Don Giovanni

Ministero dell’Ignoranza

Se mi si dovesse chiedere qual è stato il miglior ministro dell’istruzione italiano del secondo dopoguerra, proprio non saprei rispondere. Nell’Italia post-unitaria qualche persona di alto livello si era avuta, primo fra tutti Giovanni Gentile, la cui riforma, anche se fatta propria e posta in essere dal regime fascista, nella sua essenza fascista non era. Della scuola italiana, nata secondo il modello accentrato della Francia napoleonica, si può dire tutto il male che si vuole (lo scarso peso delle discipline scientifiche, cui si è posto rimedio in modo troppo timido e graduale; la messa al bando dell’insegnamento musicale, considerato da Francesco De Sanctis roba da donnette), ma va riconosciuto che un tempo la Scuola Elementare offriva una buona preparazione, a vantaggio soprattutto delle classi sociali più povere, gli Istituti Tecnici non erano male e i Licei, nonostante i loro punti deboli, erano  scuole d’eccellenza. Il tracollo ha avuto inizio purtroppo in epoca repubblicana. La riforma della Scuola Media, concepita con le migliori intenzioni, ha avuto esiti deludenti. Da quel momento anche la preparazione degli insegnanti è andata declinando. Il Sessantotto ha dato il colpo di grazia. E’ cominciata l’epoca del facilismo, con lo smantellamento repentino di tutta quella serie di barriere interne al sistema scolastico che garantivano una continua verifica dei livelli d’apprendimento e, alla fine, l’acquisizione di titoli di studio che, oltre ad avere un valore legale (a mio parere, da buttare al macero), avevano, in un certo senso un valore morale, soprattutto se conseguiti presso istituti scolastici che godevano di buona reputazione. In un panorama del genere i diversi ministri dell’Istruzione che si sono susseguiti nella sede di Viale Trastevere hanno recitato la parte degli infermieri che accompagnano lentamente, passo dopo passo, un paziente alla pace perpetua. La “scuola a distanza” che ha deliziato gli studenti e le loro famiglie nell’anno scolastico passato, e continuerà a deliziarli, in un percorso a singhiozzo tra aperture e chiusure, anche in quello in corso e chissà fino a quando, equivale alla pietra tombale. Mi chiedo che razza di preparazione potranno esibire, una volta diventate adulte, le generazioni che hanno la sfortuna di vivere un’esperienza scolastica così disastrosa. Posso sbagliarmi, ma quelli che ne risentiranno di più, in futuro, saranno proprio gli attuali alunni delle Scuole Elementari appartenenti ai ceti più disagiati, che non hanno alle spalle famiglie sufficientemente acculturate per aiutarli e sostenerli nello svolgimento delle attività di apprendimento. La Scuola Elementare è il fondamento di tutto. Se frequentata con profitto, sotto la guida di buoni insegnanti, fornisce solide fondamenta su cui ciascuno può costruire la propria istruzione futura, scegliendo quei percorsi didattici che più si attagliano alle  attitudini emerse e maturate nell’esperienza scolastica primaria. Se invece l’istruzione elementare è lacunosa, recuperare ciò che si è perduto diventa via via più difficile con il passare del tempo,  perché le abilità mentali non rimangono uguali a sé stesse, con l’avanzare dell’età si irrigidiscono, e se non vengono esercitate a tempo debito perdono di vigore. Invecchiando il cervello si indurisce. Non per niente si dice che dopo i quarant’anni anche i matematici più provetti, di solito, non sono più in grado di scoprire nulla di nuovo. Avete mai visto qualcuno che diventa un grande pianista cominciando a studiare lo strumento non dico da vecchio, ma anche soltanto a venticinque anni? Uno che impara a guidare un autoveicolo in età un po’ troppo matura rischia di diventare un pericolo pubblico. Non parliamo dell’elettronica. I bambini in tenera età ne capiscono molto di più dei loro nonni che magari hanno studiato per tutta la vita le discipline più astruse, bellissime quanto inutili, ma davanti alla tastiera di un computer vanno in crisi.Proprio perché l’istruzione è sempre stata l’ultima ruota del carro, al dicastero di Via Trastevere sono sempre state mandate mezze calzette. Vi ricordate che cosa voleva fare Berlusconi della scuola pubblica? Inglese, Impresa, Informatica. “Si vergogni, Cavaliere”, scrisse in un suo editoriale Ernesto Galli della Loggia, e aveva ragioni da vendere. L’Inglese e l’Informatica le insegnano meglio le scuole private che quella pubblica; Le capacità imprenditoriali non si possono insegnare, sono innate, come il talento per la musica, la pittura, la poesia. Io sono convinto che in un sistema anarchico resterebbe qualche spazio spazio anche per le materie inutili, ma altamente formative: ci sarà sempre qualche pazzo disposto a insegnarle e qualcuno ancor più pazzo disposto ad apprenderle, pur sapendo che non gli frutteranno alcun vantaggio economico. Quando vedo tante splendide ragazze che suonano meravigliosamente (che cosa c’è di più inutile, ma anche di più bello?) in orchestre sinfoniche sempre sull’orlo del fallimento, perché oggi della grande musica non importa niente a nessuno, le abbraccerei per la gioia che mi danno. Non ci crederete, ma per una volta tanto il mio abbraccio non avrebbe un secondo fine. E in un sistema pubblico, come quello in cui viviamo? Io credo che la scuola debba insegnare in prevalenza proprio le materie inutili, quelle che il mercato tende a confinare ai margini, come discipline residuali. Altrimenti chiudiamola e non se ne parli più.Ci sarebbero tante altre osservazioni da fare sul disastro scolastico italiano. Ad esempio, sulla bella trovata della ministra