Barboni a Milano
E’ passato appena un giorno dalla pubblicazione dell’ultimo nostro articolo, ed ecco che la notizia della morte per ipotermia di un senzatetto a Milano, presso la stazione del metrò di Molino Dorino, conferma la gravità di una situazione che – me ne dispiace- forse avevamo trattato in toni po’ troppo leggeri e ironici. Siamo in pieno degrado, a dispetto delle luci ad alto risparmio energetico che illuminano Piazza della Scala alla vigilia di Sant’Ambrogio. Oggi li chiamiamo “clochard”, una volta li chiamavamo barboni. Ricordate la canzone di Enzo Jannacci “El portava i scarp de tennis”? “L’han trovaa sotta a on mucc de carton/ gh’hann guardaa che’l pareva nissun/ l’han toccaa che’l pareva che ‘l dormiva./ Lassa sta, che l’è roba de barbon”. Anche allora poteva capitare che qualcuno di loro morisse per strada, fra l’indifferenza di tutti. Ma forse quella era una realtà più mite, un po’ romantica. Penso a uno splendido libricino, ormai introvabile, di quel finissimo gentiluomo che fu Giulio Confalonieri, insigne critico musicale i cui severi giudizi facevano paura, e spesso coglievano nel segno (fu l’unico a non condividere l’entusiasmo dei suoi colleghi per l’esordiente soprano Elena Souliotis nel “Nabucco” diretto da Gavazzeni che apriva la stagione della Scala 1966-67: ha due toni di voce che non si amalgamano tra loro, scrisse . La Souliotis, che doveva essere la nuova Callas, ebbe da allora una ben modesta carriera).
Il libricino si intitola “Barboni a Milano” ed è il frutto delle esplorazioni che, in incognito, l’autore aveva compiuto nel sottobosco della malavita e del lumpenprpoletariat milanese, a Porta Ticinese, nei quartieri malfamati, nei “trani” che Giorgio Gaber avrebbe resi illustri nelle sue canzoni, fra risse, bevute, canti a squarciagola, risate, e qualche accoltellamento. Erano barboni milanesi DOC, quelli da lui descritti senza velleità sociologiche, ma per un puro gusto letterario. La loro era spesso una scelta di vita, una sorta di anarchismo straccione e, in fondo in fondo, felice. Una rivolta non violenta contro gli obblighi e le convenzioni della società. Un vivere senza lo Stato, rifiutandone i servizi ma anche i soprusi. Sorprendenti le pagine finali, dove l’autore racconta di aver accettato dalle autorità (che conoscevano le sue frequentazioni, come scrittore, di certi ambienti) l’incarico informale di scovare, a Milano, i vagabondi e i senzatetto, perché potessero essere registrati in occasione di un censimento che si stava svolgendo. Chiuse le operazioni burocratiche, Confalonieri andò non so più in quale catapecchia a svegliare un barbone che lì si era rifugiato per sottrarsi alla registrazione, e gli comunicò che ormai era fuori pericolo. Simpaticissimo quel barbone, che per la sua mole era soprannominato “el cardenzon del trani”; ancor più simpatico Confalonieri, che, sotto il manto dell’eleganza, della cultura, dello stile, nascondeva forse anche lui un cuore un po’ anarchico: si narra che una volta sia salito in loggione alla Scala, non in veste di critico, ma di semplice spettatore pagante, e abbia manifestato con un sonoro fischietto il suo dissenso verso un’Opera – credo di Menotti, ma non vorrei sbagliare – che proprio non poteva sopportare. Un bell’esempio per i pubblici di oggi, che ingoiano senza batter ciglio tutte le schifezze. La Milano d’oggi non è più quella di ieri. Una volta i migranti erano i terroni: ne ha dato una mirabile rappresentazione Luchino Visconti in “Rocco e i suoi fratelli”, tratto dai racconti del “Ponte della Ghisolfa” di Giovanni Testori. Nonostante gli attriti, fu abbastanza facile integrarli. Se scorriamo l’elenco telefonico cittadino, troviamo più cognomi terroni che milanesi. Anche il grandissimo, compianto Piero Mazzarella, degno erede spirituale di Edoardo Ferravilla, era di origine terrona, con quel cognome che è tutto fuorché meneghino. Oggi gli immigrati sono in gran parte extra-comunitari. Molti di loro finiscono a medicare e a dormire all’addiaccio dove possono. Non tutti rinforzano le file della piccola e grande criminalità, ma sicuramente, oltre che un problema sociale, sono spesso un pericolo per la sicurezza pubblica. Sono il frutto di quell’accoglienza indiscriminata che le anime belle della sinistra e i cattolici bergogliani sollecitano come un imprescindibile dovere morale. Purché poi siano gli altri a farsene carico. Sono il frutto di un “welfare State”, che inevitabilmente attrae chi non ne ha parte, e fa di tutto per entrarci, ma suscita reazioni di rigetto in coloro che, pur avendone parte, faticano a sbarcare il lunario e – a torto o a ragione – pensano di essere discriminati a favore degli stranieri venuti da fuori e accolti per ragioni umanitarie (o proclamate per tali), beneficiando di servizi pagati anche da chi sta peggio di loro (o così crede). Tanto per cambiare, lo Stato è il problema, non la soluzione. In occasione della “Prima”, ancora una volta la città di Milano sarà blindata come ai tempi di Bava Beccaris. Si suonerà l’inno nazionale, si sventoleranno bandiere, si farà largo alle autorità, che potranno assistere gratis, magari sbadigliando, a uno spettacolo (sicuramente brutto, come tutti quelli degli ultimi anni) per cui gli esponenti dell’alta borghesia meneghina sborsano fior di quattrini, pur di avere un posto in platea o in palco, ove mettersi in mostra (mi ricordano quei poveri coglioni che spendono capitali per pavoneggiarsi indossando qualche straccetto firmato da uno stilista culattone).
