Arte e furto di apparecchi sanitari
“Arte è tutto quello che gli uomini hanno chiamato tale”: così, più o meno (cito a memoria) comincia un saggio del filosofo Dino Formaggio. Verrebbe voglia di rispondere: se tutto è arte, niente è arte. In realtà, l’incipit è un po’ provocatorio e può lasciare perplessi, ma poi nel corso dell’opera il senso dell’affermazione viene chiarito e può anche indurre a qualche sana riflessione. Io devo confessare che non ho mai capito l’arte delle avanguardie novecentesche (per non parlare di quelle d’oggi), forse per mia pochezza mentale. Saggi come quello di Formaggio mi appaiono senz’altro rispettabili e teoricamente ben fondati; ma, dopo averli letti, quando mi metto davanti a un’opera d’avanguardia cercando di comprenderla con tutta la mia buona volontà, sono colto da un senso d’oppressione che mi induce a fuggire. Così feci parecchi anni fa quando, trovandomi a Venezia per motivi galanti, ebbi la stolta idea di visitare la Biennale, che era in corso proprio in quel periodo. Mi bastò la visione di due o tre sale per sentirmi le vertigini, ed essere costretto a girare i tacchi onde riguadagnare al più presto l’uscita. Per ritrovare la salute fisica e mentale sbarcai col vaporetto all’isola di San Giorgio Maggiore, entrai nella basilica e rimasi per un’ora a contemplare l”Ultima Cena” del Tintoretto. Non potei fare a meno di domandarmi come fosse possibile chiamare “arte” sia quel sublime capolavoro sia gli obbrobri che avevo visto poco prima. Sono d’accordo anch’io che un’opera d’arte può essere apprezzata solo se ci si pone davanti ad essa con un atteggiamento estetico, il che significa eseguendo operazioni mentali ben diverse da quelle che compiamo, ad esempio, per valutare se un determinato oggetto è economicamente conveniente, se è abbastanza robusto o se è utile per una certa attività che dobbiamo svolgere. In questo senso è vero che tutto può diventare “arte”: anche una nuvola, quando la guardiamo non per decidere se uscire con l’ombrello o no, ma per gustarne la forma o goderne i colori. Si apprezza un paesaggio, marino, montano, lacustre o anche desertico, proprio perché lo si guarda esteticamente. Io però non riuscirò mai ad apprezzare una distesa di pale eoliche, per quanto mi sforzi di contemplarle secondo categorie estetiche (a dire il vero non mi dicono niente neppure sotto altri aspetti, quello economico, per esempio, o quello tecnologico). C’è chi dice che sono belle, come la Stefania Prestigiacomo. Forse sono io rozzo, ma, almeno per le pale eoliche mi pare che Sgarbi (davanti alla cultura del quale, in fatto d’arte, mi tolgo tanto di cappello) la pensi come me. A questo punto mi sento di concludere: d’accordo, l’atteggiamento estetico di chi si pone davanti all’opera d’arte è imprescindibile (si potrebbe dire che chi esamina un quadro come opera d’arte – e non per valutarne il prezzo di mercato – partecipa sotto certi aspetti alla sua creazione); ma anche l’opera in sé deve essere costruita in modo da sollecitare tale atteggiamento, così da poterne cogliere il valore più profondo: valore estetico, quindi formale, e non d’altro genere. Sbaglierò, ma mi pare che tutta l’arte cosiddetta moderna pretenda di sollecitare il nostro atteggiamento estetico al solo fine di cogliere significati puramente concettuali, non valori squisitamente formali. Qualcuno dice che la famosa “Fontana” di Duchamp è una delle sculture (sic) più importanti del Novecento. Indubbiamente l’artista, prendendo un orinatoio, ruotandolo di 180 gradi e presentandocelo come una fontana, sollecita il nostro atteggiamento estetico distogliendoci dallo scopo pratico di quel