Tasse e brevetti
Non è la prima volta che Bill Gates lamenta di pagar poche tasse, dicendo che quelli come lui dovrebbero pagare molto di più. Mi pare che qualcosa di simile abbia detto anche Soros. Le tasse, dunque, per questi ricconi sono una cosa bella. Posso capire che l’abbia detto uno che non le pagava, come Padoa Schioppa (i dipendenti pubblici le pagano per finta: la loro è una semplice partita di giro: se prendono 100 e restituiscono 20 in realtà guadagnano 80 netti), ma che lo dicano miliardari come Gates e Soros. Forse è la dimostrazione dell’utilità marginale decrescente del reddito, quella che giustificherebbe la progressività dell’ imposizione fiscale: se guadagno mille euro al mese l’ elemosina di 80 euro elargitami da Renzi giunge benvenuta, se guadagno un miliardo 80 milioncini in più o in meno non mi fanno né caldo né freddo.
Ma perché desiderare di buttar soldi regalandoli allo Stato, che è il più grande sprecone e il peggior investitore? Sappiamo che Gates finanzia lautamente una fondazione benefica di cui dobbiamo essergli grati: si occupa soprattutto dei bambini dei Paesi poveri, sottraendoli a malattie devastanti. Perché non aumentare tali finanziamenti? Perché non finanziare altre opere di beneficenza? Il modo migliore per un ricco di aiutare il povero è quello di donargli ciò di cui abbisogna senza intermediazioni. Si dirà: ma Gates vuole che tutti i ricchi come lui siano obbligati a fare del bene. Due obiezioni: pagare le tasse non è fare del bene: è come dare i soldi a un ubriacone, che li spende all’osteria. Inoltre la beneficenza fatta per obbligo perde ogni valore morale.
Andreotti diceva che a pensar male si fa peccato, però ci si azzecca. Anch’io voglio pensare male. Gates ha un debito di gratitudine verso lo Stato. Ha costruito il suo impero dal nulla, cominciando a lavorare in uno scantinato con mezzi di fortuna. In questo è da ammirare, un vero imprenditore, un eroe di quelli che piacevano a Schumpeter. Ma poi, come tutti i suoi illustri colleghi, ha cominciato a lucrare rendite enormi grazie alla legislazione che protegge la cosiddetta “proprietà intellettuale”: i famigerati brevetti. Senza lo Stato la proprietà intellettuale non esisterebbe. È un modo per produrre scarsità artificiale. Ha molto che fare con il capitalismo come s’è andato configurando storicamente, ma non ha nulla da spartire col libero mercato. Vi immaginate che cosa sarebbe successo se chi ha inventato la tecnica per accendere il fuoco, facendo compiere un grande passo avanti allo sviluppo della civiltà umana, avesse potuto brevettare la sua invenzione? Lo sviluppo sarebbe stato più lento. Invece fu un’ invenzione “open source”, come si direbbe oggi, che si propagò in un baleno a beneficio di tutti. Lo stesso si dica per la ruota. Copiare è bello, ed è tutt’ altro che facile. Ci vuole dell’ ingegno. Io, con tutta la buona volontà, non sarei in grado di ricopiare la “Gioconda” di Leonardo. Tanto di cappello a chi lo sa fare. Copiare è deplorevole solo agli esami. Quella sì è una truffa.
Non è un caso che il liberalismo classico abbia sempre guardato con sospetto ai brevetti. Li voleva limitati nel tempo, in quanto antitetici alla libera concorrenza.Nel sistema capitalistico odierno, blindato dalla proprietà intellettuale, l’unico mercato libero è il mercato nero. L’ha detto qualcuno e sono ben lieto di ripeterlo (vedete che nel mio piccolo copio anch’io).
Se Bill Gates vuole essere doppiamente benefattore dell’ umanità continui a finanziare la sua benemerita fondazione, ma rinunci anche a tutti i suoi brevetti,invitando i colleghi a fare lo stesso. Passerebbe alla Storia come colui che ha aperto le porte al capitalismo buono. Alla faccia del WTO e di tutti gli altri organismi che, in nome di un mercato fasullo, mirano solo a consolidare il sistema vigente: scarsità artificiale garantita dallo Stato, ai danni dei consumatori.