“Democrazie mafiose” di Panfilo Gentile
Cari amici, vi avevo preannunciato che sarebbe stato ripubblicato fra breve, e così è stato. Parlo del libello di Panfilo Gentile “Democrazie mafiose”, che vide la luce nell’ormai lontano 1969, quando ferveva in tutto il mondo la “contestazione globale” dei movimenti studenteschi. Un libro che potremmo definire “datato”, a patto di cancellare dal termine ogni connotazione deteriore. Datato perché, per argomentare tesi di carattere generale, valide allora e oggi ancor di più, l’Autore prende spunto dalla realtà che ha sotto gli occhi. Chi è abbastanza vecchio da aver vissuto, magari da studente universitario, quegli anni di fuoco, che molti nonnetti rimpiangono come un momento di fulgida lotta progressista, ne vede tracciato un quadro che, sfrondato da ogni retorica, mette in evidenza la pochezza di idee sottesa a quell’epopea. Il libello si conclude con un’analisi acuta e spietata del pensiero di due santoni che i ribelli di allora portavano in palmo di mano: Sartre e Marcuse. Si dimostra la fragilità delle loro argomentazioni “filosofiche” (le virgolette sono d’obbligo: la vera filosofia è altra cosa), un impasto indigesto di esistenzialismo e marxismo in Sartre, di marxismo e psicoanalisi in Marcuse. La parte più interessante per noi lettori d’oggi è però quella che precede. Ci si immerge nell’Italia di allora, sullo sfondo di un mondo dominato dalle due potenze egemoni, gli USA e l’URSS, mentre la Cina sembrava rappresentare un sistema alternativo di società comunista, e personaggi come Fidel Castro facevano sognare un modello diverso di rivoluzione proletaria, di contro al lugubre totalitarismo sovietico. In Italia a dominare la scena politica erano la DC e il PCI, la prima legata alle democrazie liberali di cui gli Stati Uniti si ergevano a paladini, ma intrisa di tendenze socialisteggianti e anticapitalistiche, il secondo prono ai dettami dell’Unione Sovietica. Dai primi anni Sessanta i governi si fondavano su coalizioni di “centro-sinistra” che avevano come cardine la DC e come principale alleato il PSI, un partito socialista che, pur avendo rotto da tempo il “fronte” con il PCI, rimaneva per molti versi lontano dal revisionismo delle grandi socialdemocrazie europee, di cui la SPD tedesca di Willi Brandt era l’esempio più illustre. Esaminando il sistema italico e comparandolo, per rapidi tratti, a quello delle altre democrazie liberali, l’Autore giunge alla conclusione che si tratta di sistemi “mafiosi”, non nel senso che siano collusi con la mafia propriamente detta, ma perché inevitabilmente tendono a occultare sotto la maschera del “popolo sovrano” la corruzione di cui sono intrisi. A governare non è il “popolo”, ma i partiti, che per ottenere il consenso degli elettori spesso assecondano tendenze deteriori con tutti i mezzi di propaganda che hanno a disposizione. Quello del politico è diventato un vero e proprio mestiere: gente che nella vita non ha mai lavorato né combinato nulla di buono trova nell’agone politico il proprio “habitat”. Non sono esperti di nulla, anche perché la loro preparazione culturale -prodotto di una scuola in declino-è spesso mediocre. Quando diventano titolari di un dicastero non possono far altro che affidarsi ai burocrati, firmando caterve di documenti senza capirli e spesso senza leggerli. Per rafforzare il proprio potere blandiscono la burocrazia, di cui hanno estremo bisogno, promuovendo ai più alti gradi gerarchici funzionari spesso per nulla meritevoli di tanto onore. Dietro suggerimento dei partiti nelle cui file militano, nominano a capo degli Enti pubblici e delle industrie di Stato personaggi fidati, ancora una volta in assenza di criteri meritocratici. Così la democrazia diventa fucina di mediocrità. Il “popolo sovrano” vota senza cognizione di causa, premiando le posizioni più demagogiche; i rappresentanti del popolo approvano leggi insulse e governano in modo maldestro; il sistema nel suo complesso è inefficiente e corrotto; anzi, inefficiente (e oppressivo) perché corrotto.