manufatto, che viene così trasfigurato in un oggetto “inutile”, com’è inutile tutta l’arte (secondo quanto ben disse Oscar Wilde nella prefazione a “The picture of Doran Gray). Ma il valore di fondo, qual è? Un valore formale? No, è un concetto, anche se non ben chiaro (almeno, non a me). Tutta l’arte “concettuale” vuole comunicarci concetti. Ma allora cadiamo in una sorta di filosofia fatta di simboli e di allusioni visive. O forse in una sorta di letteratura. Sia come sia, l’atteggiamento estetico viene frustrato e rinnegato, in quanto la forma viene sacrificata al concetto.In questi giorni si parla tanto di Maurizio Cattelan, perché la sua scultura d’oro intitolata “America”, consistente in una tazza del cesso perfettamente agibile per i suoi scopi canonici, e di fatto utilizzata dai visitatori del museo dov’era esposta al fine di soddisfare i loro bisogni corporali, è stata rubata, tra l’altro causando danni all’impianto idraulico, con il conseguente allagamento dell’ambiente in cui era collocata. A me non pare che sia tanto originale, quella “scultura”. Siamo sulla stessa linea di Duchamp, cento anni dopo. Si prende una tazza del cesso, non di porcellana, ma d’oro, per sollecitare il senso estetico con la preziosità di un materiale che solitamente viene usato per creazioni più nobili, spesso addirittura per soggetti sacri, e la si battezza “America”, provocando un ulteriore straniamento. Qui il significato concettuale, a differenza della “Fontana” di Duchamp, mi sembra chiarissimo: l’America, nonostante la sua ricchezza, o proprio per quella, è un cesso. Il suo apparente splendore merita di essere disprezzato, pisciandoci e cacandoci sopra. In somma, uno sberleffo al Capitalismo, colpito in quella che viene considerata la sua patria d’elezione, gli Stati Uniti d’America. Così come è uno sberleffo al Capitalismo, e in particolare al mondo della Finanza, quell’enorme dito, creato dal medesimo artista, che campeggia davanti al palazzo della Borsa di Milano. Un dito atteggiato in modo tale da non lasciare equivoci. Chissà quanti frequentatori della Borsa fingeranno di andare in brodo di giuggiole davanti a quell’opera d’arte, pur deprecandola dentro di sé per la sua sconcezza, ma senza comprenderne il significato derisorio e offensivo nei confronti dell’istituzione di cui fanno parte. Anche gli artisti del Medioevo talvolta si divertivano a scolpire immagini oscene o sconvenienti nelle decorazioni delle chiese, ma avevano il pudore di collocarle dove nessuno le poteva vedere. Invece la scultura di Cattelan è ben visibile a tutti. Non so chi ne siano i committenti e chi abbia deciso di collocarla proprio lì. Penso solo che sono stupidoni, e Cattelan un gran furbastro (non ho idea di quanto sia costata; certo non pochi spiccioli). Tornando al furto dell'”America”, io sarei tentato di concludere che anche l’operazione attraverso cui l’opera è stata trafugata, eseguendo un lavoro non solo manuale ma anche organizzativo di tutto rispetto, può essere parte integrante dell’opera d’arte stessa, intesa non soltanto nel suo risultato definitivo, ma anche nel suo farsi. Non solo arte concettuale, ma anche comportamentale, secondo un altro genere inventato dalle avanguardie. Il fatto che la tazza d’oro venga utilizzata dai visitatori come una qualsiasi altra tazza di porcellana non è un comportamento? E tale comportamento non è parte integrante della “scultura”? Ma allora anche la rimozione della tazza è un comportamento dello stesso tipo. Il non essere stato autorizzato da nessuno, e l’aver anzi suscitato sconcerto, causando l’intervento della polizia e della magistratura, rendono l’evento ancor più prestigioso