Don Giovanni

Leggi stupide e inutili

Un’altra parolaccia entrata da qualche tempo nel vocabolario italiano è “fake news”. Non voglio dire che sia una parolaccia in sé. Nessuna parola è sconcia, neanche le più triviali. Tutto dipende dal contesto in cui vengono pronunciate o scritte. Dante diceva .”In chiesa coi santi e in taverna coi ghiottoni”: Giusto: anche lui, quando nell'”Inferno” deve descrivere le realtà più degradate, non si fa scrupolo di usare termini come “merda” e “culo”. Nel “Purgatorio” e nel “Paradiso” no: sarebbero fuori luogo. Così, una parola di una lingua straniera diventa inopportuna quando viene usata a indicare cose fatti o situazioni che potrebbero essere espressi con la medesima precisione nella propria lingua. Perché usare l’orrido “bypassare” quando si può dire “scavalcare”? Guardate che il mio non è un discorso nazionalistico. E’ una questione di buon gusto. Una lingua va parlata bene non perché dietro c’è una bandiera nazionale (la lingua italiana esisteva da secoli prima del tricolore) ma perché -ne sono sempre più convinto- chi parla male pensa anche male. Chi non sa usare il congiuntivo probabilmente non conosce il dubbio: e chi non conosce il dubbio è un soggetto pericoloso.

Ma torniamo alle “fake news”, che in italiano si direbbero meglio bufale, baggianate, frottole, panzane, stupidaggini; anche cazzate o coglionate, se vogliamo usare un registro più basso, allorché il momento e il luogo lo consentano, o addirittura lo richiedano. Da quando hanno assunto questo nome esotico, sono diventate un problema politico. Non che prima non fossero tali. Al punto che, nel Codice Penale tuttora vigente in italia, l’art. 656 punisce proprio la diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose, atte a turbare l’ordine pubblico. Un reato da codice fascista? Qualcuno in passato l’ha detto: ci sono già altre disposizioni che puniscono la notizia falsa quando possa procurare danni alla società, alla politica, all’economia. Si pensi al procurato allarme, all’aggiotaggio, al disfattismo politico o economico, all’attività antinazionale del cittadino, e via di seguito. Tutti reati che, probabilmente, in un contesto anarchico non avrebbero alcun motivo di esistere, ma che in un sistema liberal-democratico possono avere una loro giustificazione. Ma perché una norma più generica, che allarga indebitamente la fattispecie? La ragione più sottile sta in quella precisazione conclusiva: “atte a turbare l’ordine pubblico”. Il “fascismo” della norma sta tutto qui: quando una notizia falsa turba l’ordine pubblico? Quando chi comanda pensa che sia così, o ha tutto l’interesse a farlo credere.

Sono convinto che, se potessero, gli attuali governanti inasprirebbero ulteriormente le sanzioni comminate dall’articolo in questione. Qualcuno ha già pensato che si potrebbe aggiungere un’integrazione che contempli anche le notizie false divulgate in rete: aggiunta inutile, il testo così com’è già le comprende; quel che conta è il messaggio, non il medium. A meno che si voglia inasprire la pena riguardo alle “fake news tecnologiche” perché in questo caso il medium le rende più pervasive e quindi più pericolose. “Il medium è il messaggio” diceva Marshall Mc Luhan, intendendo proprio significare che le caratteristiche tecnologiche del medium agiscono pesantemente sul significato, sull’incisività e sulla comprensione di quel che viene divulgato in un determinato contesto sociale. Ma in realtà ai politici interessa soltanto salvare la propria verità, bollando come disonesto disfattismo ogni critica al loro operato. “Il Duce ha sempre ragione”, si diceva al tempo del Fascismo. Oggi si dice che il popolo ha sempre ragione. E se il governo è il governo dei partiti voluti dal popolo (magari il popolo che si esprime sulla piattaforma Rousseau, o qualcosa di simile), allora il governo ha sempre ragione. Non è un’invenzione dei Cinquestelle. Lo diceva anche Berlusconi, a suo tempo e a suo modo; e non esitava a trarne le debite conseguenze. Padrone incontrastato dei media radiotelevisivi, con il famoso “decreto bulgaro” estromise dalla RAI Enzo Biagi, che lo criticava con garbo ma anche con fermezza.
Di Maio e i suoi accoliti vorrebbero fare di più: probabilmente, in questo caso, con il pieno accordo di Salvini. Hanno già detto che si dovrebbe impedire la pubblicità delle aziende di Stato sui giornali, che criticano continuamente e ingiuriosamente, con giudizi falsi e temerari, l’esecutivo. E’ un finanziamento a poteri forti che lavorano contro chi vuol fare dell’Italia un Paese ricco e felice. Attività antipatriottica! Anzi, si vorrebbe arrivare all’abolizione di ogni contributo pubblico, di qualsiasi natura, alla stampa. Il che sarebbe anche giusto, a patto che si accompagni all’abolizione di ogni altro finanziamento, dalle imprese allo sport al cinema ai circhi al teatro alla musica e a tutto quello che dovrebbe stare in piedi con le proprie gambe. Ma è chiedere troppo a chi vorrebbe finanziare addirittura il dolce far niente.

