarci tutti i politici e tutti gli appaltatori di opere pubbliche, quando finalmente si sarà dimostrato che sono delinquenti dal primo all’ultimo, anche se finora sono riusciti a farla franca grazie a una legislazione troppo garantista. Presunzione di colpevolezza, alla faccia della costituzione più bella del mondo!
In un clima così, non c’è da stupirsi di quello che è capitato a Roma una settimana fa. Forse il fatto vi è sfuggito, perché di questi tempi ben altro occupa il proscenio: l’incendio della discoteca ad Ancona, l’attentato terroristico a Strasburgo, e tutta una serie di episodi luttuosi. In breve: a Roma, a una fermata della metropolitana, due vigilantes bloccano una zingara che, accompagnata dalla figlioletta di tre anni, cerca di sfilare il portafoglio dalla tasca di un passeggero. Questo, appena se ne accorge, si avvicina alla donna, la prende per i capelli, la strattona e le fa battere più volte la testa contro il muro, tra il pianto disperato della bambina. Una giornalista presente alla scena cerca di intervenire a calmare l’energumeno, che le risponde in malo modo, insultandola, per poi allontanarsi impunemente. Sulla carrozza del metrò, quasi tutti i passeggeri la insultano a loro volta, indirizzandole epiteti irriferibili.
Terribile. Ma la cosa più terribile è un’altra. Non mi risulta che l’episodio abbia avuto il seguito che ci si doveva aspettare. Punto primo: perché i nerboruti vigilantes non hanno fatto nulla per scoraggiare l’energumeno? Non erano in condizioni di farlo? Dovevano minacciare di chiamare la polizia. Il reato era flagrante e inoppugnabile. E la magistratura, sempre così sollecita a intervenire, in base al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale? Non pare che si sia mossa dopo aver avuto notizia di quanto accaduto. E’ vero che il reato di percosse e quello di lesioni sono perseguibili solo a querela di parte. Però se per le lesioni la prognosi è superiore ai venti giorni, il reato è perseguibile d’ufficio. Che ne sappiamo se la zingara ha subito lesioni, e di qual gravità? E la presenza della figlioletta alla scena, con le conseguenze psicologiche che può comportare, non costituisce un’aggravante? L’inerzia dei vigilantes non merita che si indaghino a fondo le le dinamiche dell’aggressione? Si blatera tanto di proporzionalità fra delitto e castigo (principio sacrosanto) e poi si rimane silenti quando, impedito un reato, e assicurato il colpevole alla giustizia, la parte offesa non si accontenta dell’intervento preventivo a suo favore e dell’eventuale risarcimento del danno, ma trascende a vendetta privata, portando a compimento un reato di gran lunga più grave di quello che, nei suoi confronti, è stato solamente tentato, senza esito, grazie all’intervento di un apparato di sorveglianza?
E Salvini? Non è lui il grande difensore della civiltà cristiana dall’attacco della barbarie islamica? Dovrebbe sapere che Cristo di miglia sul cammino della civiltà ne ha fatte anche lui parecchie centinaia di migliaia, ma in avanti. Ha abolito la legge del taglione, ma non per tornare indietro, bensì per per sostituirla con quella del perdono (da parte della vittima, non dello Stato), dandone un meraviglioso esempio sulla croce:”Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”. Salvini forse non lo sa. Il Vangelo, come la maggior parte dei cattolici, esclusi i preti, non l’ha mai letto. Tace. Se potesse, si unirebbe al coro di chi ha oltraggiato la giornalista. Se di Verdi non conoscesse soltanto il “Va pensiero”, adottato dissennatamente da Bossi come inno della Lega, canterebbe la ballata di Ferrando nel “Trovatore”: “Abbietta zingara…”
Il due volte “asino d’oro” ne ha detta una giusta. Anche nella bibbia il “taglione” fu istituito come alternativa umanitaria per un popolo rozzo e primitivo che non si faceva problemi ad eccedere: «Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette!”» (Gen. 4,23-24)
Beccaria mi è sempre piaciuto pochissimo. Questo voler a tutti i costi mirare al recupero del reo è dabbenaggine allo stato puro: c’è gente che non vuole affatto essere recuperata, ci si metta pure il cuore in pace.