Ho una proposta. Questa volta non scherzo, parlo sul serio. Si rinunci a ogni trionfalismo, e prima di dar inizio alla “Tosca” dei miracoli (la “Ur-Tosca” arricchita delle battute che Puccini gettò nel cestino della spazzatura) si faccia un minuto di silenzio, in piedi, in omaggio al Signor Nica Tudor, il romeno senzatetto, disabile, morto sulla sua sedia a rotelle alla vigilia della gran festa di Sant’Ambrogio, nella città d’evirati cantori allettatrice.
Non so se qualcuno abbia seguito il consiglio, non credo. Ma se anche fosse, sarebbe stato un altro modo per pavoneggiarsi da parte di coloro che spendono tanto per annoiarsi dal momento che di cultura capiscono meno del nulla. Nel frattempo immagino che sia andato avanti uno spettacolo all’insegna dello “… Zingaretti vincitor” pronunciato a uno stralunato Scarpia travestito da Buttiglione per far vedere che “loro” sì che sono contro gli integralismi, purché non coranici Tanto, parodia per parodia…
Anche quest’anno grazie a Dio, il grande Luna Park di Sant’Ambrogio è finito. Fino all’anno prossimo respiriamo. Non ci capiterà più di leggere, in un’intervista al regista, frasi del genere: “Verdi usava periodi storici per bypassare la censura e parlare alla società. Puccini voleva emozionare”; dove non si sa se biasimare di più la pochezza del pensiero o la barbarie dell’eloquio. In tutto degni del pattume che s’è visto in scena. Un Grand Guignol che, nel secondo atto, esaspera gli aspetti realistici, e meno convincenti, di una partitura in cui sono molti i momenti di grande bellezza (guastati dall’aver voluto reintrodurre le battute che il compositore, con ottime ragioni, dopo l’esordio a Roma, tagliò). S’è voluto fare di “Tosca” un inno alla libertà. Semmai è un inno all’amore. L’erotismo più sensuale, non l’amore coniugale di Leonora in “Fidelio”, il capolavoro di Beethoven che, quello sì, è un inno alla libertà e una condanna della tirannide. Cavaradossi e Tosca non sono due eroi, sono due fanciulloni dallo spirito ancora adolescenziale, che con il loro comportamento maldestro si mettono in trappola. Il vero dominus dell’azione è Scarpia, personaggio perfido, ma raffinato, colto, intelligentissimo. Non come don Pizzarro, che è solo un tiranno brutale. Nell’interpretarlo, Luca Salsi è stato professionale, null’altro . Più che una diva che interpreta la parte di una diva, la Netrebko è una patatona che, con quell’abbigliamento, assomiglia alla ministra Teresa Bellanova. Si ha l’impressione che canti senza capire quello che dice; altrimenti non si spiegherebbe come abbia potuto, nel secondo atto, ripetere una battuta, mettendo in difficoltà il suo interlocutore e rendendone incomprensibile la risposta. Si comperi una buona grammatica italiana e se la studi. Come si può cantare l’Opera italiana senza sapere l’italiano?
Forse in Sardou c’era un intenzione di inneggiare alla libertà. Ma è evidente che Scarpia finisca per essere l’autentico protagonista. Un po’ come Shylock rispetto ad Antonio e Porzia nel Mercante shakespeariano, pur nella differenza dei rapporti tra questi ultimi due. Forse un paragone un po’azzardato, la mia è solo un’impressione epidermica. Mi sembra giusto chiedere ai cantanti di oggi una migliore pronuncia. Ricordo Franco Corelli che pronunciava malissimo, al contrario di Giuseppe Di Stefano, così come delle imprecisioni fonetiche di Mirella Freni. Un basso straniero del quale non ricordo più il nome, veniva notato per l’interpretazione di un Basilio che si esprimeva con “… un ceremuoto, un cemporale; un ciumulcio cci – enerale che fa l’auria reimbaumbar”. Per fortuna Il Barbiere è già comico di suo.