Bach libertino, in memoria di Piero Buscaroli
Va riconosciuto che l’approdo di molti intellettuali italiani, dopo la catastrofe bellica, ai lidi della sinistra non fu sempre e soltanto dovuto a scelte opportunistiche. Molti di loro avevano maturato il proprio pensiero politico nelle file dei GUF, i Gruppi Universitari Fascisti, dove s’era formata una fronda contro la svolta conservatrice del regime (quella che Domenico Settembrini, con espressione felice, ha chiamato “controrivoluzione imperfetta”) e si vagheggiava il ritorno alla purezza delle origini, coniugando lo spirito patriottico a un sistema corporativo che prendeva come modello l’esperienza originaria dei soviet, anch’essa degenerata in dittatura del partito unico. Né deve stupire che anche nell’ambiente cattolico, a suo tempo compromesso col regime del ventennio, molti abbiano continuato a coltivare, sotto le bandiere dello scudo crociato democristiano, il sogno di un corporativismo anticapitalistico, del tutto opposto agli spiriti liberali di Sturzo (e anche di De Gasperi), facendosi assidui e pazienti promotori, con successo, dell’ alleanza con un Partito Socialista ancora pervaso dal mito della pianificazione economica, sull’onda della moda keynesiana inneggiante alla “fine del laissez faire”.
Molto diverso il discorso per i due illustri personaggi di cui in questi giorni si piange la dipartita, Umberto Eco e Piero Buscaroli: quasi coetanei, ma ideologicamente opposti come il dì e la notte. Troppo giovani per essersi compromessi col regime, nei cui anni pur nacquero. Il primo si formò nella GIAC, i giovani dell’Azione Cattolica, abbandonando la Chiesa e la militanza nelle organizzazioni politico-sociali del suo laicato, per confluire nella galassia progressista, dopo aver discusso – il che può sembrare un paradosso – una tesi di laurea su Tommaso d’Aquino. Fu sempre abilissimo a cogliere sul nascere ogni novità nell’ambito della cultura e del gusto. Animatore, con tanti bei nomi dell’intellettualità d’allora, del cenacolo avanguardistico “Gruppo 63”, ha avuto il merito di introdurre, in un ambiente ancora impregnato di idealismo crociano, discipline come lo strutturalismo e la semiotica, con opere specialistiche di meritato prestigio. Fiutato il profumo del postmoderno, colse l’occasione di acquistare notorietà presso una più vasta cerchia di lettori, estranea al mondo accademico, con il “Il nome della rosa”, primo romanzo, rimasto ineguagliato in termini di cassetta, d’una serie nel complesso abbastanza fortunata. Dall’alto del suo indubbio magistero, e forte di un consenso ormai unanime al suo talento di scrittore creativo, poté permettersi il lusso di guardare con un’occhiata di disprezzo al “Codice da Vinci” di Dan Brown, il cui successo, di fatto, si risolse in un fuoco di paglia.
