Don Giovanni

Sembra un ducetto, ma è solo un pirla

Cari amici, che ne direste se, nel bel mezzo d’una partita a carte, un giocatore si alzasse e dicesse: “Signori miei, bisogna cambiare le regole del gioco: così non vanno; ve ne propongo di nuove, le approviamo a maggioranza e si riparte!” Penso che tutti i compari protesterebbero a gran voce, data l’enormità della proposta. E’ possibile invece, anche se molto improbabile, che, se nessuno al momento ha carte buone con qualche prospettiva di vittoria, si accetti di azzerare tutto, formulare di comune accordo nuove regole (che sarebbero nel complesso imparziali, vista l’impossibilità di prevedere quale sarà la condizione di partenza di ciascuno una volta distribuite le carte), approvarle all’unanimità e ricominciare il gioco.
Il sistema elettorale è un insieme di regole del gioco per determinare, secondo principi condivisi dai partecipanti, chi sarà legittimato a governare. Tali regole dovrebbero quindi essere formulate dietro un “velo di ignoranza”, per usare la famosa metafora di Rawls, in modo che nessuno possa sapere in anticipo quali saranno le proprie condizioni di partenza, una volta approvate e divenute operative le regole stesse. Dovrebbero essere fissate di comune accordo e approvate all’unanimità. Mi sembra logico! Ecco perché non capisco come mai le costituzioni, non ultima la più bella del mondo, di cui tanti italici vanno orgogliosi quasi fosse un testo sacro, demandino solitamente la fissazione delle regole concernenti il sistema elettorale alla legislazione ordinaria. E’ chiaro che in questo modo chi governa può, quando il rapporto di forze entro cui agisce gliene offre il destro, proporre nuove regole del gioco costruite in modo tale da trarne vantaggio. Non sempre lo stratagemma ha successo. Ricordate la famosa “legge truffa”? Nell’Italia dei primi anni Cinquanta del secolo scorso il sistema politico, ormai incardinato sulla DC come partito di maggioranza relativa costretto a governare in coalizione con le forze laiche di area centrista, cominciava a dar segni di crisi, facendo balenare in qualche mente “progressista” il sogno d’una possibile “apertura a sinistra”, vale a dire un governo di coalizione comprendente il Partito Socialista. Ecco allora spuntare l’idea di un sistema elettorale che concedesse un premio di maggioranza alla lista o al gruppo di liste associate che superassero la metà dei voti validi: così chi avesse ottenuto il 50% + 1 dei consensi avrebbe avuto il 65% dei seggi. Le opposizioni fecero fuoco e fiamme. Non avevano torto: era chiaro che un sistema del genere, contrabbandato come antidoto alla fragilità dei governi formati in base ai risultati del sistema proporzionale puro, era fatto apposta per rafforzare la DC e, in subordine, le coalizioni centriste. La sorte volle che, approvata la legge, alla successiva tornata elettorale nessuno dei partecipanti superasse la maggioranza assoluta: Il premio non scattò e la legge fu presto abrogata. Nel 1923, invece, Mussolini aveva avuto molto più successo con la legge Acerbo, che garantiva i 2/3 dei seggi alla lista che avesse raggiunto il 25% dei consensi. Ci fu qualcuno che ebbe il coraggio di definirla una legge liberale, visto che consentiva un “diritto di tribuna” alle minoranze, sia pur ridotte a 1/3 della rappresentanza parlamentare. Chi aveva interesse ad approvare un simile obbrobrio? I Fascisti e i loro accoliti. Tant’è vero che a votar contro furono Socialisti, Comunisti, Sinistra Liberale. Gli altri, di fatto, votarono il suicidio del Parlamento, aprendo la strada alla dittatura, come avrebbero fatto più tardi il Reichstag tedesco concedendo pieni poteri a Hitler e l’Assemblea Nazionale Francese consegnandosi al maresciallo Petain.
