Dantedì
L’emergenza Coronavirus ha fatto passare un po’ sotto silenzio il “Dantedì”. Non escludo che qualcuno l’abbia potuto celebrare a suo modo, magari aprendo la finestra o affacciandosi al balcone per recitare qualche verso del Divino Poeta tra gli sventolii del tricolore e la marcetta di Mameli-Novaro in sottofondo. Fosse per me, sarei ben contento di recitare qualche verso della Commedia impugnando un megafono, ma senza né tricolori né marcette. Lo dedicherei a chi sta governando a furia di DPCM nel silenzio quasi generale di tutti quelli che non perdono occasione per magnificare la Costituzione più bella del mondo. Lo dedicherei a chi sta zitto e muto quando certe Autorità – che non cesseremo mai di irridere – chiedono censure e oscuramenti per quelle emittenti che non s’accodano al generale consenso e si permettono di avanzare qualche dubbio sulle informazioni di regime. Lo dedicherei a quel risibile comitato trasversale di scienziati, o sedicenti tali, che non solo pretendono di tappare la bocca a chi non fa parte della loro consorteria, bollandolo come eretico che infanga la verità rivelata di una Chiesa, ma addirittura lo denunciano all’autorità giudiziaria rispolverando fascistissimi articoli del Codice Penale fascista che il Bel Paese, dopo più di settant’anni di regime repubblicano, si trova ancora sul gobbo. Sapete quali versi sceglierei? Quelli che concludono il Canto XXI dell'”Inferno”. Ricordate? E’ uno dei più divertenti di tutto il poema. Così divertente che di solito a scuola, dove certe cose non si possono dire, viene totalmente ignorato (come vengono ignorate le novelle più pruriginose del Boccaccio, a tutto vantaggio delle solite di Calandrino – ma neanche tutte -, Chichibio, Federigo degli Alberighi, Nastagio degli Onesti ecc. ecc.). E’ quello in cui Barbariccia, capo dei diavoli che presidiano la bolgia dei barattieri attuffati un un lago di pece, a un certo punto si mette al comando della sua schiera di diavoli gaglioffi servendosi del deretano come tromba militare: “Per l’argine sinistro volta dienno/ma prima avea ciascun la lingua stretta/tra denti, verso lor duca per cenno. /Ed elli avea del cul fatto trombetta”. Ecco, anch’io voglio far trombetta del culo contro tutta quella marmaglia di cui sopra dicevo. Una scoreggia che li asfissi, una volta per tutte. Povero “Dantedì”! Proprio povero, a cominciare dal nome. Devono averlo proposto, se la memoria non mi inganna, quelli del “Corriere della sera”. E fin qui, passi. Ma quel che mi fa più specie è il fatto che gloriosi linguisti, fra cui il presidente emerito dell’Accademia della Crusca, lo abbiano accolto a braccia aperte. Ma come? Un simile mostro? Da far rivoltare nella sua tomba di Ravenna l’altissimo Poeta. Dantedì! Ma vogliamo scherzare? Mi viene in mente il Buondì Motta (per chi se lo ricorda). Gabriele D’annunzio, che ha avuto il merito di inventare neologismi di successo arricchendo di termini eleganti la lingua di cui Dante è stato padre, sarebbe il primo a strombettare come Barbariccia contro il nuovo mostro. Si può forse capire attraverso quale arzigogolo mentale è stato inventato. Chiamare il giorno dedicato a Dante con l’appellativo “Dante day” sarebbe stato un vero obbrobrio. Non solo perché fa pensare all'”open day”, il famigerato giorno in cui tutti gli istituti scolastici, pubblici e privati, mettono a nudo le loro nefandezze, ma perché celebrare il fondatore dell’idioma italico con un anglismo sarebbe stato il colmo della stupidità. E allora, proprio di quell’anglismo, si è foggiato un brutto calco. “Pezo el tacon del buso”, dicono i veneti. “Dantedì” fa a pugni con le regole che presiedono alla formazione delle parole composte nella lingua italiana, regole del tutto diverse da quelle dell’inglese o del tedesco, alle quali va riconosciuta una maggior duttilità e creatività. In italiano, nelle parole composte, il termine specificante non segue mai il termine specificato. Nel sostantivo composto “capostazione” il termine specificato (capo) viene prima e il termine specificante (stazione) viene dopo. In inglese è il contrario: station master ( e così pure in tedesco: Bahnhofvorsteher). Quindi, se a Dublino ogni anno, per celebrare il capolavoro di Joyce, “Ulysses” si festeggia il “Bloomsday”, la giornata di Bloom ( il protagonista del romanzo) non si fa nessuna violenza alla lingua in cui il romanzo è stato scritto. Ma se in italiano si vuole indicare con un appellativo un giorno dedicato a Dante si deve ricorrere a formule come “Giornata di Dante”, o “Giornata dantesca”. “Dantedì” è un brutto sgorbio. Qualcuno potrebbe obiettarmi: e allora i giorni della settimana? Lunedì, martedì, mercoledì, cioè giorno della Luna, di Marte, di Mercurio… Ma quelli derivano direttamente dal latino Lunae dies, Martis dies, ecc ecc., e anche in latino il termine specificante spesso e volentieri precede il termine specificato. Ma poi, vogliamo ridurre il giorno di Dante al rango di un giorno della settimana, magari scrivendolo con lettera minuscola, “dantedì”? A qualche bello spirito potrebbe venire in mente di sostituirlo al sabato, che con il mondo classico (cui si ispirano gli altri giorni feriali della settimana) e con quello cristiano ( cui si ispira la domenica) non ha niente da spartire. Pensate che meraviglia: lunedì, martedì, mercoledì, giovedì, venerdì, dantedì, domenica… Bel