dal punto di vista artistico, poiché sollecitano più che mai l’atteggiamento estetico. E il significato concettuale, a questo punto, che cosa diventa? Bel problema, che farà discutere a lungo gli studiosi. D’altra parte, si sa che tutte le grandi opere d’arte non hanno un significato univoco ma una pluralità di significati, che magari sfuggono al loro stesso creatore. Sono “opere aperte”, per dirla con Umberto Eco. Se i ladri verranno presi, anziché essere condannati dovrebbero essere salutati come collaboratori dell’artista, e remunerati per l’egregio lavoro che hanno svolto. Anche i visitatori del museo che hanno pisciato e cacato nella tazza d’oro dovrebbero essere remunerati. Sono artisti anche loro, sia pure di rango inferiore. I grandi pittori del passato spesso facevano completare le loro opere dagli apprendisti della loro bottega. Nel “Battesimo di Cristo” del Verrocchio c’è anche la mano di Leonardo da Vinci e di altri. Cambiano le forme dell’arte, ma non i meccanismi che presiedono alla loro creazione. I committenti sono, invece, diventati più stupidi. I mercanti d’arte, che vendono la merda d’artista a prezzi spropositati, sono i più furbi di tutti. A loro non interessa né l’atteggiamento estetico né il significato concettuale, ma solo il valore di mercato. Che dipende dalla domanda. Che, nel folle mercato dell’arte, è più che mai direttamente proporzionale alla stupidità umana.
Ricordo una vignetta di Giovanni Mosca: vandalo costruisce tela bianca intorno a “Taglio” di Fontana. Una volta ascoltai la prima composizione di Luciano Berio, la Piccola Suite n. 1 per pianoforte. Atonale ma non particolarmente avanguardistica, comunque interessante e per quanto mi riguarda gradevole. Le sue ultime composizioni mi hanno convinto ben poco. Invece delle pale eoliche c’erano quelle degli elicotteri preregistrate. Ma per riprodurre i rumori esterni è necessario studiare composizione musicale? Ogni tanto mi piace ascoltare Petrassi, Malipiero, Varèse, Maderna e altri; magari anche più tradizionalisti come Mannino , Rota o Tosatti. Ma sicuramente i lavori post Nagasaki hanno su di me un impatto emotivo inferiore; malgrado il sottoscritto sia nato tredici anni dopo la seconda atomica in Giappone. Nella parte finale della breve storia della musica di Massimo Mila, l’autore rammenta il tempo in cui difese Stravinsky dagli ultratradizionalisti che sbeffeggiavano la Sagra della Primavera. Il noto critico si era ripromesso di non comportarsi come quegli sbeffeggiatori nel commentare le opere del futuro. Ammise onestamente di non essere riuscito a mantenere quel suo giovanile proposito. Sarà perché invecchiamo e non riusciamo a non essere tendenzialmente conservatori? Ai sedicenti progressisti la per loro non troppo ardua sentenza.
Bisogna avere il coraggio di dire che il re è nudo. D’altra parte, è stato proprio Claude Levi Strauss, non proprio un reazionario, a demolire la dodecafonia e l’arte astratta nella prefazione a “Il crudo e il cotto”, partendo dal principio della “doppia articolazione del linguaggio” di André Martinet. Conosco già l’obiezione: arte e musica non sono linguaggi. Però hanno la pretesa di comunicarci qualcosa. Anche un urlo di dolore ci comunica qualcosa, pur non essendo un linguaggio. Ovvero: se manca il linguaggio, si ritorna alla comunicazione grezza, attraverso rumori o scarabocchi. Viene meno la forma, cioè l’arte rinnega se stessa. A meno che non si interpreti, sempre in modo grezzo, l’affermazione di Dino Formaggio con cui abbiamo aperto l’articolo: “Arte è tutto quello che gli uomini hanno chiamato tale”. Se io chiamo arte la merda, anche la merda diventa arte.