Moratti, sempre in epoca berlusconiana. Ricordate il famoso “portfolio?” Era un attestato che doveva accompagnare ogni cittadino, registrando tutti i momenti del suo percorso formativo, nel bene e nel male: una sorta di viatico per entrare nel mondo del lavoro sulla base delle abilità apprese e sviluppate durante gli anni dell’istruzione scolastica. Idea bislacca di chi si dice liberale e liberale non è. Invece di abolire, come sarebbe giusto, il valore legale dei titoli di studio, si voleva dare alla carriera scolastica, formalizzata in un documento ufficiale, un valore giuridico capace di condizionare tutta la vita di una persona. Il passato è passato. Ognuno deve essere valutato per quello che sa oggi. Può essere stato un gran somaro a scuola perché era ancora immaturo o non aveva voglia di studiare, e poi, a sorpresa, aver cambiato atteggiamento ed essere diventato un asso, attraverso un percorso tutto suo, proprio in quelle discipline che un tempo aborriva. Ne conosco più di uno. Per fortuna, crollato quel governo, del “portfolio” non si parlò più. Eppure, a sentire gli esperti del ministero che in quei mesi venivano mandati in giro a indottrinare direttori didattici, insegnanti e famiglie, si trattava di una riforma irreversibile, un po’ come l’Euro nelle dichiarazioni programmatiche, testé proclamate, del banchiere Mario Draghi salvatore della Patria. Ministri mediocri, dicevamo, e qualcuno anche semianalfabeta. Francesco D’Onofrio, che occupò quel posto, se ben ricordo, nel primo governo Berlusconi, aveva qualche difficoltà con la consecutio temporum. Diceva “vorrei che sia” o qualcosa di simile, ostinandosi a dichiarare che è una forma corretta. Cessato l’incarico, si mise a fare il politologo. Non so che fine abbia fatto. La ministra Valeria Fedeli dovremmo ricordarla tutti. Quando la vidi per la prima volta, mi venne in mente quel che mi aveva detto, sconsolatamente, un mio caro amico molti anni prima: “Mio figlio oggi ha conosciuto la sua nuova insegnante. Più che una maestra, sembra una battona”. E’ una cattiveria, non bisognerebbe mai giudicare le persone dal viso, anche se molte volte la tentazione è forte. Ma giudicare un ministro dell’istruzione dal modo come parla o scrive è doveroso. Ebbene, la ministra Fedeli inanellava fior di strafalcioni, e quando in un articolo, scritto a suo nome chissà da chi, comparve un congiuntivo coniugato in un tempo scorretto, se ne assunse la responsabilità non ricordo più quale suo collaboratore (o collaboratrice) forse quella stessa persona che aveva scritto il testo da cima a fondo. La Fedeli non è laureata, ma questo non è un disonore, anzi potrebbe essere un titolo di merito. Benedetto Croce non era laureato. Neppure Gabriele D’Annunzio, che quando qualcuno ebbe l’ardire di chiamarlo “professore” respinse sdegnosamente il titolo, ricordando che a Napoli chiamano “professore” chi fa il gioco dei bussolotti. E’ invece un espediente meschino e plebeo accreditarsi titoli di studio che non si posseggono. Così fece la Fedeli, dimostrando la sua pochezza (così, in altro ambito, aveva fatto molto tempo prima Oscar Giannino, un altro liberale dei miei stivali). La ciliegina sulla torta è arrivata in questi giorni. Governo del grande banchiere Draghi (per favore, non chiamiamolo economista, avrà studiato anche con Federico Caffè ma ha sempre fatto il banchiere), metà di tecnici, metà di politici. Dai politici c’era da aspettarsi poco di buono, anche se è vergognoso che sia stato riconfermato alla Salute un figuro come Speranza, il quale dovrebbe finire davanti a un tribunale per quello che ha combinato nel governo Conte, e forse prima o poi ci finirà, non da solo (molte sono le denunce che stanno arrivando al Tribunale dei Ministri, anche se l’informazione di regime non ne dà notizia). Ma dai tecnici si pretendeva che sapessero almeno parlare correttamente. Soprattutto dal ministro dell’Istruzione, se è un tecnico anche lui, addirittura un professore universitario, anzi un rettore. Da un professore universitario ci si aspetterebbe che sappia parlare in buon italiano, anche se non è docente di Lettere. Ebbene, come ha esordito il neo-ministro Patrizio Bianchi, nella sua prima intervista? A chi gli chiedeva quando aveva saputo dell’incarico conferitogli, ha risposto: “L’ho imparato ieri” (sic). Poi ha rincarato la dose: “Speriamo che faremo bene”. Molti l’hanno giustificato. Era in preda all’emozione. “Imparare” per “venire a sapere”è espressione usata in Romagna, la terra natale del professore. Se è per questo, è riportata anche, come voce regionale, dai comuni dizionari. Quanto all’altra frase, più che scorretta è sciatta. Il verbo “sperare” si può costruire anche con l’indicativo futuro, benché di regola, quando il soggetto della subordinata coincide con quello della reggente, richieda l’infinito. D’accordo. Ma quando un professore, tra l’altro in qualità di ministro dell’Istruzione , parla in pubblico, anche in circostanze estemporanee e in contesti informali, dovrebbe saper controllare il suo linguaggio. Uno quando è da solo può anche mangiare con le mani e bere alla bottiglia, ma quando è invitato a pranzo è bene che usi le posate e il bicchiere. A meno che non violi le regole del galateo con un intento esplicitamente trasgressivo: “So che non si deve fare, ma lo faccio”. La differenza tra il rivoluzionario e l’ignorante è proprio questa. Il primo trasgredisce le regole di proposito, il secondo perché non le conosce. Chissà dove come e quando ha studiato l’italiano il neo-ministro dell’istruzione. Rivoluzionario o ignorante? L’uno o l’altro, tertium non datur. 

