Don Giovanni

Addio, Marco

Pace all’anima tua, caro Marco! Non so se hai mai creduto all’anima. Io in proposito sospendo il giudizio, ma anche i preti, che tante volte tu hai avversato non certo per ragioni di fede ma per il loro protervo neotemporalismo, forse, non ci credono più. Loro credono alla Vita come supremo valore, dimenticando che una vita senza Libertà vale meno di nulla. Per loro la Libertà è libertà dal peccato, ed è peccato quel che loro considerano tale (oggi fra i più gravi è l’evasione fiscale, per gli altri c’è la misericordia ). Tu invece alla Libertà hai consacrato tutta la tua esistenza, fin da quando, giovanissimo, abbandonasti un Partito Liberale schieratosi “a destra della DC” come diceva Malagodi, tra le cui file allignavano personaggi che, a giudizio di Luigi Barzini jr, erano”più conservatori che liberali, alcuni per nulla liberali”. Forse partito liberista, però con tanti distinguo e tante prudenze; ma a te allora l’economia interessava poco o niente, e anche in seguito non ti ha mai scaldato troppo.

Non sempre ho condiviso le tue scelte, ma devo riconoscere che sei sempre stato coerente e hai sempre pagato di persona, soffrendo anche nella  carne, attraverso la dura disciplina gandhiana dei digiuni, i sacrifici che le  battaglie da te combattute imponevano alle tua coscienza. L’ammirazione per Gandhi – che ti attirò, non ne ho mai ben capito il motivo, gli strali di Bruno Zevi – è senz’altro uno dei più forti fattori di consonanza fra noi. La non violenza come arma di lotta  è figlia del principio di non aggressione, un principio “cristiano” nell’accezione crociana del termine: quella che i Quagliarielli e i Pera non hanno capito o non vogliono capire. Porgere l’altra guancia e magari farsi randellare e arrestare perché chi compie la violenza nel nome della legalità s’abbia a vergognare davanti alla disapprovazione d’un’opinione pubblica resa consapevole da un’informazione libera e spregiudicata è una forma di lotta civilissima: anche se va riconosciuto che può essere vincente solo in contesti dove in qualche modo siano tutelati i diritti della persona. E’ proprio sulla legalità, invece, o se preferisci sullo Stato di Diritto, che cominciano i nostri reciproci dissensi. Tu hai sempre violato una legalità ingiusta per sostituirla con una legalità più giusta, incarnata nelle istituzioni e nelle leggi dello Stato; io credo invece che lo Stato non possa mai essere giusto, perché il suo potere, indipendentemente dal consenso di cui può menar vanto, è frutto di un’usurpazione originaria. Proprio per questo motivo ritengo che il momento più glorioso del tuo Partito Radicale sia stato quello in cui era ancora un movimento extra-parlamentare, che s’avvaleva di tutti i mezzi, sempre non violenti, fino alla disubbidienza civile, di cui poteva disporre,  per scuotere un sistema sociopolitico intorpidito e porlo di fronte a problemi che si ostinava a non voler vedere. La tua gloria più fulgida -senza voler negare la bellezza di altre vittorie successive- rimane l’esito folgorante della battaglia per il divorzio. Fu una battaglia liberale nel senso più schietto del termine, di cui accese la miccia il socialista Loris Fortuna, mentre i Liberali di partito ci arrivarono buoni ultimi: anche se uno di loro, Antonio Baslini, si associò subito alla lotta, firmando la proposta di legge inseme col collega. Tu e il tuo partito la sosteneste fin dall’inizio con grande entusiasmo, dimostrando che, a dispetto dei nominalismi, i veri liberali eravate voi. Ricordo che dalle pagine della “Domenica del Corriere” Guglielmo Zucconi (se non un clericale, quasi) rinfacciò sarcasticamente ai Liberali di partito d’essersi lasciati sfilare  da altre forze politiche il primato d’ una proposta politica che avrebbe dovuto rappresentare un momento qualificante del loro programma. Il tuo colpo di genio, in quella battaglia, fu quando il laicato cattolico, robustamente sostenuto dalla gerarchia, raccolse le firme per il referendum abrogativo della legge da poco approvata. Mentre gli altri partiti che l’avevano votata se la facevano sotto, legati com’erano all’idea di un’Italia ancor ferma al bigottismo dell’immediato dopoguerra (bigottismo, in prevalenza femminile che – onore al merito – aveva salvato il Paese dall’inferno dei Soviet bocciando il Fronte Popolare), tu esultasti, accogliesti con entusiasmo la proposta referendaria, sicuro, grazie al tuo formidabile intuito politico, che l’abrogazione sarebbe stata respinta. E così fu: un trionfo.

