Don Giovanni

Gentiloni il piccolo

Quando l’ho letto ho fatto un balzo sulla sedia: Gentiloni, chi era costui? Poi mi dicono che era ministro degli Esteri nel governo Renzi: se n’era accorto qualcuno? Infine vengo a sapere che è un nobile. Ohibò, un aristocratico come me! Comincio ad avere qualche dubbio. Gentiloni, Gentiloni… Che abbia qualche rapporto di parentela, magari alla lontana, con Vincenzo Ottorino Gentiloni Silveri, passato alla Storia per il “patto” del 1913  grazie al quale Giolitti, con l’appoggio dei cattolici – forse sarebbe meglio dire dei clericali – riuscì ancora una volta ad avere la maggioranza, salvo poi vedere il naufragio della politica trasformistica che l’aveva mantenuto a galla per quasi un decennio, travolta dai flutti della Prima Guerra Mondiale? Ma sì, altro che parente alla lontana, addirittura nipote!

Prima riflessione: nel Bel Paese, dai preti e dai loro seguaci è destino che non ci si possa liberare in eterno. Pensate un po’ alle bizzarrie della Storia: il Gentiloni nonno era un clericale che, per aggirare il non expedit pontificio che vietava ai cattolici di impegnarsi attivamente, come politici, nella vita istituzionale dello Stato sacrilego, siglò un patto con i giolittiani, impegnandosi a sostenere i candidati della loro consorteria in cambio della promessa programmatica di non ledere, una volta eletti, gli interessi della Chiesa. Era un andare ben oltre la politica consueta di Giolitti: che fino a quel momento s’era barcamenato fra socialisti e cattolici, guardandosi bene dallo stringere formali alleanze, specialmente con i secondi. Al massimo, ai  cattolici aveva riservato un’accorta strategia di di attenzioni, ad esempio mettendo da parte una volta per tutte il disegno di legge sul divorzio che all’inizio del secolo Zanardelli aveva presentato (“Il divorzio – disse cinicamente lo statista di Dronero – interessa solo a due persone: il papa e Zanardelli”). Era un venir meno al principio cavouriano che sosteneva la separazione netta di Chiesa e Stato. D’altra parte, Giolitti era stato anticavouriano anche nell’avversare la formazione di un partito cattolico ma non clericale: quella Democrazia Cristiana auspicata da Romolo Murri e da Luigi Sturzo, e fieramente contrastata prima da Leone XIII e poi da Pio X, perché puzzava di modernismo e pretendeva d’essere indipendente dalla gerarchia pretesca. Cavour invece ai suoi tempi s’era augurato la nascita di un partito cattolico, affermando ironicamente, in un suo discorso, che qualora il suo auspicio si fosse avverato, si sarebbe rassegnato a passare gli ultimi anni della sua carriera politica nei banchi dell’opposizione. Per Giolitti, molto meglio i clericali ligi alla gerarchia, da usare e gettare a proprio piacimento secondo le circostanze. E per il papato, stesso discorso: niente cani sciolti! Niente gentaglia troppo simile, nelle idee, al Daniele Cortis dell’omonimo romanzo di Fogazzaro, un altro modernista i cui scritti erano finiti nell’ Index librorum prohibitorum. Il Patto Gentiloni fu un successo, ma segnò la fine del giolittismo. La guerra avrebbe cambiato le carte in tavola. Al “ministro della malavita”, come lo chiamò Salvemini, non riuscì, col Fascismo, il giochetto che gli aveva consentito di blandire e asservire ai suoi disegni i socialisti riformisti e i cattolici clericali. Sappiamo quale fu l’esito. Intanto era nato, finalmente, un partito cattolico, il Partito Popolare di Luigi Sturzo, che ebbe il merito di avversare il Fascismo fin da principio. I Patti Lateranensi del 1929 furono ancora una volta un accordo fra gerarchia pretesca e politici clericali confluiti nelle file di un regime il cui capo era ormai salutato dalla Santa Sede come l’Uomo della Provvidenza. Quei Patti sono stati recepiti dalla costituzione più bella del mondo, con il consenso furbesco dei Comunisti di Togliatti (un ammiratore della politica giolittiana!), che speravano di imporre la propria egemonia aprendosi alle masse d’un’Italia ancora bigotta, tutta casa e chiesa, devota al culto delle Madonne delle lacrime e di Maria Goretti. Per fortuna non andò così. Anche se il prezzo è stato salatissimo: un’Italia consegnata a una Democrazia Cristiana formalmente svincolata dalla gerarchia pretesca, ma da un lato reazionaria nel suo atteggiamento censorio, bigotto e sessuofobico, e dall’altro sempre più lontana dal saggio liberismo economico che Sturzo propugnava (meritandosi le lodi di Einaudi).