La cosa che più fa sbellicare dalle risa è che proprio questi rigidi censori delle “fake news” a proprio danno sono poi i più spudorati costruttori di notizie false. Si limitassero a inventare bufale e metterle in circolo! Nossignori, fanno di peggio. Si affidano a un loro tirapiedi, un personaggio che continua a credere che l’attentato alle Torri Gemelle sia stato un complotto dei servizi segreti, di cui anche Bush fu tenuto all’oscuro, per manipolare un video in cui si fa dire a Jeroen Dijsselbloen, presidente dell’Eurogruppo fino allo scorso gennaio ( il suoi successore, attualmente in carica, è Mario Centeno) quel che non ha mai detto, facendone un istigatore al boicotaggio dell’Italia, attraverso oscure minacce di rappresaglie economiche. La cosa ha fatto scandalo, ma non più di tanto.
La Magistratura, quando Salvini impedì lo sbarco dei migranti dalla nave “Diciotti” aprì un fascicolo imputando al ministro alcuni reati, da cui proprio in questi giorni è stato scagionato, in quanto ritenuti insussistenti. Si disse allora che era una atto dovuto, in quanto in Italia l’azione penale è obbligatoria tutte le volte che le autorità competenti ravvisino in un comportamento anche solo una presunzione di reato. Benissimo: se le cose stanno così, ai sensi dell’art. 656 si apra un fascicolo anche contro chi ha alterato quel video e si indaghi su chi sta dietro quell’operazione. Se poi qualcuno continua a dire che quel video è immacolato, e che chi l’ha manomesso non ha fatto altro – come l’autore stesso stesso ha dichiarato a sua discolpa – che dare un’interpretazione alle parole di Dijsselbloen (e l’interpretazione rientra nella libertà di parola), dovrebbe essere pronta per lui un’altra incriminazione: quella di apologia di reato (art. 414 comma 3 c.p.). Altro bel crimine da codice fascista. Ma fin che la legge c’è, continuano a dirci, va applicata. Siano coerenti!

Tutte leggi che, sia ben chiaro e lo voglio ripetere, in una società anarchica non avrebbero ragione di essere. Anche le notizie palesemente false potrebbero essere diffuse a volontà. Non si può tutelare la verità come non si può tutelare il valore dei titoli di studio. La piena, assoluta libertà, solo quella, può far emergere il meglio (non dico il Vero, che nessuno può conoscere). Qualcuno in passato suggerì di modificare l’art. 656 dichiarando come reato semplicemente la diffusione di notizie false, punto e basta. “Péso el tacon del buso”! Diventerebbe un reato non certo più fascista di quel che è ora, ma di sicuro più stupido e pericoloso, perché escluderebbe, come circostanza necessaria alla fattispecie dell’illecito, l’attitudine al turbamento dell’ordine pubblico. Col bel risultato che se io dico, in un articolo di giornale (come mi è capitato di leggere qualche giorno fa) che Galileo scoprì la legge dell’isocronismo del pendolo misurando le oscillazioni di un lampadario nel duomo di Pisa, sarei passibile di condanna. Notizia falsa! Infatti negli anni Sessanta dello scorso secolo, durante un restauro, si accertò che quel lampadario fu collocato dov’è dopo la scoperta galileiana.

Troppe leggi, molte inutili, la più parte stupide e mal fatte. Viva l’anarchia!