Ho simpatia per il dada e l’ultima affermazione è tipicamente dada, per cui arte può essere qualsiasi cosa e come conseguenza nulla è arte. L’arte non deve separarsi dalla vita reale ma confondersi con questa e il valore dell’artista non consiste nella sua abilità manuale, ma nelle idee che riesce a proporre. Il valore dell’orinatoio (a propos: è bastato ruotarlo di soli 90 gradi) e in ogni ready-made in genere sta nell’idea, per cui si parla di arte concettuale. Togliendo valore alla manualità, artista non è più colui che sa fare delle cose con le proprie mani, ma è colui che sa proporre nuovi significati alle cose, anche quelle già esistenti.
L’arte di un tempo è finita con l’invenzione della fotografia e della produzione in serie, ci si metta pure il cuore in pace.
L’arte è finita con l’invenzione della fotografia? Mi si spieghi allora come mai gli Impressionisti, respinti da tutte le gallerie accademiche, trovarono ospitalità nello studio del fotografo Nadar. Se l’assunto fosse vero, sarebbe stato Nadar a respingere gli Impressionisti. Il rifiuto opposto dalle gallerie accademiche dimostra invece che è possibile rinnovare l’arte senza ripetere il passato, evitando di riprodurre la realtà secondo canoni superati, ma anche di violentarla. Il Dottor Vetrata dell’omonimo racconto di Cervantes lamentava che ai suoi tempi gli artisti vomitavano la natura invece di imitarla: eppure nei primi anni del secolo XVII la fotografia era ancora di là da venire. D’altra parte, le avanguardie novecentesche, e i loro stanchi ripetitori d’oggi, hanno sconvolto i canoni della tradizione non soltanto nelle arti della visione, ma anche nella musica e nella letteratura. La letteratura, dovendosi esprimere in una lingua che, in quanto tale, non può prescindere dai valori semantici, ha dovuto in qualche modo mantenere i legami con la tradizione: oltre lo sperimentalismo di Joyce in “Finnegans wake” non si può andare (rimane vero che certa poesia d’avanguardia è repellente e indigesta: si pensi, per fare un esempio, a Edoardo Sanguineti). La musica, dal canto suo, dopo la plumbea noia della dodecafonia (cui bisogna riconoscere una struttura formale impeccabile: peccato che sia comprensibile solo agli addetti ai lavori), attraverso la rivalutazione del rumore nelle avanguardie post-weberniane, è arrivata al silenzio totale, con 4’33” di John Cage.
Tutte queste cose avranno un significato profondissimo, non lo metto in dubbio. Ma allora, invece di andare a una mostra o a un concerto, o di leggermi versi brutti e icomprensibili, preferisco impegnare il mio tempo con un bel libro di filosofia, o magari- se avessi la preparazione necessaria, come purtroppo non ho – di fisica quantistica, o di algebra superiore (che non soltanto ha un significato formidabile, ma anche una struttura formale vertiginosa). Può darsi che l’arte del passato sia morta; di sicuro quella delle avanguardie è un aborto.
Non lo so, ma potrei rispondere con un altra domanda: perchè ad es. Picasso o Dalì, dipingevano cose così brutte (non erano imbrattatele alla Pollock, Picasso sapeva dipingere benissimo, forse a livello di Michelangelo, e Dalì dipingeva anche meglio di Picasso e Michelangelo messi insieme).
Il problema è che la pittura decorativa non ha più alcun senso quando posso avere un poster per pochi soldi, quindi si cercano altre strade e gente come Picasso (ma anche De Chirico, Kandinsky e altri) hanno dimostrato di essere credibili (Dalì un po’ meno, troppo commerciale e cialtrone).
Poi è proprio il MERCATO (e qui sono sempre stato io il più scettico su questo moloch idolatrato, manipolato ad arte – nell’arte – da mercanti senza scrupoli, basti vedere le quotazioni folli e imbarazzanti dei Fontana) che ha decretato la fine della pittura decorativa.
