Le vestali del finto mercato
Ci risiamo. Come l’ombra di Banco a Macbeth, da una botola ci ricompare davanti la spettrale figura di Margrethe Vestager, la Vestale (mi si perdoni il brutto gioco di parole) della Concorrenza e del Libero Mercato. Davvero una bella ipocrisia quella delle leggi statali antimonopolio, a cominciare dal fin troppo celebre Sherman Act, promulgato negli Stati Uniti l’anno 1890; quello in base al quale, venticinque anni dopo, si sarebbe fatta a pezzi (o finto di fare a pezzi) la famigerata “Standard Oil”di Rockefeller. I critici del cosiddetto “mercatismo”, o “liberismo selvaggio” (fra cui si annovera Giulio Tremonti, scomparso, per nostra fortuna, dalla scena politica e, a quanto mi risulta, anche dall’arena giornalistica) sono soliti ripetere la vulgata secondo cui il libero mercato, lasciato a sé stesso senza regole (il che vuol dire senza l’intervento dello Stato), causerebbe inevitabilmente la formazione di monopoli.
Dispiace che Piergiorgio Odifreddi, nel bel saggio sulla democrazia di cui qualche tempo fa abbiamo parlato, dopo aver presentato il libero mercato come un bell’esempio di ordine anarchico (“L’anarchia è ordine”, diceva Proudhon), cada anche lui nel medesimo stereotipo. Siamo sicuri che le cose stiano proprio così? Non ci capita per caso di confondere il libero mercato con il sistema economico-politico in cui siamo immersi? Che è tutto, fuorché libero mercato, se si pensa agli interventi pubblici che distorcono il sistema dei prezzi, orientano le scelte di consumatori e produttori, proteggono la produzione nazionale attraverso barriere doganali più o meno mascherate, danno licenza di sfruttare risorse minerarie alle grandi corporazioni ammanicate con il potere politico, proteggono alcuni comparti produttivi attraverso concessioni in esclusiva, proibiscono alcuni commerci e ne favoriscono altri, riconoscono i brevetti e garantiscono la proprietà intellettuale. Già il sistema di tassazione indiretta, colpendo alcuni prodotti a vantaggio di altri, manipola il mercato. E le sovvenzioni a imprese che altrimenti andrebbero in fallimento o semplicemente non sarebbero mai nate? E, per fare un triste esempio, lo sconcio delle pale eoliche e delle distese di pannelli fotovoltaici che deturpano il paesaggio della Puglia? E certe opere pubbliche mastodontiche e inutili che il mercato da solo non avrebbe mai finanziato (non sto pensando alla TAV, che meriterebbe un discorso più articolato)? Per finire, dov’è il mercato nel panorama monetario? Le banche centrali non sono forse terribili fortezze monopolistiche, grazie alle quali il sistema finanziario e produttivo viene invaso da moneta fiduciaria priva di alcun retrostante merceologico? Dove va a finire, in questo modo, il sistema segnaletico dei tassi d’interesse? Distorto, come sono distorti i prezzi delle merci.
Se questo è libero mercato, io non sono Don Giovanni Tenorio, ma Michelangelo Buonarroti (magari!). Ad ogni modo, se qualcuno fosse ancora del parere che il sistema attuale sia, nonostante tutto, un libero mercato con qualche anomalia, gli consiglio vivamente il libro di Roy Alan Childs jr, Big business and the rise of the american statism, dove, in polemica con la Ayn Rand tanto cara a molti libertari filocapitalisti, si dimostra che i grandi conglomerati monopolistici formatisi negli Stati Uniti fra Ottocento e Novecento sono il frutto di politiche stataliste. Il capitalismo odierno continua sulla stessa strada. Non è un corpo sano che soffre di qualche acciacco, un raffreddore o un dolorino reumatico. No, è devastato da un cancro che si chiama Stato.Per dirla con Kevin Carson:”…il capitalismo, il sistema che ha preso il posto del feudalesimo 500 anni fa o giù di lì, è nato dal furto, dall’aggressione e dalla schiavitù, ed è da allora che è statalista fino al midollo”.*So che queste parole non piaceranno a qualcuno dei nostri amici, che mi collocheranno a sinistra. Accetto, per quel che possono valere oggi le vecchie etichette.