Hai commesso anche tanti errori, non ultimo quello d’esserti schierato con gli antinucleari nel referendum indetto in Italia dopo i tragici fatti di Chernobyl. Sarebbe lungo spiegare perché, e ingeneroso mettersi a polemizzare proprio ora, mentre le guance si rigano di lacrime al pensiero che hai chiuso gli occhi per sempre, lasciandoci eredi d’un esempio di onestà morale e intellettuale che brilla come un faro solitario nelle tenebre d’una diffusa sozzura. Voglio invece ricordare due altre tue glorie, due battaglie che forse molti hanno dimenticato, perché quando si toccano certi tasti scattano rigidi riflessi condizionati: guai a sfiorare la polizia, guai a infangare l’esercito, giù le mani dall’ordine  pubblico e dalla difesa della Patria, ch’è “sacro dovere del cittadino”. Avesti il coraggio di affermare che il Quattro Novembre dev’esser giornata di lutto, non di festa. Sacrosanto! Oggi qualcuno propone di reintrodurre il servizio militare tra gli Alpini. Gli auguro di far la fine di quei “ragazzi del Novantanove” che, ancora in calzoncini corti, furono strappati alle loro famiglie per andare a morire al fronte,lanciandosi contro un “nemico” che non gli aveva mai torto un capello,  imbottiti di grappa e sotto la minaccia delle pistole puntate dietro le loro spalle dagli ufficiali dei loro battaglioni e dai Regi Carabinieri. Accogliesti tra le file del tuo partito, in un’epoca di pacifismo strabico, orientato a sinistra, mentre si discuteva accanitamente dei missili “Pershing” e “Cruise” della Nato da schierare contro le batterie sovietiche puntate sull’Europa, il candido Carlo Cassola, che combatteva la sua solitaria battaglia per il disarmo unilaterale. Non erano i tempi giusti, ma l’idea era giustissima, con una correzione: non va abolito solo l’esercito, va abolito lo Stato. Senza Stato, l’esercito non può esistere, perché non ci sono sacri confini da difendere: e a difendere le proprie mura domestiche uno ci pensa da solo. L’altra battaglia è quella contro l’imbarbarimento del sistema repressivo e penale, dalla famigerata”Legge Reale” che rendeva molto più difficile perseguire l’uso improprio delle armi da fuoco da parte delle forze dell’ordine, concedendo una sorta di “licenza d’uccidere”, a tutta la legislazione antiterrorismo, comprese quelle norme che concedevano lauti sconti di pena ai cosiddetti “pentiti”. Fu in grazia di queste ultime aberranti disposizioni che il povero Enzo Tortora ebbe la sorte che sappiamo. E, ancora una volta, rimaneste solo voi Radicali a difenderlo. E ancora una volta i Liberali di partito, delle cui file faceva parte, lo scaricarono senza pietà, abbandonandolo al suo destino.

Mi fermo qui, perché ho un groppo alla gola. Tu lo sai bene, anche i libertini come me (come noi?) sanno smettere, quando le circostanze lo richiedono, il loro tono beffardo, per abbandonarsi alle lacrime.

Giovanni Tenorio

Libertino