Tutti i giornali commemorano in questi giorni Umberto Eco. E’ giusto, se lo merita. Io però preferisco qui commemorare quell’altro, il Buscaroli; e vedrete subito il perché. Pare che il mondo dei media gli abbia decretato, dopo la morte fisica, una sorta di “damnatio memoriae”. Poche righe di necrologio, talora neppure quelle. Solo il “Giornale”, che lo ebbe collaboratore – fra molte turbolenze – sotto Indro Montanelli, gli ha dedicato articoli commossi, pubblicando anche qualche stralcio delle sue opere di insigne musicologo (una qualifica che, tra l’altro, aborriva, preferendo quella di storico della musica). Per il resto, silenzio. Aveva un carattere spigoloso, un piglio dissacrante, che gli avevano fatto il vuoto intorno, allontanando anche chi per qualche tempo gli era stato devoto. I colleghi progressisti – la stragrande maggioranza dei critici musicali – l’hanno sempre avversato e-peggio-ignorato. I dizionari musicali, anche i più blasonati, o non lo citano o gli dedicano poche righe sparute. Aveva una grandissima macchia: era fascista, anzi fascistissimo, e tale si vantava d’essere diventato non grazie a Mussolini, ma a dispetto della sua politica compromissoria. Tanto bastava perché il culturame italico, anch’esso fascista fino al midollo nel suo intollerante antifascismo di facciata, gli decretasse una sorta di morte civile. Eppure Buscaroli, nonostante alcune sue posizioni repellenti, aveva diritto a qualche indulgenza. A quattordici anni si sottrasse mala pena a un tentativo di linciaggio da parte d’un manipolo di partigiani che, non trovando in casa suo padre (a sua volta fascista dissidente, amico ma anche feroce oppositore di Dino Grandi), al quale volevano impartire una lezione, pensarono di sfogarsi su di lui. La ferita psicologica di quell’atto fascistissimo rese fascistissimo chi l’aveva subita, corroborando in lui un atteggiamento e un pensiero che evidentemente aveva respirato in famiglia. Detto questo, ciò che conta è lo studioso, non la sua vita privata e la sua repellente ideologia politica. E come studioso Piero Buscaroli aveva pochi rivali. La sua cultura, di impianto umanistico, era profonda e raffinata. La sua conoscenza della musica, sia sul piano tecnico sia su quello storico-filologico, era di prim’ordine. I suoi poderosi saggi su Bach, Beethoven e Mozart resteranno pietre miliari della musicologia( gli chiedo scusa se oso ancora ricorrere al termine da lui aborrito): hanno ribaltato leggende, pregiudizi e luoghi comuni, dandoci una nuova, e più umana, immagine di quei tre Sommi. Basterebbe questo a collocare Buscaroli in un Pantheon ideale, dove non potranno mai entrare i criticonzoli che imbrattano le pagine di quasi tutti i quotidiani d’oggi.
Perché spendo tante parole per un personaggio con cui, anarchico qual sono, non avrei mai potuto stringere amicizia? Gli sono grato perché nel suo “Bach”, pubblicato nel 1985, che proprio una settimana fa ho ripreso in mano come per una arcano richiamo del destino, distrugge l’immagine tradizionale del più grande di tutti i musicisti, di solito dipinto come un bigotto luterano che compone “ad maiorem Dei gloriam”; e ne fa un artista ambizioso, inquieto, bramoso di successo mondano, cosciente della propria grandezza e perciò riluttante alla disciplina, in perenne lotta con le autorità da cui era costretto a dipendere per sbarcare il lunario. Uno spirito ribelle, a dispetto di chi ce lo mostra come buon padre di famiglia che lavora da bravo artigiano della musica per mantenere la sua numerosa figliolanza. Assentatosi per quattro mesi da Arnstadt, dove aveva un posto di Cantor con precisi obblighi di compositore, direttore musicale e insegnante, allungando a suo arbitrio la breve licenza che gli era stata concessa si fermò a Lubecca ad ascoltare le esibizioni organistiche del famoso Dietrich Buxtehude. Qualcuno dice -ma non so se è vero- che Buxtehude avrebbe concesso a Bach di succedergli dopo la morte nell’incarico di organista della Marienkirche a patto che ne sposasse la figlia, che pare fosse davvero brutta. Fuggì a gambe levate, tornandosene ad Arnstadt. Poco tempo dopo, a Mülhausen, sposò la giovane Maria Barbara, che doveva essere un bel bocconcino. Niente male, questo Bach! Sia lodato Buscaroli, che l’ha reso ancor più simpatico a un libertino come me.
Ideologicamente opposti, Eco e Buscaroli? Li accomunava l’avversione al mercato. Quanto al “progressismo” di Eco e dei criticonzoli, ritengo sia solo un’autoreferenzialità. Dipendesse da loro, saremmo ancora all’età della pietra. E non solo sul piano dei contenuti, dal momento che anche il loro stile semantico manifesta in pieno una vera e propria regressività letteraria.