E oggi? Oggi siamo al paradosso. Abbiamo un altro Gentiloni cattolico, che però fa parte di un partito nato dalla fusione di quanto rimaneva del vecchio PCI, dopo le metamorfosi subite in seguito al crollo dei regimi fratelli, URSS in testa, e le frange di sinistra della vecchia DC, fatta a pezzi dai magistrati di Tangentopoli. Gli altri ex-DC si sono sparpagliati un po’ di qua un po’ di là, diventando i nuovi clericali, lontani emuli di quelli del tempo Giolitti. Molti di loro hanno trovato rifugio tra le file berlusconiane, altri fra quelle casiniane, altri tra quelle dei Fratelli d’Italia, altri fra quelle degli ex-missini ex fascisti, altri fra i leghisti, altri fra i montiani (anche Monti è uno che va a messa, e magari anche alla loggia: lo faceva anche il mio papà Mozart)  ecc. ecc. ecc. Partecipano con fervore a tutte le manifestazioni reazionarie, dal family day (appellativo orrendo!) ai cortei contro il matrimonio dei culattoni, contro il cosiddetto utero in affitto, contro l’eutanasia ecc. ecc. Mentre il Gentiloni nonno, clericale, doveva patteggiare con i candidati conservatori, il Gentiloni nipote, cattolico ma non clericale, dovrà patteggiare con i cattolici-bigotti delle altre formazioni, nel tentativo di raffazzonare, se possibile, una legge elettorale un po’ meno oscena di quella che il boy scout Renzi ( altro parto delle sacrestie) gli ha lasciato in eredità. Fatica improba, e destinata probabilmente al fallimento.
Parlando di Napoleone III, Victor Hugo ebbe a definirlo sarcasticamente Napoleon le petit, mettendolo a confronto con Napoleone il Grande (grande soprattutto come delinquente, aggiunta mia). Si licet parvis componere magnis (chiedo scusa se mi ripeto), anche Gentiloni nipote, se paragonato a Gentiloni nonno, potrebbe essere battezzato Gentiloni il piccolo.
E non solo perché fallirà nel suo tentativo. Anche e soprattutto perché ha messo insieme un governo tanto osceno che più osceno non si può. Che ci fa la Boschi, nelle sue file? S’è mai visto uno che è stato bocciato in una classe scolastica passare senza motivazioni alla classe successiva? Per la Madia, un’altra bocciata, nientemeno che dalla Corte Costituzionale, non solo classe successiva, ma stesso posto! Neanche il banco degli asini avrebbe meritato. Per tener buoni i terroni, che sono stati in prima fila nel respingere l’oscena riforma costituzionale Renzi-Boschi, hanno inventato un Ministero della Coesione Territoriale e del Mezzogiorno. Che cosa potrà fare? Se pensiamo ai guasti del cosiddetto meridionalismo, dall’Unità ad oggi, vengono i brividi (vi ricordate che cosa disse Salvemini dell’Acquedotto Pugliese? Che ha dato più da magiare che da bere). Per fortuna non ci saranno né tempo né voglia né soldi per riparlare del Ponte sullo Stretto.
La farsa raggiunge il suo culmine (la sua Spannung, direbbero i tedeschi) con la neo-ministra dell’istruzione Valeria Fedeli che, vergognandosi di avere (forse) un semplice diploma, dichiara di essere laureata, salvo essere immediatamente sbugiardata da un suo compagno di partito e dover correre maldestramente ai ripari. Si può essere più oche di così? Del suo esser priva di laurea avrebbe dovuto farsene una bandiera, e dire: “Non ho la laurea, ma  valgo mille volte di più di tanti laureati analfabeti di ritorno (e alcuni anche di andata) che magari seggono sugli scranni del Parlamento!”
E’ un pretendere troppo in un Paese in cui il titolo di Dottore rimane un segno di eccellenza, anche se viene ugualmente riconosciuto a un laureato con 110 e lode in Fisica Nucleare all’Università “Enrico Fermi”di Pisa e a uno sfigato che è arrivato a mala pena a raccattare una laurea di leguleio, col minimo dei voti, in una delle Università più scalcagnate, per essere promosso capo di qualche Polizia Locale.
Ma lo sa, la signora neo-ministra, che Benedetto Croce, ministro della Pubblica Istruzione negli anni 1920-21, non era laureato? Eppure non era il primo bischero che passava per la strada…

Giovanni Tenorio

Libertino