Giovanni Tenorio

Libertino

12 pensieri riguardo “Leggi stupide e inutili

  • Alessandro Colla

    Lo scritto suggerisce la rilettura dell’articolo pubblicato il quattordici dicembre dello scorso anno. Approfitto per dire la mia su un punto che in detto articolo mi era sfuggito. Si sostiene che se qualcuno dicesse che il trenta per cento sia uguale al cento per cento non verrebbe preso per pazzo ma per scemo. E allora perché Keynes non è stato preso per scemo?

  • Si sta imponendo anche un altro termine: “storytelling” che significa semplicemente “sparar cazzate”, perlopiù in politica.

    L’inglese è diventato un po’ come il latino e il francese fino agli anni 60: piazzandolo qua e là ogni tanto si tenta di fare bella figura e/o addolcire termini che parrebbero volgari se detti in lingua nazionale.

    Il latino però non ci si sarebbe mai sognati di attaccarlo quale intrusore, anzi… e anche il francese era visto in fondo come una lingua dotta, invece l’inglese viene visto come un corpo estraneo invadente.

    Io non mi preoccuperei più di tanto della lingua, dovrebbe essere un mezzo, non un fine. Non sono un dadaista, ma i cruscomani non mi piacciono molto. Tra un Tullio de Mauro (rip) che pontificava di purismi lessicali, più adatti ai bagliori di un impero fatto di libri e moschetti, e una semplice Virginia Raggi che parla come mangia, ma perlomeno riesce a conversare in un ottimo inglese senza fare figuracce alla Renzi, scelgo la seconda.

    Megalexandros diffuse la lingua greca a fil di spada: o parlavi il greco o morivi.
    Noi abbiamo l’opportunità – continuando su questa strada – di sostituire pian pianino la lingua dei nuovi dominatori (hanno vinto loro, mettiamoci il cuore in pace) alla nostra senza violenze fisiche, ma solo lessicali.

    In fondo è meglio così.

  • Alessandro Colla

    Non è proprio “meglio così”. La lingua italiana è oggettivamente più ricca lessicalmente e più bella stilisticamente di quella inglese e possiede maggiori radici storico – letterarie. Lo dicono inglesi e anglisti, così come sento molti cuochi stranieri sostenere che la cucina italiana rimane la migliore del mondo. Hanno vinto loro e noi siamo stati gli aggressori nella seconda guerra mondiale ma il vincitore intelligente non chiede ai giapponesi di abolire la monarchia perché gli aggrediti a Pearl Harbor appartengono a una repubblica. Conservare il Colosseo da eventuali appetiti di un costruttore edile vincitore non significa identificarsi con l’imperialismo di libro e moschetto. Altrimenti ogni difesa del patrimonio storico sarebbe monopolio dei “libromoschettisti” che invece, insieme ai loro compari sabaudi, tanti danni urbanistici hanno provocato a Torino, Firenze, Roma, Napoli e via dicendo. Del resto non sono gli anglofoni a pretendere che si usino i loro termini ma la moda imperante. Oggi va di moda l’utilizzo dei termini inglesi senza necessità, così come negli anni trenta dello scorso secolo andava di moda cambiare i cognomi stranieri per italianizzarli. Ed era una moda obbligatoria, non una richiesta di purezza partente dalla base. Veri fascisti sono coloro che impongono la lingua straniera per obbligo, scrivendo testi legislativi utilizzando ingiustificatamente termini non italiani per atteggiarsi a colti. O forse nemmeno per quello ma solo per puro e istintivo provincialismo volto a nascondere la loro ignoranza della lingua madre. La macedonia linguistica non serve a nessuno. E’ importante imparare l’inglese, specie oggi per ragioni legate alla tecnologia informatica, ma utilizzare ogni tanto qualche parola esotica per mostrarsi cosmopoliti quando in realtà si è inguaribilmente mercantilisti è pura ipocrisia. Poca importanza ha la maggiore o minore padronanza semantica degli anglomani, o meglio degli “anglofonomani” se mi si concede l’ardito neologismo. Renzi o Raggi per me pari son. Solo sessualmente potrei preferire la seconda ma don Giovanni non me ne vorrà se le mie abitudini sono improntate alla fedeltà coniugale.

    • L’ultima parte era una provocazione. Non credo che avverrà mai la sovrapposizione e neppure il bilinguismo tipo Olanda o Malta, che tra l’altro richiede un popolo portato ad imparare facilmente le lingue, quale non è quello italiota, che spesso non sa parlare manco la sua.