Dai tempi in cui Panfilo Gentile scriveva tante cose sono – si direbbe – radicalmente cambiate. Ma è tutta e solo apparenza. Il cambiamento è superficiale, nel profondo il sistema democratico (non solo quello italiano) rimane ontologicamente “mafioso”. E’ un male della democrazia in sé, non della democrazia italiana. All’estero le cose possono andare un po’ meglio, ma la stoffa rimane scadente. Il Nostro rievoca con nostalgia il mondo dell’Italia post-unitaria, prima del suffragio universale, quel mondo dei “notabili” che avevano una preparazione tecnica e culturale spesso di alto livello. Ho l’impressione che cada nell’errore di tutti i laudatores temporis acti, i quali tendono a indorare un passato che ai contemporanei pareva deprecabile. Forse però non ha proprio tutti i torti. Loda anche i vecchi regimi monarchico-costituzionali, e anche i grandi imperi, da quello romano antico a quello austro-ungarico. A un lettore d’oggi questo atteggiamento può far pensare a certe riflessioni di Hoppe, che, pur da posizioni paleolibertarie, e quindi anti-stataliste, vede negli antichi regimi situazioni meno oppressive di quelle offerte dalle democrazie d’oggi, socialisteggianti ed esose, con la loro fiscalità di rapina. Non si può paragonare però Gentile a quei critici che nell’Ottocento attaccavano il sistema democratico da posizioni reazionarie. Nel suo aureo saggio intitolato “L’idea liberale”, già altre volte qui citato, dice chiaramente che le argomentazioni di Burke contro la Rivoluzione Francese, pur essendo intelligenti, vanno oltre il segno, e non possono essere completamente accettate da chi si proclami liberale. Ricordiamoci inoltre che fu uno dei mostri sacri del pensiero liberale, Alexis de Tocqueville, a cogliere gli aspetti discutibili, e pericolosi, della democrazia americana, che per molti versi ammirava.
Anche Gentile, quindi, nella sua critica al sistema democratico, rimane un liberale, non un reazionario. Così come Hoppe, pur nel suo apprezzamento per gli antichi regimi rimane un libertario. Certo, un paleolibertario, più vicino all’ultimo Rothbard che a quello degli anni d’oro, il quale non esitava a schierarsi con le sinistre che protestavano contro la guerra del Vietnam. Potremmo allo stesso modo definire Gentile un liberale conservatore. Si prenda questo passo del suo libello: “Allora la borghesia si identificava con quelli che noi abbiamo chiamato notabili e cioè l’antica borghesia provinciale, proprietaria terriera, orgogliosa, parsimoniosa e fedele alle virtù antiche della gente uscita dai ranghi contadini. Era una borghesia che aveva un forte senso dei diritti della persona, che abitava nella casa dei padri; era d’obbligo che in un portone entrasse un solo padrone, non si ammettevano condominii(…) Si era orgogliosi di mangiare ciò che veniva dalle proprie terre e, per avarizia, si evitavano nella maggior misura gli acquisti al mercato. Si amava il luogo natio ed ogni allontanamento veniva giudicato una diserzione Si riconosceva riuscita e bene spesa la propria esistenza quando ci era cresciuta attorno una famiglia numerosa e si era ottenuta come la più ambita ricompensa la stima affettuosa dei propri concittadini. La borghesia attuale non ha più casa, non ha più terre, si è sradicata dalla provincia, per andare ad ingrossare la folla anonima delle città metropolitane. La famiglia si è disgregata per l’irriverenza dei figli, il lavoro delle donne, le ristrettezze economiche…” Non so se Hoppe conosca Gentile. Credo che leggendo queste parole approverebbe. Io le rispetto, ma rimango molto perplesso. Qui forse il Nostro è davvero datato, nel senso usuale del termine.
Ciò detto, e considerato che non si può tornare all’epoca (a mio parere brutta) dei notabili, bisogna guardare avanti. Qual è l’alternativa alla democrazia? L’anarchia, o se preferite la panarchia. E’ un mondo tutto da costruire, chissà mai se ci si arriverà, e quando. Però, se la pars costruens è tutta da inventare, la pars destruens così ben argomentata da Panfilo Gentile, rimane un punto di partenza imprescindibile.
Splendido trattato quello di Gentile.
Se lo si ritenesse troppo teorico, dieci anni dopo usciva “L’anonima DC” di Barrese-Caprara che potrebbe fungere da suo completamento (parte II – pratica).
La ringrazio Don Giovanni per avermi permesso di conoscere questo autore. Perché perplesso su queste parole: “La borghesia attuale non ha più casa, non ha più terre, si è sradicata dalla provincia, per andare ad ingrossare la folla anonima delle città metropolitane. La famiglia si è disgregata per l’irriverenza dei figli, il lavoro delle donne, le ristrettezze economiche…” ? A me pare attualissimo, ancora di più al sud dove vivo, un intera generazione di giovani nati e cresciuti tra gli anni 80 e 90, con il mito della laurea vista per decenni dal ceto medio meridionale come unica forma di riscatto sociale o eventuale stabilità economica, rivelatosi poi del tutto falso. Quante proprietà negli anni passati sono state vendute per permettere ai figli della borghesia meridionale di studiare a Milano, Torino, Padova, Bologna con l’unica prospettiva finale di emigrare all’estero.
Sul dopoguerra italiano, forse fosse rimasta la monarchia (nonostante quella famigliaccia non fosse un gioiello) avremmo avuto un destino leggermente diverso, avrebbe rappresentato pur sempre un argine alla “lunga marcia” marxista-leninista.