Don Giovanni

Carlo Calenda

Mi sono voluto mettere davanti al video a sentirmi il discorso di Conte in Senato e il successivo dibattito come ci si metterebbe in poltrona a godersi una farsa. Devo confessare che, se anche i momenti esilaranti non sono mancati, dopo la replica di Salvini mi sono sentito così depresso che ho deciso di spegnere il televisore e passare a qualche attività meno trista.

C’è da chiedersi: davvero questi personaggi pensano di essere i rappresentanti del popolo italiano? Davvero chi continua a credere nel sistema liberal-democratico degenerato, in cui ormai si vive un po’ in tutto il mondo, è convinto di essere rappresentato da simili figuri? Si dirà: discorso da anarchico, che disprezza tutti i politici in quanto tali. Non è vero. Proprio perché sono anarchico rispetto anche chi è convinto che lo Stato sia una bella cosa (e di conseguenza anche le tasse, come dichiarò quel tale, pace all’anima sua), o magari una cosa non proprio piacevole, ma necessaria e ineliminabile. E’ questo il motivo per cui rifiuto il territorialismo e mi alletta la panarchia. Se uno vuol vivere sotto lo Stato, nessuno glielo deve impedire; purché non pretenda che anch’io, contro la mia volontà, compia la medesima scelta. Tale posizione mi permette di stimare qualche uomo politico, non soltanto del passato. Niente da dire di uomini come De Gasperi o Einaudi, per rimanere in Italia. Molto da dire e da ridire su personaggi come Andreotti: rimasi allibito quando i dirigenti di Comunione e Liberazione lo indicarono al loro gregge come il politico di riferimento.

E oggi? Mi pare che di persone stimabili ce ne siano poche, molto poche. Mi è saltata la mosca al naso quando ho visto Renzi (quel “ragazzone”, come lo chiamava il compianto Piero Ostellino) tornare alla ribalta, per proporre non so quale pasticcio al fine di evitare le elezioni e, come lui dice, “salvare l’Italia”. L’abbiamo già conosciuto un salvatore dell’Italia, che ha rimesso momentaneamente in ordine i conti, con l’aiuto del suo amico seduto ai vertici della BCE, sprofondando però il Paese in una depressione di cui si patiscono ancora le conseguenze, e lasciando in eredità ai successori una riforma pensionistica mal congegnata e discriminatoria.

Qualcuno auspica addirittura che possa nascere un governo istituzionale presieduto da Mario Draghi. Di Mario ne è bastato uno, e avanza. Economisti bocconiani e banchieri centrali mi fanno paura. L’avete presente la faccia di Draghi? Se Monti sembra uno spettro, Draghi sembra un vampiro. Dio ne scampi e liberi.

Se proprio devo salvare un uomo politico, in mezzo a tutto questo lugubre carnevale, sceglierei Carlo Calenda. Ha avuto il coraggio di dichiarare che no, il PD, dopo aver detto peste e corna dei Cinquestelle, non può mutar bandiera e accettare un patto di governo con quel partito. Giusto. E’ una ragione di coerenza. Una virtù poco esercitata dai politici, e in alcuni casi forse non del tutto opportuna e praticabile, se è vero che, nell’arte di governo, si deve tener conto delle circostanze, e ciò che oggi può sembrare inaccettabile domani, mutata la situazione, può apparire sotto altra luce. Ma c’è modo e modo di essere incoerenti! Anche Garibaldi, ai tempi suoi, fu aspramente criticato dai mazziniani duri e puri per essersi messo al servizio dei Savoia, lui che si era sempre dichiarato repubblicano. Invece, la sua scelta fu saggia, molto più di quella di Mazzini, che, rimanendo fedele al proprio credo, rischiò di fare una brutta fine. Ammesso e non concesso che l’Unità d’Italia, così come è stata combinata, sia una bella cosa, era ragionevole subordinare l’ideale repubblicano, per quanto nobile, a quello, ancor più nobile, dell’indipendenza e dell’unità (sia chiaro, a scanso di equivoci, che sto ragionando mettendomi nei panni di un uomo del Risorgimento, quale non sono). Nel caso nostro, non c’è nessun principio superiore nel cui nome mutar giudizio sulla dissennatezza dei pargoli di Grillo. Un governo con loro sarebbe semplicemente rovinoso; non potrebbe durare, come non è durato il “contratto” con Salvini. Alla fine, si accumulerebbero macerie su macerie: ai guasti prodotti finora, se ne aggiungerebbero di nuovi.