Mi permetto però di ricordare che Frédéric Bastiat, spesso citato con grande enfasi come paladino del libero mercato (quale effettivamente fu) dai libertari fautori del sistema vigente, sedeva in Parlamento all’estrema sinistra, insieme ad anarchici come Proudhon.
Adesso capite perché ho detto che le autorità antitrust sono un’ipocrisia. Lo Stato prima compie disastri, poi interviene fingendo di rimettere ordine laddove l’ ordine sarebbe pacificamente rimasto intatto senza le sue manipolazioni. E la Vestager? Fa parte del sistema, come Mario Monti e altri personaggi che hanno occupato il medesimo scranno. Questa volta non si tratta di colpire un “abuso di posizione dominante”, come è successo in passato, non tanto per proteggere i consumatori da un paventato aumento dei prezzi, quanto per dare una mano ai colossi concorrenti (tutti soggetti, gli abusanti e gli abusati, che in un mercato veramente libero, senza concessioni statali, brevetti e proprietà intellettuale, non avrebbero mai potuto raggiungere certe dimensioni), ma di impedire la fusione di due grandi società, per scongiurare la formazione di un monopolio. Ora, infatti, la nostra Vestale si oppone alla proposta di accordo fra la società francese Alstom e la tedesca Siemens, volto al fine di arrivare a una fusione da cui nasca un colosso industriale capace di far fronte all’aggressiva concorrenza cinese nel campo della produzione ferroviaria (in particolare, dei dispositivi tecnologici di controllo, di sicurezza e di segnalazione). Inutile dire che dietro tale disegno stanno, ancora una volta, i governi: Macron da una parte e la Merkel dall’altra. E’ il capitalismo di sempre. Ma, visto che, ci piaccia o non ci piaccia, in questo capitalismo ci siamo dentro fino al collo e non possiamo uscirne con un colpo di bacchetta magica, sarà il caso di vedere realisticamente se, rebus sic stantibus, un impedimento al disegno di fusione fra le due società avrebbe risultati benefici oppure no. Chi si oppone dice: si avrebbe un monopolio, con un conseguente aumento dei prezzi che, attraverso una lunga catena, si ripercuoterebbe sul consumatore finale, l’utente del sistema ferroviario, costretto a pagare di più il documento di viaggio. Davvero? Ma il nuovo, grande conglomerato non avrebbe di fronte il mastodontico concorrente cinese, quello che negli Stati Uniti sta vincendo tutti gli appalti, facendo piazza pulita delle imprese autoctone? Vogliamo che succeda così anche in Europa? Se, rimanendo disunite, Alstom e Siemens non saranno in grado di resistere, allora sarà il colosso cinese (dietro il quale c’è, ancora una volta, uno Stato, e quale Stato!) a poter imporre i suoi prezzi, grazie al monopolio mondiale così acquisito.