      Comunque ogni stato ha un suo approccio verso la dominanza dei termini inglesi.
      Ad es. la Francia notoriamente detesta l’inglese, cerca di evitarlo (computer=ordinateur) e senza timore del ridicolo stravolge pure le sigle (NATO=OTAN, AIDS=SIDA…). La Spagna è simile alla Francia (computer=ordenador), spesso accetta le parole più comuni e le “ispanizza”: el lìder, el tùnel, el tènis; el wifi (si scrive come in inglese, ma si pronuncia “el vifi”).

      L’Italia invece risulta essere molto permeabile all’ingese: moda o non moda ne va preso atto. Andremo avanti così in un eterno e caotico limbo linguistico, solo non capisco perchè preoccuparsene più di tanto. Eppure dovrei essere io qui il meno anarchico e persino un po’ fascistello…

  • Non mi pare che Tullio De Mauro possa essere annoverato tra i cruscanti (d’altra parte, l’odierna Accademia della Crusca è ben lontana dalle pregiudiziali puristiche di un tempo). Direi il contrario, e ne abbiamo già parlato in altra occasione, riprendendo un giudizio di Ernesto galli della Loggia. Se c’è qualcosa che gli si può imputare, è invece di aver proprio favorito – sia pur suo malgrado e con le migliori intenzioni- una certa sciatteria nell’insegnamento della lingua italiana. Non potremo mai però essergli abbastanza grati per aver tradotto e commentato da par suo, per l’editore Laterza, il “Corso di linguistica generale ” di De Saussure: un altro che con il purismo non ha nulla che fare, ma piuttosto con la lingua nella sua concretezza d’uso.
    Io continuo a credere che ogni lingua lingua non sia bella in sé, ma per l’uso che se ne fa. L’inglese degli economisti bocconiani è orrido, l’inglese di Shakespeare o di Eliot meraviglioso. Polemizzando con un tale che mostrava disprezzo per il dialetto milanese (a quei tempi una vera e propria lingua, con tanto di eccellente letteratura), Carlo Porta diceva, in un suo sonetto, che le parole di un linguaggio sono come una tavolozza di colori, da cui si può trarre un quadro brutto o bello secondo la maestria del pittore. Io non ho proprio niente contro l’inglese, neppure contro l’inglese d’oggi. Mi infastidisce che sia usato a sproposito e mal parlato. Mi infastidisce che se ne usino, in italiano, alcuni termini senza nessun motivo, storpiandoli e talvolta piegandoli a significati che in origine non hanno. Divento iracondo quando sento pronunciare “Tiutor” o “Midia”, o “Giunior”, che sono parole latine. In somma, mi dà fastidio l’ignoranza. Mi vengono i brividi quando ascolto l’eloquio di Di Maio o di Salvini, vado in brodo di giuggiole quando sento un americano colto (sono pochi, ma ci sono) parlare in un perfetto italiano, molto meglio di chi è nato e ha studiato in Italia. Nessuno ci colonizza linguisticamente, caso mai siamo noi a lasciarci colonizzare, anzi a colonizzarci – e male – con le nostre mani.
    Quanto alla bellezza e all’armonia della lingua italiana, fu Thomas Mann a dire che proprio per questo è la lingua che si parla in Paradiso. E’ una delle tre ragioni che mi fanno rimpiangere di non esserci (le altre due sono la musica di Bach, eseguita nelle cerimonie ufficiali, e quella di Mozart, prediletta dagli angeli con la compiacenza del Padreterno: così almeno sostiene, se ben ricordo, Karl Barth). Ma ameno all’Inferno, dove sono stato confinato, ci sono donne bellissime, il che mi conforta e ripaga a usura per le altre mancanze. Le racchie e le beghine sono tutte in Paradiso. Ci sono anche Donn’Anna e Donna Elvira. Che Dio se le tenga strette!

    • In effetti TdM, a parte una sua intervista in cui si parlava di lingua italiana e in cui appariva un po’ pedante, io non l’ho mai conosciuto bene per cui senz’altro l’ho citato a sproposito e mi spiace. Onore comunque a lui e soprattutto al fratello tragicamente sparito nel nulla.