Un mio conoscente negli anni 90 aveva in casa un De Chirico (uno dei tanti “cavallini”) che magnificava come un grosso affare comprato a 300.000 lire negli anni 60 e che mi diceva in quel momento valere sui 300 milioni. Certo, ma era solo una decorazione, che valeva per ciò che era diventato De Chirico grazie ai sui quadri metafisici. Se avesse avuto appunto un’opera metafisica del maestro, la avrebbe pagata forse un po’ di più negli anni 60, ma avrebbe avuto almeno qualche miliardo in casa 30 anni dopo.
Non c’è nulla che renda come l’arte, ma è un terreno minato. Io non lo frequento perchè temo i falsi e non mi fido di esperti ed expertises, ma se avessi le competenze adatte investirei solo in questo campo, che può appagare lo spirito e riempire il portafoglio al tempo stesso.
Infatti non ho mai capito se Piero Manzoni volesse intendere che il suo fosse un prodotto artistico oppure che anche gli artisti mangiano, bevono e conseguenzialmente “producono”. A essere sbagliata è proprio l’obiezione: le arti, visive e sonore, sono linguaggi. Non sono lingue (qui, forse, Levi Strauss avrebbe concordato con De Saussurre) ma se comunicano qualcosa sono automaticamente linguaggi. Non è vero, invece, il contrario e cioè che tutti i linguaggi siano automaticamente opere d’arte. Perché, appunto a molti linguaggi manca la forma. Affermare che arte sia tutto ciò che così viene chiamata (da chi? dal popolo che osserva il re nudo o dai cortigiani?) rischia di lasciar cadere il pensiero nel più inattuale nominalismo senza risolvere (anzi aggravandolo) il problema degli universali. Evidentemente nel pensiero di alcuni studiosi contemporanei mancava e tuttora manca l’idea di forma. Parola, quest’ultima, da cui deriva anche… Formaggio! Insieme al marzemino, anche un po’ di taleggio non guasterebbe a certi accademici ma va bene anche del caciocavallo con il biancolello d’Ischia. In quest’ultimo caso, per ragioni geografiche, con l’accompagnamento estetico di Nino Taranto nella sua celebre macchietta “Ciccio Formaggio”.
Dare una definizione di arte è davvero difficile per uno come me che al massimo si intende di certi cataloghi (anche se è forse da considerare “arte” anche quella).
Mi chiedevo tuttavia quali sono, per un artista o per un’opera o per una corrente culturale, le conseguenze dell’ottenimento del brevetto artistico o della ufficiale classificazione di “arte”. Finire in un museo? Ricevere le attenzioni dello Stato protettore? Essere oggetto di una trasmissione di divulgazione della RAI? Se invece dell’ “arte” si devono occupare le coscienze individuali (dai liberi mecenati ai consumatori di fumetti) non credo che sia possibile individuare un canone universale.
Metodo1 (per lo spettatore)
Il solo vedere un opera e associarla subito ad una persona a colpo sicuro senza sbagliare è già indice che quella persona è qualcosa di più di un semplice pitture/scultore, ma è probabilmente un artista.
Metodo2 (per l’artefice, soprattutto senza particolari qualità)
Come nella vita, deve arruffianarsi gli sponsor giusti (mercanti, critici, direttori di musei…) affinchè lo appoggino, altrimenti la strada è molto più difficile. Qualcuno è riuscito a farne a meno riuscendo a fare anche due o tre biennali (Tano Festa ad es. che era un puro ed è morto di fame), ma sono casi rari.
