Don Giovanni

Le barzellette di Ignazio Visco

Festival di Sanremo
Festival di Sanremo

Una volta c’era il Festival di Sanremo. C’è ancora, ma è molto scaduto, non fa quasi più notizia. Erano una pacchia, negli anni Cinquanta del secolo scorso, quelle canzonette: se ne parlava un mese prima, si canticchiavano per tre mesi dopo, tenevano banco sui giornali, nelle conversazioni quotidiane; erano più importanti delle più gravi questioni di politica nazionale e internazionale. Io credo che a unire il Bel Paese non siano stati né il servizio militare, né la scuola dell’obbligo né la Guerra del 15-18 né il Fascismo né la Repubblica fondata sul lavoro, ma il gioco del calcio e il Festival di Sanremo. Oggi ci sono altri festival, molto più sciccosi: quello della Filosofia, per esempio e, buon ultimo, quello dell’Economia. Passi per la Filosofia, anche se non è materia molto allegra; ma che si faccia addirittura un festival dell’Economia, la scienza triste, com’ebbe a definirla Thomas Carlyle, mi sembra un po’ troppo. Che cosa c’è da festeggiare, o se si preferisce, da festivaleggiare, dopo un decennio e più di errori madornali sul piano teorico, pratico, previsionale da parte degli economisti pontificanti dalle Cattedre, accomodati a capo di Ministeri, assisi sugli scranni delle Banche Centrali? L’Economia s’è rivelata ancor più inconsistente della Meteorologia: i meteorologi qualcuna la azzeccano, gli economisti le hanno cannate tutte. Così riflettevo fino all’altro ieri, ma adesso che il Festival è cominciato, sto cambiando rapidamente idea. E’ divertentissimo, vi si raccontano barzelette addirittura più esilaranti di quelle che corrono sul conto dei carabinieri. La prima è proprio bella. Il tema del convegno è “imparare dagli errori”. Non fa ridere, direte voi. No, in sé non fa ridere affatto, è un motto vecchio come il  cucco, da muffiti usciti dal Liceo Classico: “errando discitur” dicevano già gli antichi, come ci insegnavano i decrepiti, uggiosi professori di greco e latino. Quel che fa ridere è il confronto con la realtà. Imparare dagli errori? Non si direbbe! Gli economisti fanno come i medici dell’Ottocento che salassavano i malati, e quando vedevano ch’erano ridotti allo stremo per la debolezza, invece di cambiar terapia li salassavano ancor di più, fino al requiem aeternam… Un motto assai migliore sarebbe stato “perseverare diabolicum”; che è esattamente quanto stanno facendo gli economisti di regime: iniezioni di liquidità, bolle speculative, disastri, altre iniezioni di liquidità, altre bolle speculative altri disastri, un vero perpetuum mobile, und so weiter und so weiter und so weiter… La più bella barzelletta l’ha però raccontata l’esimio Governatore della Banca d’Italia, che introduce il discorso con una citazione da Kirkergaard (tanto per far vedere che il Liceo l’ha fatto anche lui), piuttosto banalotta, a dire il vero:” La vita può esser capita solo all’indietro, ma va vissuta in avanti” Avete mai visto qualcuno che capisce quanto capiterà nel 2200 ed è capace di vivere a ritroso fino all’inizio dell’Ottocento? Bisogna esser filosofi per avere intuizioni così folgoranti? Ci arriverebbe non dico quella testa di legno di Don Ottavio, ma addirittura quello zoticone di Masetto! Il culmine dell’ilarità però arriva più avanti, quando l’illustrissimo non esita  ad affermare, mantenendosi serio in volto alla stregua di Buster Keaton faccia di ghiaccio, che il mercato non si autoregolamenta, come proverebbe l’ultima crisi che ha travolto il mondo, quella in cui, almeno qui in Europa, per non parlare del Bel Paese, ci stiamo ancora dibattendo. Bum! Ma davvero? Diamo la parola all’illustrissimo: negli Usa hanno creduto che ci sarebbe stato un aumento continuo dei redditi, che le famiglie potessero comprare case all’infinito e invece si sono ritrovati con un eccesso di debito privato “e da questo errore ne (sic) è discesa tutta la filiera della crisi”. A parte il linguaggio involuto, qui c’è davvero da sbellicarsi dalle risa. Chi ha creduto che ci sarebbe stato un aumento ininterrotto dei redditi, basta volerlo? Un certo Alan Greespan, banchiere centrale, che ha immesso nel sistema quantità abnormi di moneta, tenendo bassi i tassi d’interesse nell’illusione di perpetuare uno sviluppo che appariva prodigioso. Che c’entra qui il mercato, se la quantità di moneta circolante dipende dalle decisioni di un istituto monopolistico e i tassi d’interesse sono il frutto di manovre artificiose? Quanto all’illusione di poter  comperare case su case contraendo debiti che poi non si è più stati in grado di onorare, l’illustrissimo finge di non ricordare che fu il “conservatore di buon cuore” Bush junior a volere una politica di mutui a tasso di favore, dietro garanzie fragili o addirittura nulle, ad opera di agenzie paragovernative come Freddie Mac e Fannie Mae. Anche qui, dov’è il mercato? Nessuno, senza spinte e reti di protezione governative, avrebbe mai concesso prestiti con tanta leggerezza! E’ questo l’errore – del dirigismo politico-economico, non del mercato – da cui è discesa (senza quel “ne” pleonastico, per favore) tutta la filiera della crisi. Detto in parole povere: mutui a tassi agevolati senza garanzie, sviluppo abnorme del settore edilizio, crollo dei prezzi delle case come risultato della bolla speculativa, crediti divenuti inesigibili…
L’illustrissimo ci sta turlupinando, è troppo intelligente, oltreché colto, per credere a quello che dice. Porta semplicemente acqua al suo mulino. Come governatore di banca centrale, non può che esaltare la funzione delle banche centrali, altrimenti come giustificare la sua funzione, retribuita tra l’altro con un onorario così succoso da leccarsi le dita? Certo che servono i banchieri centrali, servono per porre regole, per correggere un mercato che altrimenti sarebbe causa di filiere d’errori: perché il mercato è anarchico,  l’anarchia è disordine, e il disordine è il peggiore dei mali. Governo ci vuole, governo della politica e governo della moneta, inestricabilmente legati l’uno all’altro da un nodo gordiano. Ci vuole, in poche parole, lo Stato, altrimenti andrebbe tutto a catafascio. Marameo, illustrissimo!

Giovanni Tenorio

Libertino