Don Giovanni

Uno non è uguale a uno

“Io sostengo, come del resto gli altri Elleni sostengono, che gli Ateniesi sono molto sapienti. Ebbene, io vedo che, quando ci raduniamo in assemblea, se la città ha a che fare con questioni che riguardano la costruzione di edifici, si fanno intervenire in veste di consiglieri in materia di costruzioni gli architetti; se, invece, deve prendere qualche decisione circa la costruzione di navi, si mandano a chiamare i costruttori di navi, ed è lo stesso il criterio seguito quando si tratta di tutte le altre cose che, essi ritengono, si possano imparare e insegnare. Ma se prova a dar loro consigli qualcun altro che essi non stimano pratico di quel dato mestiere, per quanto sia bello, ricco e nobile, non per questo lo ascoltano, ma lo deridono ed esprimono il proprio malcontento levando un gran baccano, finché colui che ha tentato di parlare, interrotto da quel baccano, non desista per conto suo, o gli arcieri non lo tirino via e lo caccino fuori per ordine dei Pritani. (…) Quando invece si tratta di decidere circa l’amministrazione della città, allora si leva a dar loro consigli su tali questioni, indifferentemente, l’architetto, il fabbro, il calzolaio ,il mercante, l’armatore, il ricco, il povero, il nobile e il plebeo, e a costoro nessuno rinfaccia (…) di mettersi a dar consigli senza aver prima imparato da qualche parte e senza aver avuto alcun maestro…”

E’ un passo del “Protagora” di Platone, scritto un bel po’ più di due millenni fa. E poi venitemi a dire che la cultura classica è roba da vecchi professori ammuffiti! Qui si pone sulla tavola una questione che proprio in questi giorni sta infiammando gli animi. Quei bei tomi di Grillo, Casaleggio e Compagnia vanno proclamando che la democrazia è morta (il che può essere vero, ma non nel senso che intendono loro); quindi propongono che le assemblee rappresentative siano costituite non attraverso il suffragio dei cittadini, sulla base di liste di candidati proposti da partiti, ma per sorteggio. Apriti cielo! Qualcuno commenta:”Bravissimi! Voi vi fareste togliere un dente da un cittadino tratto a sorte? Per sottoporvi a un’operazione chirurgica andreste da un medico, o vi rivolgereste a una persona qualsiasi?” E via di questo passo. Qualcun altro ribatte: “Niente di nuovo sotto il sole. Nell’antica Atene alle cariche pubbliche si accedeva per sorteggio; e nell’assemblea popolare tutti potevano prendere la parola:uno valeva uno”.

Le cose stanno proprio così? Procediamo con ordine. Il problema è posto non male, ma malissimo. Innanzitutto ricordiamo che ad Atene, nel momento più fulgido della sua storia, i cittadini con diritti politici, escludendo donne e bambini, non dovevano essere più di trentamila, su una popolazione di circa 300.000 anime. All’Assemblea partecipavano abitualmente gli abitanti della città, più raramente quelli del contado. Qual era la media dei partecipanti? Difficile dirlo, certo una minoranza degli aventi diritto. Quindi era gente abbastanza addentro ai problemi da discutere. Si alzavano tutti a parlare? Impossibile! Prendevano la parola i più esperti. Spesso a tenere il bandolo della discussione e a orientare il voto erano abili oratori (politici di professione, diremmo noi), spesso erano i personaggi più ricchi e più influenti. Pericle, per esempio, ma anche il malfamato Cleone, o l’ambiguo Alcibiade, o il probo Nicia. Costoro non erano gente qualunque, ma strateghi (generali dell’esercito, diremmo noi), scelti non per sorteggio ma attraverso il voto, fra i membri delle classi più elevate. E’ vero che i membri dei governi (che formavano la Bulè, o Consiglio dei Cinquecento) venivano scelti per sorteggio nell’ambito delle dieci tribù in cui era divisa la popolazione; così pure gli arconti, magistrature cui erano attribuite specifiche competenze; lo stesso si dica per le giurie dei tribunali (non il tribunale dell’Areopago, competente per i delitti di sangue). Altrettanto vero che determinate cariche, particolarmente delicate, specialmente in materia finanziaria, erano assegnate(forse per votazione) a persone capaci e affidabili, di alto rango (uno per tutti: il tragediografo Sofocle). Quindi non è vero che uno era uguale a uno. Dal passo di Platone, inoltre, risulta chiaramente che non solo nella vita privata, ma anche in quella pubblica si ricorreva al parere degli esperti. Sui problemi tecnici l’Assemblea consultava i tecnici, e sulla base dei loro consigli prendeva le decisioni.

In somma, non era il governo degli ignoranti. Anche se in Platone si pone un problema: quando la decisione è squisitamente politica, allora tutti si sentono in diritto di parlare. Ma la politica si basa, o dovrebbe basarsi, sulla virtù. La virtù, allora, non è insegnabile? Dopo lunga discussione sarà Socrate ad ammettere che invece è insegnabile. Quindi è frutto di conoscenza, quella che permette di discernere il bene dal male. Ergo, il buon politico non può essere un ignorante. Ancora una volta, uno non è uguale a uno. Che sarebbe oggi di un’assemblea costituita per sorteggio? Sarebbe un’assemblea di somari. Che magari voterebbero contro i vaccini, contro gli OGM, per il finanziamento pubblico della cosiddetta medicina alternativa, per la decrescita felice, per l’indebitamento senza freni, per il reddito garantito ai fannulloni, per gli sbirri sulle spiagge, per la caccia agli zingari, per una legittima difesa senza proporzionalità. Capita già adesso, del resto; elevate all’ennesima potenza e state a vedere quel che viene fuori

Giovanni Tenorio

Libertino