risultato. Così, come nessuno, quando dice “lunedì”, pensa più alla Luna, o “venerdì” a quella bella fica di Venere, quando uno dirà” dantedì” l’ultima cosa cui penserà sarà il Sommo Poeta.Tra l’altro, non vorrei che il ” Dantedì”, nato per celebrare il culto del Poeta e sollecitarne la lettura e la rilettura, sortisse l’effetto opposto. Come certi oppositori delle vaccinazioni dicono succeda con i vaccini (non entro nel merito: lascio a loro la responsabilità di quanto affermano), che invece di contenere le morbilità per cui sono stati escogitati le diffonderebbero ancor di più o ne innescherebbero altre, così potrebbe capitare che la giornata dantesca, lungi dal rendere più amato e frequentato il Poeta, lo lo faccia venire ancor più in uggia a chi già a scuola non lo digeriva per l’ottusità degli insegnanti e la mole di commenti che ne soffoca il testo (già Carlo Porta, all’inizio dell’ Ottocento, lamentava “quella motta de comment/ che soffeghen el test del pover Dant”: e da allora i commenti si sono enormemente moltiplicati). Pensate che cosa è capitato con la “Giornata della Memoria”, istituita anch’essa con le migliori intenzioni ( e per fortuna nessuno l’ha voluta chiamare “Memoriadì o qualcosa di simile). In quel giorni tutti a ricordare la Shoah, i crimini del Nazismo, ecc. ecc. e poi per tutto il resto dell’anno possiamo anche dimenticarcene, e magari rispolverare qualche pregiudizio antisemita, pronunciare qualche battutaccia contro gli ebrei taccagni usurai e capitalisti, dire che gli israeliani di oggi sono come i nazisti di ieri ecc. ecc. A me pare che da quando si celebra la “Giornata della Memoria” i rigurgiti nazisti si siano accentuati. Forse sarebbe meglio abolirla. E far studiare un po’ meglio alle nuove generazioni la Storia del Novecento. Ma anche quella dei secoli precedenti. Così si capirebbe che l’antisemitismo non è sbocciato miracolosamente come un fiore nel deserto, ma ha avuto un rigoglioso terreno di coltura, riccamente annaffiato dalle Chiese cristiane, in primis da quella luterana (Lutero sugli ebrei ha scritto cose atroci). Lo stesso si dica per Dante. Mi chiedo quanti studenti ne abbiano veramente letti i pochi canti che ancora vengono proposti. Scommetto che la maggior parte ha fatto ricorso ai bigini. Anche perché l’italiano d’oggi si è talmente impoverito che la lingua di Dante, per le ultime generazioni, è diventata astrusa come il latino. Buttiamo via tutti i commenti, riducendoli all’essenziale, e leggiamo il testo. Ci accorgeremo che dietro sta un mondo che non è più il nostro. Ragione di più per cercare di comprenderlo, quel mondo, così da cogliere ancor più a fondo la bellezza della poesia che è sbocciata dal suo terreno. E per interrogarci su qualche interessante enigma. Come poteva, Dante, con le limitate conoscenze matematiche dei suoi tempi, concepire la struttura del Paradiso come un’ipersfera? Come poteva concepire una quarta dimensione? Sarebbe ora di buttare alle ortiche quelle rappresentazioni grafiche del “Paradiso” che imperversano su tutti i testi scolastici. Sono errate. Si legga in proposito il bellissimo saggio di Horia-Roman Patapievici “Gli occhi di Beatrice”, edito da Bruno Mondadori, e purtroppo non più disponibile sul mercato.Buttiamo via il “Dantedì”, che non faccia la fine di tutte le altre giornate, dalle più solenni, come quella della Memoria, alle più becere, come tutte le feste nazionali (qualche bello spirito vorrebbe addirittura reintrodurre il 4 Novembre, con la visita alle caserme: del cul faccio trombetta) alle più pretenziose, come quella della donna, alle più frivole, come quelle della mamma, del papà, del nonno e chi più ne ha più ne metta. I monumenti alla fine vengono a noia, come quelli che campeggiano nelle piazze: nessuno più li guarda e si coprono tristemente delle cacche di piccione. Quando a Verdi chiesero un contributo per l’erezione di un monumento a Dante (forse quello che ora si trova in Piazza Santa Croce a Firenze, ma non vorrei dire una sciocchezza) si rifiutò, dicendo che Dante non ha bisogno di monumenti, perché il proprio monumento se l’è eretto da sé, e grandissimo. Salvo più avanti rendergli un omaggio commosso musicando la sublime preghiera di San Bernardo che apre il Canto XXXIII del “Paradiso”, “Vergine Madre, figlia del tuo figlio”, per coro di voci bianche a cappella. Miscredente, irriverente, bestemmiatore e libertino qual sono, tutte le volte che ascolto quelle note angeliche mi sento correre un brivido per la schiena.
Anche Verdi era liberale e uomo di loggia ma i brividi li provava lo stesso quando si accingeva a comporre brani come quello indicato da don Giovanni. L’inizio dell’inno ricorda la prima parte de “La Vergine degli Angeli”, celebre brano appartenente a “La Forza del Destino”. Con qualche variante, anche per ragioni metriche, le prima proposizione delle voci acute si esprime con la salita di un tono e con una ritmica simile a quella del melodramma citato. Poi assume un carattere autonomo che dimostra come l’autore, a differenza di quanto sosteneva Abbiati, non fosse solo un melodista ma anche un sublime creatore di armonie; alle quali, in questo caso, si potrebbe tranquillamente porre l’attributo di celestiali. Armonie invisibili agli pesudoscienziati della nuova chiesa positivista che di Dante, ma anche di Verdi, conoscono al massimo il nome.