Don Giovanni

Arlecchino, due padroni e un consigliere

C’è una scena esilarante nell’ “Arlecchino servitore di due padroni” che il grande regista Giorgio Strehler mise in scena per la prima volta, più di cinquant’anni fa, al Piccolo Teatro di Milano, con l’indimenticabile Ferruccio Soleri, e da allora è stato continuamente riproposto, con il medesimo successo di pubblico. E’ quella in cui Arlecchino, nel mezzo del palcoscenico, risponde contemporaneamente agli ordini dei due padroni di cui è al servizio, uno all’insaputa dell’altro. I due padroni non si vedono, ma si sentono i loro ordini; e Arlecchino, con straordinaria abilità, riesce a soddisfarli facendosi in quattro, lanciando piatti e distribuendo vivande a destra e a manca.

Ecco, il Presidente del Consiglio mi fa venire in mente Arlecchino, ma un Arlecchino assai meno abile e molto più scialbo. E anche meno elegante, con quell’insopportabile fazzoletto che spunta dal taschino della giacca. D’altra parte, un po’ tutti i membri del governo, a giudicare dal loro abbigliamento, sembrano villani rifatti. Salvini con la giacca è palesemente a disagio. Tutti gli altri maschietti portano la giacca aperta, con la cravatta svolazzante. E’ un’emulazione di Trump, l’esempio più clamoroso di villania rivestita di perbenismo ? Può darsi. Ricordo quel vecchio professore di Liceo che, ai tempi in cui a scuola gli studenti andavano in giacca e cravatta (e le fanciulle erano tenute a mettersi il grembiule nero), disse a un un alunno chiamato alla cattedra per un’interrogazione: “Fammi il favore di allacciarti la giacca”. Il Sessantotto ha fatto piazza pulita di quelle arcaiche consuetudini, che effettivamente sapevano un po’ troppo di muffa. Gli attuali governanti sono tutti figli del post-Sessantotto.

Ma torniamo a noi. Perché Conte è servitore di due padroni? Perché invece di dare un’impronta tutta sua al governo, come ogni primo ministro che si rispetti dovrebbe fare, fissandone l’agenda e coordinando l’operato di chi è a capo dei diversi dicasteri, si limita a fare il portavoce di quelli che veramente comandano: Di Maio e Salvini, legati da uno scellerato patto sulla cui base il governo è stato costituito, con una sorta di baratto: io ti concedo questo e tu mi concedi quello; io ti do la Flat Tax e tui mi dai il Reddito di Cittadinanza, e via di questo passo. Conte sta a guardare e dà un colpo al cerchio e uno alla botte. Salvini fa la faccia feroce con i migranti, Di Maio col “Decreto Dignità” mette i bastoni tra le ruote a un’economia in stentata ripresa. Mentre i due padroni di Arlecchino sono dietro le quinte, e Arlecchino resta il vero padrone della scena, Di Maio e Salvini sono sulla scena ed è Conte a rimanere dietro le quinte. C’è proprio poco da ridere. Quando fa capolino da dietro il palcoscenico, si ride solo del suo fazzolettino.

Per fortuna è arrivato uno che, del tutto disinteressatamente, vuol dargli qualche consiglio perché finalmente possa prendere in mano, con un’iniziativa forte, le redini dei ronzini che finora hanno trainato il carretto del governo. Chi è costui? Nientemeno che Giorgio La Malfa, che ogni tanto si rifà vivo, dispensando a piene mani i tesori della sua scienza economica.
Che cosa consiglia La Malfa junior al Nostro? In una lettera al “Corriere della Sera” propone a Conte di lanciare una proposta di politica economica capace di portarlo finalmente al centro della scena. Si tratterebbe di questo: fissare un obiettivo di crescita per i prossimi anni. Mettere in atto tutti gli strumenti finanziari, fiscali di investimento e di spesa necessari al raggiungimento dell’obiettivo. Presentare il piano alla Commissione Europea dimostrandone la validità, che consiste nel risultato di ridurre il rapporto debito/PIL grazie a un aumento del denominatore. Per questo sarà necessario uno sfondamento del deficit, che però sarà compensato da introiti fiscali più ricchi come effetto dell’espansione economica. Se i Commissari europei dovessero fare qualche smorfia, si potrebbe tenere di scorta un piano B, meno ambizioso, che comporti un deficit più ridotto. Capito? Per uscire da un debito che strozza l’Italia bisogna spendere di più. Poi, con le formule magiche del Verbo keynesiano, Ambarabacciciccocò la ripresa si metterà in moto, diventeremo tutti più ricchi, le entrate fiscali daranno al governo nuove risorse, il debito scenderà e vivremo tutti felici e contenti.

La Malfa junior, che pur ha già una bella età, crede ancora a Gesù Bambino. Non si accorge che a comperare i doni sono il papà e la mamma. i nonni, gli zii. Crede ai miracoli. Non si guarda intorno. Non si rende conto che tutti i Paesi che hanno adottato le sue ricette hanno fatto fallimento, mentre chi ha saputo tagliare le spese e ridurre il debito ha imboccato la strada di un’economia virtuosa. Crede ancora alla possibilità di prevedere il futuro, fissando traguardi fondati sul nulla. Ricordate i piani quinquennali sovietici? Sappiamo che fine hanno fatto. D’altra parte il padre Ugo, ai tempi dei primi governi di centro-sinistra, negli anni Sessanta del secolo scorso, era un accanito sostenitore della “programmazione”: parola magica, che avrebbe dovuto risolvere tutti i problemi, insieme con quell’altra, “politica dei redditi”. Tutto questo veniva gabellato come “liberalismo moderno”, con grande stizza di Giovanni Malagodi, segretario di un PLI adagiato su antiche glorie e ormai in triste declino.

A quei tempi tali bizzarrie potevano anche essere scusabili. Keynes (un Keynes tra l’altro mal digerito) era dato alla testa a tutti. Ma riproporre adesso quei ferrivecchi è da folli. Credere ancora all’effetto moltiplicatore della spesa pubblica in deficit è come credere a Gesù Bambino.

Speriamo che Conte non sia così babbeo da seguire il suggerimento. Lo prenderebbero a pernacchie, e ben gli starebbe.

Giovanni Tenorio

Libertino