Don Giovanni

Draghi e Kuroda sommersi da una valanga di Bitcoin (ma non più di 21 milioni)

“Troppe note, il mio caro Mozart”
“Non una di più di quanto necessario, Maestà!”

Pare sia stato questo lo spigoloso colloquio svoltosi tra il mio caro papà e l’imperatore Giuseppe II dopo la prima rappresentazione del “Ratto dal serraglio” al Burgtheater di Vienna, il 16 luglio 1782. Osservazione sciocca, da vero presuntuoso che nulla capisce di musica, quella del sovrano; risposta quanto mai pertinente e verace quella del musicista:credo che in tutta la sua copiosa produzione una nota di troppo non si trovi neanche a cercarla col lanternino. Un’inflazione di note annoia. Lo stesso un’inflazione di parole. Sono i cattivi scrittori ad essere inutilmente verbosi; i migliori, se possono, prosciugano; e se proprio si dilungano in pagine e pagine di prosa o di versi vuol dire che proprio di quelle pagine c’era bisogno, né una di più né una di meno. Altrimenti si sbadiglia, si chiude il libro e si va a dormire. Pensate allo stile di Tacito, il più grande storico della latinità: in due parole sa concentrare concetti di grande pregnanza. Nel Cinquecento l’umanista Bernardo Davanzati si provò a tradurlo cercando di superalo in concisione. Pensava anche lui, giustamente, che inflazionando le parole se ne sminuisse la potenza espressiva. Era anche acuto osservatore dei fatti economici, e si accorse che, allo stesso modo delle parole, anche la moneta, se viene artificiosamente gonfiata, finisce col non valer più nulla.