Appena terminata la stesura dell’articolo sopra riportato, da un’intervista del prof (?) Patrizio Bianchi al “Corriere della sera” mi giunge notizia che anche quest’anno l’esame di Stato si limiterà a un colloquio orale, prendendo spunto da un testo che ogni candidato avrà preparato sugli argomenti trattati nel programma dell’ultimo anno. E’ la seconda volta, credo, che capita qualcosa di simile nella scuola italiana in tempo di pace (durante i periodi di guerra non saprei dire, mi macano informazioni in materia). Visto che non si ha intenzione di far terminarre la cosiddetta pandemia (si troveranno a iosa nuove varianti del virus, dopo quelle inglese, sudafricana e brasiliana), si può sospettare che non ci sarà il due senza il tre, e l’anno prossimo gli esami si terranno allo stesso modo. In iIalia nulla è più stabile del provvisorio, così l’andazzo si perpetuerà negli anni a venire, diventando la norma. La scuola sfornerà legioni di analfabeti, che non sanno scrivere e sanno a malapena parlare. Il trionfo dell’oralità, osannata da certa didattica progressista negli anni Settanta dello scorso secolo, cui ha dato suo malgrado qualche contributo l’illustre Tullio De Mauro. Da un ministro semianafabeta che cosa ci si poteva attendere? Solo ulteriori manciate di merda su una scuola già non poco immerdata. In compenso, – parola dii ministro! – tutto il personale scolastico sarà vaccinato. Merda nelle anime e merda nei corpi.

Giovanni Tenorio

Libertino

2 pensieri riguardo “Ministero dell’Ignoranza

  • Alessandro Colla

    La frase di D’Onofrio era “vorrei che ne parliamo”.

  • Nessuno ricorda l’ “italianese” di Nicola Mancino? Da presidente espulse qualcuno (mi pare un leghista) che protestava in senato e poi tutto accalorato e sull’orlo dell’ictus continuava a ripetere “LO faccio imparare io, ecco… ecco…. ecco…” . Scena esilarante per me, che mi si impressa nella memoria (purtoppo non ne ho trovato riscontro in rete…).

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