In un articolo sul “Corriere della sera” Franco Debenedetti condivide l’operato della Vestale sostenendo che la formazione di un monopolio sarebbe dannosa. Arriva a dire che non sempre le grandi dimensioni consentono un miglioramento produttivo attraverso la razionalizzazione dei programmi e delle procedure (le sinergie e le economie di scala, per dirla in termini tecnici). Può essere vero, lo diceva già Luigi Einaudi: nelle grandi dimensioni la burocratizzazione è sempre in agguato; può capitare che un vecchio artigiano offra un prodotto più a buon mercato di una grande industria. Vero anche, però, che grazie alla rivoluzione informatica tanti processi burocratici possono essere snelliti e le economie di scala possono diventare più agevoli e consistenti. Chi ha i capelli bianchi forse ricorderà che, verso la fine degli anni Sessanta dello scorso secolo, quando la Comunità Economica Europea (allora si chiamava così) navigava con il vento in poppa, fece molto parlare di sé l’accordo fra la società italiana Pirelli e la società inglese Dunlop. Un mio amico, formatosi un po’ dilettantescamente sugli scritti divulgativi di Luigi Einaudi, chiese una volta a un illustre giornalista esperto di economia se non fosse pericoloso favorire fusioni che avrebbero potuto avere conseguenze monopolistiche, con aumento dei prezzi a danno dei consumatori. Ricevette come risposta uno sberleffo: ma quale monopolio! In un mercato mondiale l’Europa deve avere imprese forti, se non vuole soccombere davanti ai colossi americani (a quei tempi gli USA erano ancora la prima potenza economica mondiale, senza rivali); le fusioni mirano proprio a questo scopo! Ora Debenedetti, in un contesto mutato ma di fronte a dinamiche della stessa natura, sembra ripetere le argomentazioni di quel mio sprovveduto amico. Non mi risulta che qualcuno gli abbia replicato con qualche pernacchio. Se non ricordo male la fusione Pirelli-Dunlop, annunciata e accolta in toni trionfalistici, risultò piuttosto deludente. Dopo dieci anni le due società si separarono. Evidentemente il mercato, il sia pur canceroso mercato capitalistico, non aveva risposto alle aspettative, nonostante il sostegno del potere politico.
Perché non lasciar fare al mercato (il sia pur canceroso mercato capitalistico) anche per l’accordo Alstom-Siemens? Può darsi che venga bocciato, ma può anche darsi che abbia successo. E se davvero si formerà un monopolio dannoso per i consumatori, l’autorità antitrust potrà sempre intervenire a spezzarlo. Si metta il cuore in pace, la signora Margrethe Vestager, e ridiscenda nella sua botola.
(*)KEVIN CARSON, Cosa significa “libero mercato”? in “Center for a Stateless Society, 7 dicembre 2017, traduzione di Enrico Sanna.
Lo statalismo continuo a non chiamarlo capitalismo, termine a interpretazione polivalente. Sulla collocazione a sinistra rimango convinto che in quell’area ci siano gli statalisti, tra l’altro per loro stessa ammissione. Di conseguenza gli antistatalisti si trovano dalla parte opposta. Altrimenti Pol Pot sarebbe di estrema destra con Stalin alla sua sinistra perché tollerava il commercio ambulante di stringhe da scarpe. E’ ormai consuetudine collocare a sinistra chi nazionalizza e a destra chi privatizza; di conseguenza gli autori citati sono in errore quando si autodefiniscono appartenenti alla cosiddetta “left area”. Le vecchie etichette, citate come l’esempio di Bastiat, sono riferibili alla casualità di collocazione nella parte destra del parlamento francese dei rappresentanti nobiliari e in quella sinistra dei rappresentanti borghesi. Una collocazione non ideologica, appunto, ma di classe. I nobili erano sicuramente più statalisti dei girondini. Purtroppo prevalsero i giacobini prima, il bonapartismo poi e la restaurazione viennese poi ancora. Oggi abbiamo Macron e Di Maio, tutti e due come Fouché e Talleyrand pronti a cambiare linea e alleanze per ragioni altamente patriottiche.