      Su “Tiutor” o “Midia”, o “Giunior” sono più che d’accordo.
      E ci metto pure “data”, plurale latino di “datum” e viene pronunciata “deta” (usata molto in campo informatico).

      E qui si torna al fatto che noi non abbiamo il coraggio di pronunciare i termini stranieri alla maniera nostra, come fanno senza porsi problemi inglesi e spagnoli,
      il che risolverebbe il problema.

      Quindi rivaluterei i borgatari romani alla “Meliconi Ferdinando detto l’americano” che negli anni cinquanta pronunciavano James Dean e Fred Astaire esattamente come sono scritti. Avevano capito tutto!

  • Alessandro Colla

    Il “preoccuparsene più di tanto” è determinato dal fatto che si ritiene giusto preoccuparsi, a titolo di paragone, della salvaguardia del Colosseo, del duomo di Milano, della cattedrale di Noto o degli scavi di Pompei. Memoria, cultura e anche tradizione che non i fascistelli ma i fascistoni degli scorsi anni trenta hanno dimostrato di non rispettare con i loro sventramenti imperiali. Non trovo ridicolo scrivere o tradurre le sigle nella propria lingua, in fondo anche noi per le Nazioni Unite abbiamo tradotto ONU in luogo di UNO. Sindrome da ImmunoDeficienza Acquisita si può siglare in italiano nello stesso modo in cui avviene in Francia. Forse oggi non è più pratico per noi scrivere SIDA, per loro magari sì. Come per noi potrebbe essere più pratico continuare a scrivere NATO. Certo, non scriverei mai MG per identificare una “Motori Generali” in luogo di General Motors. Difendere la purezza di una lingua è difendere il sapere, la cultura in sé. Inglese compreso. Ben venga quello di Shakespeare così come quello di Marlowe. di Eliot, di Wilde o quello degli americani Fitzgerald, Steinbeck, Bellow, Tennessee Williams, Hemingway e via dicendo. Gli anglisti come Mario Praz abbiano pure l’onore degli altari. Gli anglomani alla Matteo Renzi si accontentino dell’altare di Banca Etruria. Anzi: di Etrury Bank.

    • Ma non erano in discussione Pompei, Colosseo e patrimonio artistico vario.
      Se vogliamo criticare gli sventramenti imperiali facciamolo pure, la porta è aperta.

      L’ONU si riferisce ad un passato in cui l’inglese non era ancora così diffuso.
      Fino agli anni 80 (più o meno) i film americani uscivano con titolo italiano che spesso ne stravolgeva il vero significato per ragioni commerciali. Oggi quasi sempre escono col titolo originale, se proprio è complicato lo si accompagna con un secondo titolo italiano. Credo che se nascesse oggi, l’ONU lo chiameremmo UN anche noi (la sigla UNO non mi pare sia mai stato esistita).

      Giusto non scrivere MG anche perchè tra l’altro è un glorioso marchio britannico.

  • Dico ancora la mia e poi chiudo.

    Ho la registrazione di un “Laudate Dominum” di Berthier eseguita da un coro tedesco.
    ♫♪
    Laudate dominum,
    laudate dominum,
    omnes gentes alleluja
    ♫♪

    “Gentes” viene pronunciato “ghentes” e vabbè, sono tedeschi, hanno la “g” dura e non li hanno informati. L’incisione tuttavia è bellissima e non è per questo stata ritirata dal mercato. Quindi oltre a inglesi, francesi, spagnoli, anche i crucchi si fanno pochi problemi con i termini stranieri. Gli unici a farseli siamo noi.

    Se quegli inutili barbogi della Crusca (ma non dovevano chiuderla per scarsità di fondi? più che crusca è zizzania, non muore mai!) si pronunciassero ufficialmente dicendo che non è “peccato” pronunciare all’italiana i termini stranieri (in un discorso italiano ovviamente), avrebbero fatto la cosa più utile da quando esistono.

    Agli italiani sembra proprio che occorra un “tiutor” che gli mostri la retta via.