Eh, sì, cari amici, quelli erano tempi in cui la scienza triste non era ancora stata fondata come disciplina autonoma. Non esistevano esperti abilissimi nel maneggiare astrusi algoritmi. Il bel volgar toscano non era stato ancora contaminato dalle mostruose nomenclature che oggi insozzano le pagine finanziarie dei quotidiani e vengono esibite come mantra in tutte le discussioni dell’odiosa materia. C’era gente che, anche grazie a una cultura filosofica e letteraria di prim’ordine, per nulla disdegnosa delle più recenti acquisizioni scientifiche, sapeva ragionare fuor degli schemi comuni. Era l’epoca in cui dalle colonie d’America giungevano in Europa enormi quantità di metalli preziosi. Gli allocchi pensavano che fosse tutta ricchezza. Invece no: gli spagnoli, che srembravano dover essere i primi beneficiari di tanto ben di Dio, vedevano crescere i prezzi di tutte le merci e di tutti i servizi, mentre l’oro e l’argento in buona parte scivolavano via verso altre destinazioni, ad arricchire i mercati delle Fiandre e dell’Olanda. Chiaro: il denaro corre dove ci sono occasioni di investimento, grazie alla fiducia ispirata da un buon governo liberale e alla sagacia di chi ha il gusto dell’intrapresa. Dove c’è malgoverno, tirannia, avvilimento, infingardaggine e parassitismo non si fermerà mai.
Vi ricorda niente questo scenario? Oggi non abbiamo più i Davanzati, in compenso abbiamo i Brunetta, che credono nel verbo keynesiano come neppur il cardinal Ravasi crede più nei Testi Sacri. Crede anche lui, come tutti gli altri suoi più illustri compari, premi Nobel e banchieri centrali, che l’inflazione sia un bene. Si svaluta la moneta? Ne trarranno beneficio i debitori, primo fra tutti lo Stato. I creditori possono andare a farsi friggere. L’hanno voluto? Loro danno. Poi -sostengono- se si prevedono prezzi più alti in futuro, si investe, altrimenti no. Così almeno dice la Dottrina. Però pare che non funzioni. E allora? Tutto sbagliato? Neanche per idea, si è peccato per “poco di vigore”, come avrebbe detto Dante: bisognava stampare più denaro, come sta facendo Haruhiko Kuroda in Giappone. Pare però che anche lì la produzione economica soffra di calma piatta. Guardate però -ribattono- che successo ha avuto la Befana Yellen negli Stati Uniti, continuando a immettere nel sistema caterve di dollari, sulla scia del suo predecessore Bernanke! D’accordo -si potrebbe obiettare- tuttavia anche la ripresa americana sembra piuttosto fragilina, tant’è vero che la Befana ha sì cominciato ad aumentare timidamente il costo del denaro, ma con qualche riluttanza, rimanendo pronta a far dietro-front alle prime avvisaglie di nuove tempeste. Molto probabili, viste le nuvole che si addensano sull’orizzonte internazionale: rallentamento dell’economia cinese, crisi profonda del Brasile, gravi difficoltà della Russia anche per il tracollo del prezzo del petrolio. Brunetta pare aver finalmente capito: il denaro fresco può attecchire dove c’è fiducia e la ripresa è già in atto, non dove c’è sfiducia e recessione. Come per l’oro e l’argento che nel Cinquecento fuggivano dalla Spagna per salire a Nord. Oggi però la cartaccia di Draghi non genera aumenti di prezzi nelle merci e nei servizi perché scivola tutta quanta-anziché nei floridi mercati dell’economia produttiva – nella speculazione borsistica, dove si gonfiano bolle che prima o poi scoppieranno, o finisce nella pancia delle banche sotto forma di debito pubblico. Che direbbe una persona assennata? Che il paradigma è radicalmente sbagliato, va buttato nella spazzatura. Invece si persevera. Che dice il buon Brunetta? Che Draghi non deve limitarsi a promettere di fare “whatever it takes”, come continua a ripetere, ma deve proclamare chiaro e forte all’Europa che il sistema va cambiato in senso keynesiano, allentando i vincoli d’austerità che strozzano la ripresa. La prima colpa è, per lui, della solita Merkel, tedescona egoista e dalla testa dura. La Germania, che ha una bilancia dei pagamenti in forte attivo, dovrebbe spendere di più e aumentare i consumi interni, così darà una mano alla ripresa di tutti i Paesi europei ancora in crisi. Rivedere Maastricht, concedere più flessibilità alle manovre finanziarie dei governi!
In somma: largo al deficit accompagnato dalla moneta facile. Dalla padella nella brace. Vi ricordate com’è nato l’Euro? Si voleva porre un freno alla potenza tedesca, che con l’unificazione delle due Germanie metteva paura, suscitando sinistri ricordi. In particolare era la Francia a farsela sotto. Riuscì a ottenere che le Germanie si unissero sotto un unico governo a patto che rinunciassero al Deutsche Mark per riparare sotto l’ombrello di una moneta comune. I tedeschi accettarono, ma vollero che tale moneta fosse regolata secondo un modello non dissimile da quello che, nel secondo dopoguerra, aveva consentito al Marco di diventare una moneta forte, garantendo al Paese un invidiabile successo economico. E così fu. Diciamolo francamente: non era sbagliato. Finalmente si sarebbe posta fine alla finanza allegra di tanti Paesi, fra cui l’Italia. Un economista della Scuola Austriaca come Jesus Huerta de Soto arrivò a convincersi che un sistema di cambi fissi intraeuropei, come l’Euro voleva essere, era una prima approssimazione a una struttura monetaria su base aurea. Si illudeva anche lui. Non è mai capitato che si introducesse con successo e stabilmente una moneta unica in un’area politicamente frammentata. L’Europa è ben lontana dall’essere un federazione con un governo centrale che controlla il bilancio e la fiscalità generali. Ognuno va per conto suo. Era inevitabile che il processo di unificazione monetaria si andasse subito inceppando e sfilacciando. Per entrare nell’Euro si sono fatte carte false, truccando bilanci e arrivando addirittura, come fece Prodi in Italia, a far pagare un’imposta per raggiungere le condizioni minime indispensabili a poter essere ammessi nel novero degli eletti. Promise che l’avrebbe restituita; qualche tempo dopo i sudditi si dovettero accontentare di qualche briciola d’elemosina. La crisi economica partita dagli USA nel 2008 ha portato i nodi al pettine. Inevitabile che l’Euro rischi di finire a pezzi. Ognuno cerca di tirare l’acqua al suo mulino. Aumenta di continuo il
numero di chi vorrebbe tornare alle vecchie monete nazionali. Molti italici sperano di poter tornare alla liraccia, ai bei tempi in cui ogni tanto si poteva svalutare, così si tirava a campare fino alla prossima botta.
Sarebbe un disastro. Ma probabilmente è un disastro anche proseguire sulla strada indicata da Brunetta e soci. Sarebbe più coerente, per il pensiero statalista, puntare a un’Europa politicamente unita, con un governo centrale responsabile davanti a un parlamento eletto a suffragio universale e i governi attuali ridotti a sovranità regionali. In uno Stato federale del genere conterebbe, ad esempio, il disavanzo commerciale complessivo nei confronti del mondo esterno, non il disavanzo della Germania, così come negli USA per gli equilibri economico-finanziari internazionali conta la bilancia dei pagamenti del governo dell’Unione, non quella del Texas o dell’Ohio. E se il bilancio dell’Ohio o del Texas è tale da portare alla bancarotta, sono fatti loro, il governo centrale non interviene. In aggiunta, la FED ha le mani più libere della BCE. Può fare davvero “whatever it takes”, senza i funambolismi che Draghi ha dovuto metter in atto per aggirare i vincoli di uno statuto monetario “tedesco” che, per scelta, fin dall’origine ha voluto respingere il modello USA, limitando il compito della banca centrale alla difesa della solidità monetaria e lasciando ai governi la responsabilità delle politiche economiche.
Sia ben chiaro: mi sono messo nei panni degli statalisti per metterne inevidenza le loro incoerenze odierne. E’ risaputo – o almeno così spero – che, da anarchico qual sono, se rifiuto gli Stati nazionali ho addirittura in orrore i superstati. Ve l’ immaginate una fiscalità europea? Schiaccerebbe i poveri suddditi riducendoli a schiavi. Ve l’immaginate una BCE come la FED? Sarebbe il trionfo della moneta falsa. Ve l’immaginate un sistema bancario europeo (ci stiamo arrivando,è in cantiere)? Ci sarebbe da mettere il denaro sotto il materasso, come facevano i nostri nonni, e tenercelo per sempre. Io mi auguro soltanto che, con l’andar del tempo, prendano sempre più piede, sul modello dei cosiddetti “Bitcoin”, monete elettroniche “libertarie” escogitate da privati, in concorrenza fra loro, e simili, grazie agli algoritmi di cui sono costituite, a un bene scarso come il vecchio oro, così da tener lontana ogni tentazione inflazionistica. E che alla fine, sia pure in tempi per ora remoti, le banche centrali, con le loro befane e i loro draghini e kurodini sprofondino sottoterra insieme agli Stati piccoli e grandi, federali e accentrati, massimi, minimi e superminimi.

Giovanni Tenorio

Libertino