Ergastolo? E per cosa? Per mantenerli per tutta la vita a spese dei poveracci che sono tartassati dallo stato? Cornuti e mazziati.
Esiste un’isola nell’arcipelago toscano completamente disabitata.
Li si sbatta tutti li’, con una vanga, un sacco di sementi, una cassa di viveri e attrezzi vari e buona fortuna. Una specie di reality-reale, e magari con un po’ di iniziativa ci si può fare un po’ di grano per le casse statali al fine di… (vedi sotto), brevettando il format e appaltando le riprese a Endemol.
La pena dovrebbe essere certa, severa (senza crudeltà) e – nei limiti del possibile – mirare a reintegrare il maltolto e risarcire le vittime; se il reo vuole recuperarsi sarà una sua scelta personale, ma ricordiamo che di Jean Valjean ce n’è stato uno e se ne è fatto un romanzo proprio per la sua eccezionalità, gli altri sono appunto solo “miserabili”.
Spesso a Beccaria, per parlarne senza averlo letto, si attribuiscono pensieri che non gli appartengono. Ai suoi tempi l’idea che la pena debba servire a recuperare il reo era ancora del tutto estranea alla riflessione criminologica: sarebbe maturata in tempi di molto successivi. Ci si chiedeva invece se la sanzione debba essere inflitta come retribuzione (quia peccatum est) o non piuttosto come deterrente del crimine (ne peccetur), a difesa della società. Da utilitarista, Beccaria si schiera sulla seconda posizione. Se un criminale risulta pericoloso per la stabilità delle istituzioni, il rimedio più opportuno è la pena capitale (spesso viene dimenticato o taciuto, ma il suo pensiero è proprio questo: leggere per credere). Negli altri casi l’estensione della pena (ergastolo) è più efficace dell’intensione (morte). Tutto da dimostrare (rimane vero che negli USA gli Stati dove vige la pena di morte hanno spesso una percentuale di crimini di sangue non inferiore a quella degli altri Stati). Nel suo saggio “Etica della libertà” Murray N. Rothbard respinge il principio utilitaristico, ritenendolo contraddittorio, e ritorna a quello retributivo, fermo restando che in una società anarchica la vittima, o chi ne ha interesse, può anche decidere di perdonare l’offensore, sulla scia del cristianesimo radicale di Tolstoj. Per quel che può valere il mio pensiero, credo che il carcere debba essere riservato ai casi più gravi, perché spesso anziché essere rieducativo è criminogeno (si esce peggiori di come si è entrati), e per il resto la pena debba mirare soprattutto al risarcimento della vittima (si ritorna quindi al principio retributivo, declinato su un piano squisitamente individualistico: ogni vittima è un caso a sé). Nulla vieta che poi, in un contesto anarchico, associazioni private umanitarie, ispirate magari a principi religiosi e sostenute (teoricamente e finanziariamente) dagli appartenenti a una Chiesa o a una scuola di pensiero, si prodighino per il recupero morale e sociale di chi ha commesso crimini. Ancora una volta, la peggior soluzione è lo Stato. Un suo “servitore”, molto accreditato fra i forcaioli, vorrebbe costruire decine di nuove carceri e infoltirne la popolazione per portarla a una percentuale vicina a quella degli Stati Uniti. Bel modello davvero! I”servitori” sono spesso peggiori dei loro padroni.
Se il servitore accreditato è uno dei due che d’istinto mi vengono in mente, avrà un elogio dal CSM nel primo caso; il secondo caso lo ritengo in completa…Malafede! (nomen non omen)