C’è un altro motivo per cui stimo Calenda. Ho letto recentemente il suo saggio “Orizzonti selvaggi”, e l’ho trovato interessante. Il che non significa che io ne condivida il pensiero. Non sarebbe neppur possibile. Da anarchico, non posso accettare i disegni politici di chi crede nello Stato ed è convinto che, senza un’autorità regolatrice, la società cadrebbe in preda al disordine. Io sto con Proudhon, il quale diceva che l’ordine è figlio della libertà, e non viceversa. Gli statalisti, dai comunisti puri, ai socialdemocratici alle destre di vario colore fino ai cosiddetti minarchici, sono tutti convinti del contrario: senza un ente che abbia il monopolio della forza e che sia fonte del diritto positivo, nonché garante del sistema monetario, e magari sostegno dei ceti più deboli, la  società si dissolverebbe. E’ chiaro che anche Calenda la pensa così, andando ben oltre. Ciò non toglie che alcuni aspetti della sua analisi possano essere condivisi. Il suo processo al modo in cui si è svolta finora la cosiddetta “globalizzazione” contiene alcune riflessioni sensate e anche illuminanti. E’ vero che, a fronte di una crescita straordinaria di Paesi come Cina e India, e di una progressivo emergere  di Paesi finora sprofondati nella povertà, si è assistito a una crisi dei sistemi che fino a qualche lustro fa erano  prosperi e si ergevano a modello universale di sviluppo. In somma: la sciocca teoria della “fine della Storia”, formulata da un politologo che ha mal rimasticato Hegel,  anche sotto questo aspetto si è rivelata fallace. Nel mondo un tempo “ricco”, e in particolare in Italia, si lamenta una contrazione delle opportunità di lavoro piuttosto preoccupante, dovuta soprattutto alle innovazioni tecnologiche (prima fra tutte la rivoluzione informatica) e al conseguente declino dell’industria “tayloristica”; si assiste a un impoverimento di quel che rimane della vecchia classe operaia e si paventa una progressiva scomparsa del ceto medio.

Su tale frustrazione i movimenti cosiddetti “populisti” e “sovranisti”, da Marine Le Pen ad “Alternative für Deutschland” a Salvini a tutta la galassia dei “democratici illiberali” tipo Orbàn, allo stesso Trump (che di tutti quanti questi movimenti è un po’ la stella polare) hanno costruito il loro consenso. Calenda dice bene quando afferma  che la Sinistra ha  il torto di non aver saputo prevenire tale esito, per aver abbracciato acriticamente la globalizzazione capitalistica senza coglierne i pericoli, schierandosi dalla parte della grande finanza, delle multinazionali, e dimenticando, contro la sua vocazione, coloro che da tale processo rischiavano di essere relegati ai margini della società, come una sorta di nuovo “lumpenproletariat”. Quale la soluzione? Per Calenda, il percorso da intraprendere è quello di una riconquista ideale dei temi della Sinistra, e un ritorno meditato a quella “terza via” che, a suo tempo proposta da Giddens e fatta propria da Tony Blair, è andata  però via via snaturandosi  per una fiducia dottrinaria  nel “mercatismo” e una deregolamentazione eccessiva dei meccanismi economici, con il conseguente ritrarsi dei pubblici poteri da quegli ambiti che invece avrebbero dovuto continuare a essere presidiati, sia pure con interventi innovativi. Lo Stato deve allora ritrovare se stesso e le sue funzioni, evitando da un lato di sopprimere il mercato, produttore di ricchezza, e dall’altro di lasciarlo operare senza controlli.Inuitile dire che a questo punto il mio dissenso diventa profondo.