Ciò che conta non è quel che c’è scritto fuori delle scatole, ma quel che c’è dentro. Forse è il caso di lasciar perdere le vecchie etichette, divenute ormai ambigue, per applicarne di nuove. Scriverei dunque, fuori delle scatole, “statalismo”-“antistatalismo”, che hanno come sinonimi “mercatismo -” antimercatismo”. Butterei alle ortiche anche l’etichetta “capitalismo”, da sempre impiegata quale sinonimo di “econonomia di mercato”, in contrapposizione al collettivismo dei piani quinquennali d’infausta memoria, ma risultante a sua volta ambigua per l’innegabile connessione che il capitalismo reale -non quello immaginario- ha sempre avuto, fin dalle origini, con il potere del Leviatano pubblico. L’errore dell’anarco-capitalismo di Rothbard e seguaci ( che Hoppe ha portato alle estreme conseguenze) è stato proprio quello di non approfondire il tema della legittimazione dei titoli proprietari nell’attuale assetto capitalistico: legittimazione difficilmente sostenibile, dato che quasi tutti i titoli di proprietà odierni derivano non tanto da un’originaria acquisizione di res nullius, fatta propria per diritto naturale attraverso il lavoro, ma da atti di aggressione derivanti da un abuso di posizione dominante ( un abuso che si manifesta al sommo grado nel dominio di un’autorità politica, la quale si pone al vertice di un’associazione ad appartenenza necessaria: si chiami Stato o in altro modo, la sostanza non cambia). Quest’obiezione, già inoppugnabile quando si tenga fede all’idea rothbardiana del diritto naturale e delle risorse naturali come res nullius, diventa ancora più forte se, sulle orme del pensiero di Fabio Massimo Nicosia, si considerano, al contrario, la Terra come res communis omnium e il diritto positivo non come filiazione di un mal definito diritto naturale, ma come il frutto di pretese individuali giocate a loro volta nell’agone del libero mercato. Io parlerei, a questo punto, di “comunismo originario” e “mercatismo radicale”. Si può non essere d’accordo con Nicosia, il cui pensiero avrebbe come conseguenza la necessità di riconoscere a tutti una sorta di “reddito di cittadinanza” quale risarcimento dell’espropriazione originariamente patita ad opera di chi s’è appropriato beni comuni; ma nessuno può negare che discuterne sia più che mai necessario, per ripensare un libertarismo che, specialmente in Italia, sembra avvitarsi su se stesso, anche per le sue ambigue parentele con il leghismo delle origini e con il federalismo di Gianfranco Miglio ( rispettabilissimo, ma, se così si può dire, diversamente statalista).
Cambiare linguaggio improvvisamente mi resta difficile, probabilmente è uno dei miei tanti limiti. Non credo che la terra fosse in passato res communis e quindi fatico a intravedere una passata esistenza di comunismo originario. La legittimazione degli attuali titoli di proprietà deriva spesso dall’aiuto politico ma non possiamo restituire le proprietà acquisite attraverso quell’aiuto agli eredi di chissà quale periodo. I miei genitori acquistarono tremila metri di terra; il precedente proprietario li aveva acquistati a sua volta dal duca Grazioli. Il latifondo di quest’ultimo costituiva un’eredità in passato molto probabilmente acquisita grazie agli aiuti di cui sopra. Ma non per questo possiamo annullare i contratti precedenti. Si tratta solo di evitare che nel futuro si ripresentino condizioni di proprietà abusiva e in questo le legislazioni attuali non aiutano. Se Rothbard e Hoppe non hanno approfondito questo tema, è giusto che i libertari di oggi e di domani lo affrontino; per ragioni storiche, etiche e pratiche. Ma non credo che il libertarismo autentico possa essere considerato apparentato con il leghismo e il federalismo. Forse ci può essere un’alleanza strategica e occasionale come quando si trattò di sparare sui tedeschi invasori nel 1943, poi ognuno per la sua strada. Anche con i fautori dello stato minimo può esserci una temporanea alleanza ma i veri libertari non sono per lo stato minimo come finalità ma solo come possibile ed eventuale transitorietà. Certo, liberarsi gradualmente è meno bello di liberarsi immediatamente; ma se l’alternativa è il non liberarsi mai, potrebbe essere utile un’alleanza temporanea con i “cugini” (se proprio vogliamo considerarli parenti) fautori della miniarchia (o minarchia, non ho mai capito quale sia il termine giusto). In ogni caso, detti cugini non appartengono alla “fratellanza” libertaria. Nome, quest’ultimo, che voglio immaginare per una loggia operativa ancora inesistente. Almeno credo.