    • Perché tutto questo astio contro l’Accademia della Crusca? Se è perché gode di un finanziamento pubblico, è una pecca che condivide con decine di altri enti e istituzioni: da anarchici possiamo deplorarla, ma il discorso ci porterebbe lontano, e non ha attinenza con il nostro argomento. L’Accademia ha una storia di tutto rispetto, e se col senno di poi può essere criticata per aver in passato assunto posizioni di eccessivo purismo linguistico, proponendo come esclusivo modello da seguire l’Italiano del Trecento, va riconosciuto che ha sempre svolto una funzione positiva per lo studio, la diffusione e il buon uso della lingua italiana, nonché per aver stabilito il canone dei grandi autori che, fin dalle origini con le “tre corone” Dante Petrarca e Boccaccio, hanno portato l’idioma del “bel paese là dove il sì sona” a una gloria letteraria imperitura. Ha contribuito quindi a formare un’ identità italiana “alta”, “aristocratica”, ben prima del tricolore , dell’inno di Mameli e della Guerra del 15-18; la quale ultima un’identità “bassa” e “democratica” l’avrà anche formata (ameno così si dice), ma a prezzo di stragi, distruzioni e tutto quel che n’è seguìto, Fascismo compreso. E allora, viva le battaglie della Crusca, che non hanno mai fatto male a nessuno.
      Quanto alla pronuncia del latino, il discorso è piuttosto complesso. Vero che i tedeschi d’oggi dicono “ghentes” perché faticano a pronunciare le consonanti affricate post-alveolari, ma pronunciavano così anche i Romani del tempo di Cicerone e Cesare: e tale pronuncia “restituta” è l’unica oggi adottata nelle scuole tedesche. La pronuncia ecclesiastica è tarda, anche se è l’unica giusta per i testi del rito cattolico. Riccardo Muti nelle sue esecuzioni di musica sacra la pretende, anche da cantanti stranieri, e fa benissimo. Ascoltate, sotto la sua bacchetta, il “salve Regina” di Porpora, cantato dal mezzosoprano viennese Angelika Kirkschlager. Un incanto.
      Pronunciare le parole straniere secondo le regole della propria lingua? Sì, ma solo quando sono diventate a tutti gli effetti parole della lingua in cui sono state accolte. Così diremo “computer” e non “compiuter” (tanto più che deriva dal verbo latino “computare”); e fanno bene gli americani a pronunciare “gènitor” il latino “janitor” (“portinaio”), con cui indicano il bidello universitario. Altrimenti, le parole straniere vanno pronunciate bene, secondo le loro regole; oppure se ne fa a meno. Ricordo un vecchio disco fonografico in cui non so quale attore inglese recitava il meraviglioso finale del ” Doctor Faustus” di Christopher Marlowe. Interpretazione affascinante. Peccato che quel finale contenga un verso latino : “O lente, lente currite noctis equi”. Sapete come veniva pronunciato? Più o meno così: “O lenci, lenci kiurìti noktis iquài”. Uno strazio. Sarebbe stato meglio tagliarlo.

  • Mi inchino alla sua cultura, Don Juan, ho imparato qualcosa.

    (strafalcioni a stringa tipo “O lenci, lenci kiurìti noktis iquài” ne ho sentiti anch’io; peccato non averne preso nota e non poterli riportare).

  • Ho fatto un giro sul sito degli “inutili barbogi” che non odio, sia ben chiaro, ho solo una sana e precisa idea della loro non indispensabilità. Cosa ho trovato? Una normalissima e scontata e comoda posizione del tipo “teniamo i piedi in due staffe che non si sa mai, l’importante è che arrivi il 27 del mese” che conferma le mie idee.

    ***
    E la Crusca che cosa ne pensa della lettura “storpiata” degli anglo-latinismi?
    «Sul sito dell’Accademia – afferma Setti – è stata pubblicata una risposta
    dalla quale risulta chiaro come anche i dizionari non siano del tutto allineati su
    questo problema. In particolare per summit e mass media la conclusione è che non
    è sbagliata nessuna delle due pronunce». Comunque la prestigiosa istituzione per la
    tutela dell’italiano mette le mani avanti: non può essere consentito un approccio a maglie larghe. «La minore conoscenza diffusa del latino, accanto alla sua perdita di prestigio nei confronti dell’inglese, nuova lingua “universale” – chiarisce la docente
    di Firenze – produce anche una serie di obbrobri, per cui parole o locuzioni latine vengono pronunciate secondo le regole dell’inglese.
    ***

    Articolo integrale su:
    http://www.accademiadellacrusca.it/sites/www.accademiadellacrusca.it/files/page/2015/12/16/avvenire_15-12-2015_1.pdf

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