Non solo: sento crescere in me la convinzione, da tempo maturata, che capitalismo e mercato non sono la stessa cosa; anzi, per molti aspetti, sono due realtà antitetiche. L’errore degli statalisti di tutte le risme è quello di identificare i due concetti. Ma è anche l’errore dei cosiddetti anarco-capitalisti, i quali non si rendono conto che il sistema economico attuale senza lo Stato dovrebbe cambiare radicalmente, perché il capitalismo “reale” può prosperare solo in simbiosi con lo Stato. Lo so che queste mie parole faranno storcere il naso a qualcuno dei miei amici. Fino a qualche anno fa sarei stato dalla loro parte. Ora non più. Ho ricominciato a studiare la Storia, e mi sono reso conto che nella vulgata  in cui si contrappone Stato e Capitalismo troppi conti non tornano. Mi è più volte capitato di citare, in proposito Kevin Carson. Non sono sempre d’accordo su tutto quello che dice, ma quando sottolinea la consanguineità di Stato e Capitalismo non posso che concordare con lui.

Anche Calenda cade nell’errore. Sentite cosa dice, in un punto in cui il suo dettato, nel complesso limpido e scorrevole, diventa piuttosto farraginoso: “Il capitalismo può agevolmente convivere con i regimi illiberali. Aspettarsi che corra in soccorso di chi lo ha protetto per molti decenni -la democrazia liberale appunto- è un’illusione. La diffusione del “totalitarismo rovesciato” ovvero quella “forma politica in cui i governi vengono legittimati attraverso elezioni che hanno imparato a controllare”, estrema evoluzioni delle democrazie illiberali, non mette in discussione il capitalismo ma ne rafforza i tratti oligopolistici: Per salvare la democrazia liberale occorre dunque che lo Stato, che lo ha avversato dalla nascita, corra ora in suo soccorso, perché il capitalismo, suo antico alleato, non lo farà”. L’ultima frase è davvero contorta. Provo a sintetizzare: nelle Democrazie Illiberali, sul tipo di quella ungherese di Orbàn, il Capitalismo si rafforza, accentuando i suoi tratti oligopolistici. La Democrazia Liberale ha sempre favorito il Capitalismo, ma a questo punto il Capitalismo avrà tutto l’interesse a scegliere, per il proprio tornaconto, il modello illiberale. Solo lo Stato, che ha avversato dalla nascita il Capitalismo, storico alleato ma ora traditore  della Democrazia Liberale, può salvare quest’ultima.Mi gira un po’ la testa. Lo Stato qui è visto come una sorta di entità trascendente, di cui le varie declinazioni politiche sono le forme immanenti, concrete, talune buone, talaltre degeneri. La Democrazia Liberale e la Democrazia Illiberale sono due di queste forme, tra loro antitetiche, anche sotto l’aspetto etico. Lo Stato ha all’origine avversato il Capitalismo, che invece la Democrazia Liberale ha sostenuto e scelto come alleato. Ora però il Capitalismo si sta schierando con la Democrazia Illiberale. Solo il nemico storico del Capitalismo, lo Stato, può venire in soccorso della Democrazia Liberale. In verità, lo Stato non è nulla di metafisico. E’ Stato la Democrazia Liberale, è Stato la Democrazia Illiberale. E lo Stato, nella sua versione assolutistica,  non è il nemico originario del Capitalismo, ma il padrino che l’ha tenuto a battesimo. La Democrazia Liberale è venuta dopo e ha continuato l’opera. La Democrazia Illiberale potrà completarla.

A suo modo la Cina è già una Democrazia Illiberale (com’ erano la vecchia Unione Sovietica e la stessa Cina di Mao), dove vige un Capitalismo oligopolistico, strettamente controllato dal regime. Il vero problema, allora , è l’assenza del mercato. La globalizzazione è degenerata proprio perché il Capitalismo, con le sue brutture, ha avuto il sopravvento sul mercato autentico. Quando i Tremonti parlano di “mercatismo” non sanno quello che dicono. Solo il mercato vero può distruggere lo Stato e insieme il Capitalismo: che non sono mai stati nemici, ma fedeli alleati fin dalla prim’ora.

Mi fa un po’ sorridere – Calenda non me ne voglia – l’idea di una Sinistra rinnovata che, come  un Angelo  ministro dello Stato, difende la Democrazia Liberale dal triste connubio fra Capitalismo e dispotismo democratico. Forse questo mio discorso “a molti fia sapor di forte agrume”, per dirla con il padre Dante. Attendo sereno qualche colpo di pietra. Sarebbe un atto di superbia dire che mi sento un po’  come Santo Stefano. 

Giovanni Tenorio

Libertino