Luminari poco illuminanti
Ho già spiegato altre volte che nella mia dissennata giovinezza a scuola ero un somarello. Ho avuto la fortuna, dato il mio nobile lignaggio, di avere a mia disposizione valenti precettori, ma i risultati erano molto deludenti. Continuavano a ripetermi che non si può pensare solo alle donne. Avevano ragione. Oggi alle donne continuo a pensare, ma nel mio cervello s’è aperto da tempo anche qualche altro spazio. Nonostante tutto, qualcosa ho imparato, e le nerbate che ho ricevuto per la mia negligenza non sono state del tutto vane. Riesco a comprendere anche qualche ragionamento di medio livello, specialmente se prende forma in un testo ben scritto. Però qualche volta entro in crisi. Leggo, e non ci capisco niente. Allora mi prendo la testa fra le mani e comincio a disperarmi. Non può essere effetto della vecchiaia, perché io, in quanto sostanza di cui sono fatti i sogni, non invecchio mai. Sono come mi hanno creato i miei genitoei 1 e 2, e tale rimango. Scorre la Storia davanti ai miei occhi, ma io resto sempre lo stesso. Non date ascolto a quelli che dicono che io sono un uomo sulla quarantina. Sapete quanti anni aveva il grande Luigi Bassi quando in quel fatidico 28 ottobre 1787 si esibì a Praga “creando”, come si dice in gergo teatrale, la mia parte? 22 anni! Ecco, la mia età è questa. E non mi vengano a dire i critici parrucconi che a 22 anni non si può aver conquistato 2060 donne (tale è il numero che risulta dal catalogo di Leporello, andate a fare il conto). Si può, eccome! Basta chiamarsi Don Giovanni Tenorio. Non per niente sono diventato un mito.Sta di fatto che, come vi dicevo, ogni tanto entro in crisi, nel timore che le mie facoltà mentali comincino a vacillare. Se non è per la vecchiaia, che non mi appartiene, sarà perchè penso troppo alle donne, come mi rimproveravano i miei precettori? Può darsi. Se il sangue, anziché alla testa, scorre da qualche altra parte…In questi giorni mi è venuto davvero un colpo. Ho trovato sul “Corriere della sera” un articolo di Ilaria Capua e mi sono immerso nella lettura. Col procedere, il viso mi si scoloriva sempre più. Non per i motivi per i quali Paolo e Francesca impallidivano leggendo le avventure di Lancillotto e Ginevra: lo scritto non parlava d’amore, e io non avevo accanto a me, per una volta tanto, nessuna deliziosa fanciulla. Trascoloravo perché non ci capivo niente, ma proprio niente, anche dopo averlo riletto più volte. In preda al panico, ho telefonato a due mie care amiche che, a differenza di me, hanno sempre studiato con diligenza e posseggono conoscenze scientifiche, specialmente in campo medico e biologico, di ottimo livello. Ho chiesto loro se potevano leggere l’articolo, cercare di capirci qualcosa e poi spiegarmelo. Mi hanno accontentato. Dopo poche ore, una mi ha chiamato e mi ha detto: “Non ho capito dove voglia andare a parare”. E, subito dopo, l’altra: “Mal scritto e incomprensibile”. Ho tirato un respiro di sollievo. Forse non sono così ignorante e duro di comprendonio come temevo. Forse,qualche volta, se non capisco è perché chi scrive non vuole o non sa farsi capire. Forse oggi i direttori dei giornali non controllano quello che pubblicano. Se chi scrive porta un nome illustre, non importa se usurpato, si pubblica senza fiatare. Un tempo poteva capitare che Piero Ottone telefonasse personalmente a Pasolini per concordare con lui modifiche a un articolo troppo urticante. Si dirà: in quel caso c’erano di mezzo la politica e il pericolo di una denuncia penale quasi certa, che sarebbe costata cara sia allo scrittore sia al direttore. D’accordo. Allora ricorderò che il grande Indro Montanelli una volta chiamò nel suo studio il critico d’arte Luciano Caramel (un personaggio che non ho mai potuto sopportare, ma al quale auguro lunga vita) e lo costrinse a riscrivere da cima a fondo un articolo che altrimenti, pieno com’era di tecnicismi e arzigogoli vari, il lettore medio non avrebbe compreso. Direttori del calibro di Arrigo Benedetti correggevano addirittura gli errori grammaticali e sintattici e le brutture lessicali dei loro collaboratori. Il verbo “disattendere” che oggi tutti usano? Da bandire -diceva- perché puzza di gergo burocratico. Oggi tutti i giornalisti, o quasi, scrivono “fila”, per “file” nel senso di “schiere”.Ecco dove porta l’aver gettato nel cassonetto lo studio del Latino. Mi chiedo che cosa si studi all’Università nella Facoltà di Scienze della Comunicazione. Semiologia, grammatica generativa e altre finezze del genere? Farebbero bene a tornare al “Fiore di lingua” di De Amicis, l’Edmondo dei languori capitan cortese di carducciana memoria.