Stendo un velo pietoso su tutti gli altri tentativi di modificare il sistema elettorale italico nel regime repubblicano. Il risultato più ributtante fu la legge di Calderoli e compagni, battezzata “Porcellum” da Giovanno Sartori, che assegnava un premio alla lista più votata senza nemmeno fissare un limite minimo di maggioranza. “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”. Vorrei invece soffermarmi sull'”Italicum”di Renzi per l’elezione della Camera dei Deputati, gabellato ancora una volta come provvedimento a garanzia della governabilità. Di nuovo, si concedono premi di maggioranza. Nella versione definitiva, a chi raggiunge il 40% dei consensi viene assegnato il 54% dei seggi (340 su 630). Se nessuno lo raggiunge, si va al ballottaggio fra le due liste più votate, senza possibilità di apparentamenti; e il vincitore ottiene 340 seggi.
Bellina, vero? Più vicina alla legge Acerbo che alla legge truffa. E’ chiaro che Renzi l’ha strenuamente voluta per rafforzare il proprio potere e garantirsi un solido futuro, da quell’aspirante ducetto che è. Esagero? Può darsi, ma è stato Piero Ostellino, liberale classico, non certo estremista libertino, a sostenere che Renzi, se oltre a essere furbo fosse anche intelligente, potrebbe diventare un nuovo duce. Dal duce di Predappio al duce di Rignano. In un primo tempo ebbe buon gioco ad associare alla sua riforma, in omaggio al cosiddetto Patto del Nazareno, l’ammaccato Berlusconi, voglioso di rimanere a galla in modo purchessia dopo le ultime batoste subite. Il cavaliere per un po’ stette al gioco, poi quando si vide sgambettato dal Renzino con l’elezione a Presidente della Repubblica di Mattarella, concordata a suo dispetto con le sinistre, gli voltò le spalle.
Per fortuna Renzi è solo furbo. Certo, l’ha pensata bella, ma non ha fatto bene i suoi conti. Con la successiva riforma del Senato, che dovrà essere approvata per referendum, ha predisposto un sistema privo di contrappesi, sbilanciato a favore della maggioranza governativa: la fiducia sarà riservata alla sola Camera, i poteri del Senato, nominato con un meccanismo elettorale di secondo grado, diventeranno di fatto residuali e limitati ad ambiti circoscritti. Le nuove norme consentiranno alla Camera, ovverosia alla maggioranza governante, di approvare le leggi di bilancio senza troppi intoppi, col risultato che la spesa pubblica tenderà inevitabilmente ad aumentare. Nel frattempo la RAI, grazie a una “riforma” infame rafforzata dall’aumento dei finanziamenti derivante dalla bella trovata del canone in bolletta, nonché a un’infornata di dirigenti proni al volere di chi li ha nominati, è diventata una sorta di Minculpop, peggio dell’EIAR fascista. Quando Berlusconi brigò per allontanare dai programmi radiotelevisivi lo sgradito Enzo Biagi si attirò, giustamente, una marea di critiche. Ora che i dirigenti RAI chiudono sul secondo canale la rubrica “Virus” perché non gradiscono l’anti-renziano Nicola Porro, si levano solo tenui belati. E’ il regime che avanza, signori miei. Esagero? Cedo di nuovo la parola a Ostellino: “Ci stiamo avviando a un sistema autoritario grazie a un giovanotto assetato di potere personale. Vengono al pettine, così, i nodi non sciolti della Resistenza al fascismo e la mancata rielaborazione di ciò che erano stati il fascismo e l’antifascismo che – per citare una paradossale affermazione*- finiscono con essere la faccia di una medesima medaglia. E assumono rilevanza profetica le riflessioni di Piero Gobetti sul Risorgimento e il fascismo come riflesso della vera natura della Nazione”.