Se io vedo in un museo una tela bianca percorsa da un taglio, capisco subito che l’autore è Lucio Fontana ? Non ne sarei del tutto sicuro. Tutti sono capaci di produrre un’opera del genere. Quanto alle opere del passato, capita spesso che anche i più esperti rimangano in dubbio sull’attribuzione. Siamo da capo. Che cos’è l’arte? Per capire la “Dama con l’ermellino” di Leonardo e un sacco o un cretto di Burri, devo compiere la medesima operazione mentale? E così per comprendere il “Wohltemperierte Klvier” di Bach e “Al gran sole carico d’amore” di Nono? O la “Ginestra” di Leopardi e “Laborintus” di Sanguineti? E’ evidente che con le cosiddette avanguardie si è avuto non soltanto un cambio di poetica, come è sempre successo nel passato (la poetica del Barocco è all’opposto di quella del Rinascimento), ma un totale sovvertimento dei linguaggi ; o, se di linguaggi non si vuol parlare, degli stessi principi fondamentali delle arti. Si è distrutto non solo il palazzo, ma anche le fondamenta. Per conseguenza, si può essere in grado di comprendere senza difficoltà l’arte del passato, ma sentirsi analfabeti di fronte all’arte di oggi. Io sono uno di questi analfabeti. Mi chiedo se -a parte i critici, che per definizione non capiscono niente, e spesso sono mossi da interessi puramente commerciali- chi dichiara di amare e capire tanto l’arte del passato quanto quella d’oggi sia particolarmente versatile, così da saper assumere, di fronte a opere diverse e incompatibili, attitudini mentali a loro volta diverse e incompatibili, oppure menta prima di tutto a se stesso.
Su Fontana gira tra l’altro la voce che il primo taglio sia stato in realtà il suo mercante a proporlo, recuperando una tela rovinata gettata in un angolo dal caro Lucio e vedendo se riusciva a cavarci qualcosa.
Comunque sia, Fontana (come Duchamp o Manzoni o Cage) ha avuto un’idea provocatoria, chapeau, personalmente ritengo giusto che entri nei libri d’arte (non certo in casa mia).
Lo scandalo per me è che ci siano in giro migliaia di tagli di Fontana tra falsi e veri, quando un paio super-certificati-e-garantiti sarebbero più che sufficienti.
Lo scandalo per me è che ci siano orchestrali in gran spolvero che osservino religiosamente un silenzio cronometrato con precisione dal loro direttore.
Lo scandalo per me è che l’arte moderna e contemporanea abbia il suo epicentro in Usa, che artisti VERI non ne ha mai avuti, ma in compenso ci impone la sua paccottiglia: Wahrol, Koons, Pollock.
E proprio Pollock è l’artista più quotato al mondo, uno che al massimo doveva fare un paio di opere come Fontana, entrare nei libri per la sua bella idea di chiamare drip painting il mestiere di imbrattare tele e togliersi dalle palle.
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“chi dichiara di amare e capire tanto l’arte del passato quanto quella d’oggi sia particolarmente versatile, così da saper assumere, di fronte a opere diverse e incompatibili, attitudini mentali a loro volta diverse e incompatibili, oppure menta prima di tutto a se stesso”.
L’arte del passato può anche essere inutile e orrenda, ad es. tutta la ritrattistica dei nobili.
Chi si metterebbe in casa il Montefeltro di Piero della Francesca? Se lo avessi io, sarebbe subito in vendita e nel frattempo lo coprirei con un telo per non che mi turbi il sonno.
Personalmente amo la pittura metafisica di De Chirico e anche di Carrà, non quella di Morandi.
Purtoppo De Chirico non era una certo una bella persona, ma una discreta mer**ccia, avido, cinico, opportunista, falsario tra i falsari: però le sue opere (che pittoricamente valgono poco, sia ben chiaro, e sono falsificabili facilmente) mi appagano e mi rilassano e tanto mi basta.
Ho dimenticato di citare Savinio che, essendone il fratello, è praticamente un clone di De Chirico (ma per certi aspetti è persino più interessante).
Non è male il metodo 1. Solo che oggi prevale l’idea espressa nel finale del goldoniano “Il Campiello”. Per fortuna a pronunciare l’infelice frase è un personaggio alquanto sciocco che l’autore crea volutamente in quel modo. Sul metodo 2 non vedo alternative agli appoggi. Ma a parte il vicesindaco di Sutri, dove sono oggi i mecenati?