Giustamente il Rothbard di “Etica della libertà”, quello più vicino all’anarchismo classico, dichiara che non sarebbe giusto risarcire gli ex-schiavisti per il presunto danno da loro subito per l’abolizione della schiavitù, ma, al contrario, dovrebbero essere gli ex-schiavi a ottenere un indennizzo per quanto è stato loro sottratto, costretti com’
erano a lavorare terre di cui altri si erano arrogati la proprietà. Discorso coerente: se la proprietà di un bene originariamente res nullius deriva dal lavoro con cui quel bene è stato trasformato, sono i lavoratori ex-schiavi i proprietari delle terre da loro lavorate. Nicosia però fa notare che quando Rothbard, per giustificare l’appropriazione originaria, fa riferimento al concetto lockiano di “homesteading”, dimentica come Locke, nella sua argomentazione, aggiunga un “proviso” secondo cui chi si appropria un’area, con tutte le risorse che contiene, deve lasciarne a ciascun altro una della stessa quantità e qualità. Quindi ogni appropriazione è in qualche modo un’usurpazione che deve essere indennizzata. Il diritto nasce proprio dalle pretese confliggenti di chi da un lato si appropria un bene e chi dall’altro nega la legittimità di tale appropriazione. L’indennizzo è una soluzione giuridica di tipo contrattuale che può esser considerata giovevole a entrambi i contraenti, non un semplice gioco a somma zero; allo stesso modo in cui un prezzo di mercato giova tanto a chi vende quanto a chi compera (“ottimo paretiano”). A me pare che il ragionamento di Nicosia sia molto forte. L’alternativa è quella di presupporre un “diritto naturale” dalle basi assai fragili. Già i Sofisti, nell’antica Grecia, ne avevano messo in dubbio il fondamento, dimostrando che il cosiddetto “diritto naturale ” … finisce sempre con l’apparire la proiezione ipostatizzata di un determinato diritto” ( Luciano Canfora, Storia della letteratura greca).
Leggervi è un sempre piacere, soprattutto per uno sprovveduto in materia come me; articolisti e commentatori di lusso. Veramente un bel blog.
Difficile restituire dopo secoli agli eredi degli ex schiavi una proprietà dello schiavista che ha violato la proprietà umana praticando, appunto lo schiavismo. Bisognava farlo subito e così non fu. Oggi non si può chiedere a chi ha ereditato terre regolarmente acquistate dagli avi di restituire ciò che non possedeva quando ancora non era nato. Non so se Rothbard abbia dimenticato volutamente la frase lockeiana sul lasciare la stessa quantità di area appropriata a un altro soggetto. La trovo una contraddizione. Se recinto un ettaro dovrei garantire un altro ettaro a un secondo soggetto; quest’ultimo dovrebbe fare altrettanto e così via. Alla fine non ci sarebbero ettari a sufficienza per tutti. Inoltre dovrei essere io a recintare un secondo ettaro per un altra persona, cosa alquanto bizzarra. Oppure dovrei coltivare solo messo ettaro, poi un quarto, un ottavo, un sedicesimo e ridurre il tutto all’infinito. Non condivido la tesi che ogni appropriazione sia un’usurpazione e che quindi vada indennizzata. Se prima del mio intervento la terra risulta res nullius, allora non c’è un’usurpazione. Sicuramente l’opzione contrattuale rimane la migliore per la risoluzione delle controversie, quella legislativa complica solo le cose. Il giusnaturalismo ha i suoi difetti. Ma è sempre preferibile al diritto imposto e le sue basi non sono del tutto fragili. Il giuscontrattualismo ( non so se questo termine esiste già, potrebbe essere una mia involontaria invenzione), costituendo una sua conseguenziale derivazione, potrebbe risolvere alcune difficoltà interpretative presenti all’interno del pensiero che costituisce il diritto naturale. Ma anche la frase di Canfora risulta contraddittoria. Se una proiezione è ipostatizzata, non può “apparire”. L’ipostasi è ciò che realmente costituisce l’essenza delle cose, una sorta di sostanza e l’apparenza è il contrario della sostanza. Vorrei dire che se una sta a sinistra, l’altra sta a destra e forse qui le categorie postpallacordiane finiscono per riemergere. Anche Bobbio non amava il diritto naturale. Ma visto il vincenzomontismo abituale del personaggio, finisco per preferirlo ancora di più al giuspositivismo.