Ma, in somma, che cosa scrive la Capua? Difficile fare una sintesi di quel che non si intende, ma ci proverò. La premessa è abbastanza chiara: un virus trae la sua forza in primo luogo dalle sue caratteristiche naturali, in secondo luogo dal contesto sociale in cui si diffonde. Niente da obiettare, anche se piuttosto ovvio. Un raffreddore non è la peste bubbonica. In una grande città, dove i rapporti sociali sono più intensi, per motivi di lavoro ma non solo, un virus ha modo di contagiare più persone che in una località solitaria e poco densamente popolata, dove gli incontri avvengono in ambito familiare, e poco oltre, e i contatti con il territorio esterno sono limitati.. Quel che proprio non si capisce è il terzo motivo di contagio, che avrebbe pesato in modo rilevante sulla diffusione della pandemia in corso, rendendola difficilmente controllabile: la capillarità della rete comunicativa, che attraverso i tradizionali canali di informazione e i cosiddetti “social media” percorre il mondo d’oggi, diffondendo le notizie con un’intensità e una rapidità un tempo sconosciute. Qui comincio a non capire. Che cosa si intende dire? Che un certo tipo di informazione condiziona l’opinione pubblica, deformando la realtà? Non credo, visto che la stessa Ilaria Capua è parte del sistema, e il suo stesso articolo -che non è il primo pubblicato dall’illustre quotidiano meneghino – contribuisce a ingarbugliare i pensieri, come se non fossero già abbastanza aggrovigliati. Vuol riferirsi non all’informazione corrente, quella dei grandi quotidiani e delle reti televisive più popolari, ma alla controinformazione dei cosiddetti negazionisti, che si avvale di circuiti di nicchia? Da alcuni cenni sembrerebbe di sì; ma rimane vero che i cosiddetti negazionisti sono quattro gatti; e anche personaggi come il prof. Giulio Tarro, che sono studiosi serissimi ma non vengono mai intervistati sui media di regime, rimangono “voces clamantium in deserto”. Facciamo allora l’ipotesi che si voglia alludere a tutta l’informazione, buona o cattiva che sia, comprendente affermazionisti e negazionisti, vaccinisti e antivaccinisti, terroristi e antiterroristi. Qual è il significato ultimo di quel che si vuol dire? Non certo che la pandemia è dipinta dai media come più grave di quello che è, per due motivi: 1) dei media di regime – i primi responsabili del terrore – fa parte, come si diceva, la stessa Capua, che non può tirarsi la zappa sui piedi criticando il sistema da cui trae lauti sostentamenti (2000 euro per dieci minuti in TV; quanto riceverà per un articolo sul “Corriere”?); 2) i cosiddetti negazionisti, sminuendo la pericolosità del virus, non contribuiscono certo ad aumentare la paura. Penultima ipotesi: i negazionisti, con la loro propaganda, inducono la gente a tenere comportamenti irresponsabili, che provocano la diffusione dei contagi. Ma questo non è detto esplicitamente in nessun punto dell’articolo. E poi, sono gli stessi giornali di regime a ripetere che gli italiani si sono dimostrati, finora, incredibilmente disciplinati, tranne qualche giovane scavezzacollo che quest’estate ha fatto il matto affollando le discoteche o qualche mentecatto che in occasione delle feste imbandisce banchetti luculliani invitando decine di amici e conoscenti (e peccato che gli sbirri non possano fare irruzione nelle case private per sbattere in gattabuia chi trasgredisce i DPCM dell avvocaticchio Conte). Ultima ipotesi: la Capua va interpretata letteralmente; se cresce l’informazione, ipso facto cresce anche il contagio, per una sorta di magia. Più ne sai della malattia, più ti infetti. Non posso crederci. Se la tesi è questa, chi la sostiene dovrebbe essere sottoposto a TSO. La Capua non se lo merita. Non è una pazza, è solo una persona che scrive male e forse ha le idee un po’ confuse. Tutto qua. Bene, ma il mio rovello resta. Che cosa voleva dire? Se qualcuno dei miei venticinque lettori ha tempo da perdere, lo invito a leggersi l’articolo (si trova in rete: basta digitare ILARIA CAPUA-CORRIERE DELLA SERA) per poi riferirmi se ha capito qualcosa e siamo io e le mie due amiche i ritardati mentali. Come sempre, sono disposto a ricredermi e a fare ammenda. Sapientis est mutare consilium. Anche se io, come detto sopra, sono tutt’altro che sapiente.
PS. Mentre pubblica articoli, talora incomprensibili, di luminari tutti orientati nella medesima direzione, il “Corriere” dà inizio a una collana di libri d’argomento medico diretta da Burioni. Si salvi chi può. Il glorioso quotidiano meneghino ha fatto la fine del primo teatro del mondo. Questo è diventato teatro di provincia, quello gazzetta di quart’ordine.
A parte Remuzzi, che mi dà un po’ di fiducia, tutti i medici che blaterano sul covid mi danno fastidio, Capua compresa. L’articolo del Corsera è astruso e noioso, ma la Capua stessa mi è sempre apparsa astrusa, noiosa e ben poco “smart” nelle interviste; secondo me ha pure discrete difficoltà di eloquio.
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Sulla giusta difesa del buon lessico, io voglio metterne in luce gli eccessi disgustosi, sennò mi annoio.
Prendiamo il caso del cercare di non ripetere un nome più di una volta, ma trovare si sinonimi, come ci insegnano a sQuoLLa, diciamolo pure: è una paranoia tutta italiota.
In un articolo/notiziario USA di 15 righe sul Presidente, se c’è da nominarlo 4 volte sentiremo 4 volte la parola “Mr.Trump” (presto non più, per fortuna).
Qui da noi, in un caso analogo, avremo:
– un “Mattarella”;
– un “capo dello stato”;
– un “presidente della repubblica”;
– un altro “Mattarella” (il più lontano possibile dal primo, meglio se preceduto da “Sergio” per cambiare un po’ (quando poi non si ricorra a vomitevoli frasi tipo “l’inquilino del quirinale”).
What a wondeful purism, isn’t it? Thanks God, I’m just a sweet old nazi-dada.