Furbo, si diceva, ma non intelligente. La stagnazione economica gioca contro Renzi. Sperava, il ragazzotto, che l’elemosina di 80 euro in busta paga rimettesse in moto consumi e produzione. Ci vuol altro, figlio mio! Sperava che la buona congiuntura internazionale- petrolio ai minimi, liquidità generosa, deprezzamento dell’Euro, moderata ripresa dell’economia statunitense- facesse il suo gioco, trascinando anche l’Italia nel vortice di una sostanziosa rimonta. Povero illuso! Sempre più in braghe di tela: il debito pubblico non accenna a diminuire, l’occupazione langue, l’oppressione fiscale continua a strangolare il sistema produttivo. Si ventila la necessità di aumentare quanto prima le percentuali dell’ IVA, “perché ce lo chiede l’Europa”. Il malcontento cresce. Se tutto va bene, ammesso e non concesso che il referendum confermi la sua riforma senatoria, il Nostro alle prossime elezioni politiche si troverà di fronte non solo un innocuo centrodestra in frantumi, ma anche un agguerrito Movimento 5 Stelle che gli darà del filo da torcere, magari soffiandogli al ballottaggio il cadreghino. Ma io penso che tutto finirà molto prima. Le imminenti elezioni amministrative non sono come il recente referendum sulle trivelle, che interessava a pochi o a nessuno. Potrebbero essere una gran batosta per il partito renziano. A Roma potrebbe vincere il bel viso pulito (lo dico senz’ombra di ironia, idee politiche a parte è una donna che volentieri aggiungerei alla mia lista) di Virginia Raggi. Sarebbe l’inizio della fine.
Come libertino -lo sapete bene- aborro i meccanismi istituzionali e non so che farmene della democrazia. Sono per la disobbedienza civile, accettando di finire davanti alla giustizia di Stato nella speranza di riportare qualche vittoria, proprio sulla base della costituzione più bella del mondo che pure detesto. In somma, mi avvalgo delle istituzioni per minare le istituzioni. La mia battaglia contro il canone RAI in bolletta, di cui ho dato a suo tempo ampio resoconto, va in questo senso. Ecco perché, una volta tanto, non ritengo contraddittorio per un libertino partecipare al referendum sulla riforma senatoria. Renzi l’ha legata strettamente al suo governo, dichiarando che, in caso di sconfitta, se ne andrà. Bene, accompagniamolo alla porta: è lui il primo a distorcere un meccanismo istituzionale “neutro” piegandolo a significati plebiscitari che non dovrebbe avere. Usiamo allora questo grimaldello per sfasciare il suo piano autoritario, dissolvendo lo spettro del ducetto di Rignano. Niente astensione, quindi, questa volta! L’Aventino fu un gesto nobile, ma anziché minare il Fascismo ne accelerò il trionfo, togliendogli di mezzo l’opposizione istituzionale.
E’ vero: furbo, ma non intelligente. Nella sua Toscana direbbero ch’è un bischero, a Genova un belinone, nel Veneto un bigolo e a Milano un pirla. Ma, per citare Eugenio Montale “I pirla non sanno di esserlo. Se pure ne fossero informati / tenterebbero di scollarsi con le unghie quello stimma”.