La dottrina del “diritto naturale” si fonda su un principio fragilissimo, confutato a suo tempo da David Hume: quello secondo cui sarebbe possibile passare dall'”essere” al “dover essere”. La Natura “è”. Le cosiddette “leggi naturali” non hanno nulla che fare con il diritto. Dalla Gravitazione Universale di Newton quale diritto possiamo trarre? E dalla relatività di Einstein? E dalla fisica quantistica? Dalla “legge” della sopravvivenza del più forte nell’evoluzione delle specie qualcuno ha voluto trarre la giustificazione del razzismo, del colonialismo, dell’oppressione del debole da parte del potente. In nome della Natura Aristotele giustificava la schiavitù e la subordinazione della donna. In nome della Natura come Grande Madre qualcuno oggi equipara all’uomo tutti gli esseri viventi e attribuisce diritti agli animali. Rothbard, il quale ripristina la possibilità di passare dall'”essere” al “dover essere” non trovando di meglio, come argomentazione, che tornare a Tommaso d’Aquino, afferma che, per natura, gli animali non hanno diritti e ironizza dicendo che glieli riconosceremo quando ci presenteranno un “bill”. Un bel guazzabuglio di brutture e di contraddizioni. Meglio allora ritenere, sulle tracce di Bruno Leoni, che il diritto, a cominciare da quello di proprietà, su cui gli anarco capitalisti rothbardiani incardinano tutta la loro filosofia, sia a sua volta un prodotto del mercato, dove si incontrano, si scontrano e si risolvono le differenti pretese individuali. Ogni individuo diventa così fonte di diritto. Solo quando un’agenzia, per abuso di posizione dominante, riesce a imporre una propria normativa, si arriva all’idea dello Stato come creatore del diritto positivo. Anche lo Stato viene allora percepito come qualcosa di “naturale”, allo stesso modo della guerra (che allo Stato è fortemente connaturata, se è vero, come disse Clausewitz, che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi). Ma è sempre stato così? Gli studi più aggiornati sulle civiltà neolitiche sembrerebbero metterlo in dubbio. Prima dell’arrivo delle tribù indo-europee erano diffuse forme di civiltà sostanzialmente pacifiche, poco gerarchizzate, nel complesso ugualitarie, matrilineari ma non matriarcali, dove i sessi collaboravano senza conflitti secondo principi mutualistici. I Palazzi della Creta minoica non hanno mura, quelli della Grecia micenea sì. Nell’isola dei Feaci, secondo il racconto omerico, Odisseo naufrago viene accolto dalla dolce Nausicaa, che gli suggerisce, per trovar soccorso, di rivolgersi alla madre Arete prima che che al padre Alcinoo. Nausicaa sulle rive del mare gioca a palla con le sue ancelle, che evidentemente non sono schiave. Odisseo viene generosamente ricondotto in patria dai marinai Feaci. Chi, al ritorno, distrugge la nave di questi scafisti? Il Salvini di allora, il dio Posidone, il maschiaccio che ce l’ha duro del pantheon miceneo. Fantasie di poeti? Scempiaggini di vecchi? Forse, ma sicuramente costruite sul ricordo di un passato oggi storicamente documentabile (si veda RIANE EISLER, Il Calice e la Spada. La civiltà della Grande Dea dal Neolitico ad oggi, Editrice Universtaria Udinese, 2011).
Sì, condivido l’idea che il diritto sia e debba essere un prodotto del mercato. Ma anche il mercato è un processo spontaneo, quindi connaturato alla natura umana. E’ vero che c’è chi percepisce lo stato come qualcosa di naturale ma dovrebbe essere compito della filosofia separare il reale dal percepito, oggettivizzare la realtà attraverso il linguaggio. Io aborro lo stato proprio perché lo considero innaturale, anzi contro natura. Non escludo che anche in questo campo il mercato potrebbe avere il suo ruolo. Esiste anche il mercato delle idee, nel senso della possibilità della loro divulgazione attraverso l’offerta al pubblico di ciò che viene scritto. In una situazione veramente libera, la diffusione delle idee non sarebbe monopolizzata dagli statalisti. Credo che Rothbard si riferisse al diritto dei proprietari degli animali: se ogni specie a rischio fosse di proprietà di coloro che intendono proteggerla, invece dei ministeri e degli assessorati all’ambiente, probabilmente avremmo meno fauna in via di estinzione.