* Penso che Ostellino alluda al famoso aforisma di Ennio Flaiano. “In italia ci sono due tipi di fascisti, i fascisti e gli antifascisti”. Il passo citato è tratto dal “Giornale” di lunedì 23 maggio.

Giovanni Tenorio

Libertino

Un pensiero su “Sembra un ducetto, ma è solo un pirla

  • Alessandro Colla

    Poteva essere un’occasione per passare veramente dalla prima alla seconda repubblica. Poteva essere arrivato il momento di un’autentica separazione tra potere legislativo e potere esecutivo. Si poteva prevedere l’elezione diretta del primo ministro, cavallo di battaglia dello stesso partito del primo ministro attuale quando il partito stesso era in mani veltroniane. Da “destra” ci furono opposizioni perché volevano l’elezione diretta del presidente della repubblica, eliminando così l’unica figura teoricamente super partes come lo sono (almeno apparentemente) i sovrani dinastici. La cosiddetta destra avrebbe potuto proporre il divieto costituzionale di decreti governativi, salvo tre sole emergenze: epidemia, calamità naturale, guerra. Coerentemente si sarebbero potute avanzare due richieste importanti. La prima, una legge elettorale proporzionale con una soglia di sbarramento minimo del cinque per cento e un piccolo premio di maggioranza, magari di un solo seggio, per la lista più votata. La seconda, un sistema legislativo monocamerale per le leggi ordinarie e bicamerale per le modifiche costituzionali. Il senato dovrebbe essere veramente “senex”, con saggi settantenni estratti a sorte tra i candidati delle singole liste. Ma Napolitano pensò bene di nominare parlamentari a vita dei quarantenni. Altre occasioni mancate: l’abolizione del laticlavio a vita, la riduzione del mandato presidenziale a cinque anni rinnovabile una sola volta, la coincidenza dello stesso mandato con la durata della legislatura, un parlamento non più con possibilità di scioglimento da parte del Quirinale, il cercare di far coincidere tutte le elezioni (locali, nazionali ed europee) in un’unica tornata, un decentramento autentico, l’abolizione delle giunte regionali e provinciali, la sostituzione dei consigli intermedi con le conferenze dei sindaci o dei presidenti dei consigli di quartiere, la riscossione dei tributi da parte di questi ultimi e da parte dei piccoli comuni(a proposito: dov’è la “Lega”?). Sempre i sedicenti liberali avrebbero dovuto esigere il turno unico per le parlamentari e le governative, abolendo i ballottaggi per le amministrazioni locali; così come avrebbe dovuto chiedere il prolungamento degli orari per le operazioni di voto. Questo perché altrimenti vincerebbe sempre la sinistra che ha un elettorato per sua natura militante, al contrario dell’elettore medio di altre aree politiche. Ma il cervello dei dirigenti della “destra” (tra virgolette perché liberale non è) è dello stesso livello, se non inferiore, degli elettori di sinistra. Per accontentare gli appetiti degli inutili Giovanardi o Buttiglione o Casini di turno, hanno preferito scegliere il divieto di questi ultimi agli accordi con i radicali. Con il risultato di perdere le elezioni del 1996, del 2006 e del 2013. E di avere una maggioranza risicata nel 2001. Con la separazione autentica dei poteri si apriva la strada anche per frenare gli sconfinamenti di quel terzo dei poteri che è stato l’incubo ma al tempo stesso il cavallo di battaglia (solo a parole) di chi ha promesso la rivoluzione liberale per poi tradirla cercando il voto dei “moderati”. Certo: le rivoluzioni si fanno con i moderati, non lo sapevo. E quelle liberali si attuano con i clericali, con i corporativisti, con i nazionalisti e i conservatori. Come va avanti il progresso? Abolendo la ricerca scientifica per decreto legge! Così accontentiamo anche Gasparri e Mastella, altri noti rivoluzionari liberali. Mancata occasione pure per inserire un tetto alla spesa pubblica in costituzione. Ma tutti gli schieramenti sono per aumentarla, soprattutto quando ipocritamente affermano il contrario. Dovendo scegliere solo tra diversi gradi di socialismo, preferisco astenermi dal voto. Da potenziale elettore romano, con tessera elettorale scaduta, non andrò a rinnovare quest’ultima. Non sceglierò tra Donna Elvira Raggi, Turandot Meloni (gelo che ti dà foco), Jago Marchini pronto a tradire l’irrazionale moro di Arcore, suor Angelica Giachetti, Tonio Fassina (autentico re di tutti i pagliacci, leoncavallini e non), don Josè Di Stefano e le altre comparse di una Porgy and Bess mascherata da Guglielmo Tell. Sul referendum di ottobre ci penserò. All’epoca avrò compiuto il quarantennio della maggiore età. Se una volta quarant’anni costituivano un tempo sufficiente per andare in pensione, spero che oggi bastino per valutare se sia opportuno seguire il consiglio di don Giovanni o di scrivere il libretto di un melodramma intitolato Aventino.

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